Il 6 novembre 1983, il nostro centro studi organizzava un seminario con Cornelius Castoriadis nella sede che allora era in viale Monza 255. Quella che segue è la trascrizione/traduzione della seconda parte del dibattito denso che seguì all’intervento pubblico sull’immaginario sociale che Castoradis aveva tenuto il giorno prima in altra sede. Questo testo, conservato nei nostri archivi, era fino a ora inedito. A distanza di quarant’anni non riusciamo più a identificare le persone che pongono le domande o esprimono una propria opinione. Abbiamo invece identificato con certezza Eduardo Colombo perché era anche lui invitato al seminario, e infatti è l’unico nome che ricorre nel dibattito. Infine la registrazione, ahimè non troppo professionale e usurata dal tempo, presenta alcuni «buchi» che ovviamente segnaliamo, lasciando alla fervida immaginazione del lettore di ricucire il discorso complessivo.
L’immaginario sociale. Dibattito con Cornelius Castoriadis
Registrazioni audio e trascrizione. Parte Seconda. [Qui la prima parte]
Domanda: Vorrei fare due domande: una è sul problema dello Stato e l'altra è una domanda sul sistema di valori. Tu dicevi che la forma fabbrica del capitalismo riprende centralmente elementi dell'organizzazione militare e amministrativa …. Vorrei sapere se ci puoi dire qualcosa sull'esistenza di un significato immaginario centrale che ha trasformato lo stato capitalista e se puoi stabilire relazioni e interazioni fra questo significato centrale e il significato centrale del capitalismo come lo hai definito ieri sera. Vorrei inoltre chiederti se puoi rispondere a queste domande relativamente al potere sovietico. Il tipo di potere sovietico che presenti prima della guerra ha oltrepassato oggi il significato centrale del capitalismo? Questo è il primo aspetto della domanda… L'intento di Rubel di fondare un'etica marxiana… il paradigma teorico dell'immaginario…
CC: Sì, rispetto alla prima domanda, credo sia un ottimo esempio di relazione del passato al presente nella creazione storica, un punto che abbiamo spiegato male ieri sera. Quando si guarda l'organizzazione della fabbrica capitalista, la si può definire mediante questa «razionalizzazione», ma questa razionalizzazione ha chiaramente un carattere molto particolare. Di fatto si tratta di una razionalizzazione burocratica, ovvero gerarchica: vi sono la piramide dei posti di lavoro e le province di competenza che diminuiscono a mano a mano che si scende nella scala gerarchica e, allo stesso tempo, vi sono istruzioni, ordini, che si vogliono idealmente assolutamente precisi e che ciascuno deve svolgere nella propria piccola sfera di competenza. Quando si descrivono cose di questo genere, si vede immediatamente che questo tipo di organizzazione non è un'invenzione del capitalismo, ovvero il capitalismo la prende in prestito da qualche cosa che esiste già, per esempio, nell'amministrazione dello stato centralizzato e nell'organizzazione dell'esercito dello stato nazionale.
Apro una parentesi: quando è incominciato il taylorismo? Risposta: il libro di Taylor che parla della one best way è del 1907. Il Che Fare? di Lenin, che descrive un taylorismo politico, è del 1903; però, nel 1596, vi è un manuale di istruzioni militari di Maurice de Nassau, statolder delle Province Unite dei Paesi Bassi, che è un grande militare, in cui i gesti per caricare, armare, mirare, sparare e pulire l'archibugio sono divisi in 64 gesti separati. Questi gesti devono essere eseguiti meccanicamente nell'uniformità totale da tutta la compagnia sotto la sorveglianza del sergente; già qui quindi vi è la divisione taylorista dei gesti, ove ogni volta il gesto migliore viene analizzato e scomposto, e questo manuale di Maurice de Nassau diviene rapidamente in tutta Europa la base dell'addestramento militare e delle esercitazioni militari. Particolare divertente: nel 1610, in un'epoca in cui forse l'1% della popolazione russa sa leggere e scrivere, il manuale di Maurice de Nassau viene tradotto in Russo dalla Zar e diviene la base dell'addestramento militare.
Ecco un esempio di ritardo tecnologico e di attualità del settore civile e del settore militare, perché, come dice, credo, S…[incomprensibile]: «nel mio paese, si inviano razzi sulla Luna e si continuano a raccogliere le patate con le mani». Il capitalismo riprende quindi questi elementi da qualcosa che già esiste, e possiamo persino andare più indietro: già la burocrazia imperiale romana, o imperiale cinese, il mandarinato.... Ma dove sta la differenza? La differenza è che, in questa organizzazione gerarchica «razionalizzata», il burocratico era, se si può dire così, statico, e qui bisogna davvero pensare alla burocrazia statale tradizionale dove si fanno sempre le cose secondo quanto avvenuto in precedenza. Nel capitalismo questa cosa si trasforma completamente perché ciò di cui si tratta è l'espansione continua, e questa espansione non è semplicemente esterna o spaziale; è anche un'espansione interna, ovvero la razionalizzazione deve penetrare questa organizzazione gerarchica e burocratica non come una razionalizzazione data una volta per tutte, ma come un processo di razionalizzazione, ovvero questa organizzazione data viene costantemente sconvolta poiché si cerca di modificarla per farla rendere di più e per farle produrre altro, eccetera.
La terza fase è ben inteso a partire dal momento in cui, più o meno, lo stato e l'esercito cadono anche loro sotto l'impronta di questi significati del capitalismo, ovvero anche la burocrazia statale e militare devono trasformarsi costantemente per modernizzarsi, con due conseguenze. La prima è che, per questo motivo, non si può parlare di burocrazia in generale come categoria trans-storica – e questa è una critica che si può muovere a Max Weber – perché effettivamente, dal punto di vista formale, la burocrazia mandarina cinese e la burocrazia di General Motors si presentano come assolutamente sovrapponibili, in un certo senso, ma la burocrazia mandarina cinese è lì per riprodurre eternamente la stessa cosa, mentre la burocrazia di General Motors è lì per cambiare costantemente, anche se è sempre la stessa, cioè è la stessa da un altro punto di vista. Seconda conseguenza molto importante, la burocrazia tradizionale cinese, imperiale, romana, o anche dello stato dell'’Ancien Régime non produce questa contraddizione interna, questa antinomia prodotta dalla burocrazia capitalista moderna.
Intendo dire, grosso modo, che si tratta di un sistema statico, che ha la sua «razionalità». Questa razionalità è ciò che è, la si conosce, è data una volta per tutte, vi sono regole e criteri per decidere ogni cosa; il sistema, senz'altro, vuole dominare la popolazione, sfruttarla, opprimerla... ma non vi sono contraddizioni interne. Nel mondo moderno, a reclamare una razionalità è questa burocrazia capitalista, statale, militare, che ha lo scopo di produrre e gestire qualcosa che cambia costantemente... tuttavia non può fare riferimento a una razionalità data, e ciò si vede in una serie di «traduzioni» su cui si potrebbe discutere lungamente, e ciò dà un ben altro carattere dinamico all'opposizione fra l'apparato burocratico e – diciamo – la base.
Rispetto alla seconda domanda non ho molto da dire, sebbene sia molto importante. Personalmente, ritengo che i tentativi di Rubel siano un'idiosincrasia: la questione dell'etica è un'altra questione. Ritengo che, in un certo senso, per noi oggi vi sia quasi una corrispondenza fra la questione etica e la questione politica. Direi che l'imperativo nel campo politico sia il lavoro o la lotta per l'autonomia a livello sociale e che, nella dimensione personale o privata, l'imperativo o il principio guida sia trattare gli altri come esseri autonomi e, nei limiti del possibile, contribuire allo sviluppo della loro autonomia. Detto questo, i problemi sono ogni volta concreti: come lo facciamo e come si dovrebbe fare.
Domanda: Qual è la tua concezione degli uomini? Dalle tue posizioni, mi sembra che vi sia una prospettiva idealistica: vorrei sapere se hai un’altra concezione dell’uomo. Nella realtà socio-storica esiste una diversità rispetto alla realtà fisica e naturale – secondo quanto tu dici – e questa è una continuazione di quello che era già stato fatto dalla scuola idealistica che praticava la scienza... Non credo sia possibile quindi riconoscere una regolarità di questo mondo e riconoscere anche un’interpretazione del mondo sociale e storico. Quindi, questo tipo di riconoscimento rientra in questa prospettiva idealistica, che non è detto si debba criticare, può essere ragionevole o valida ugualmente.
CC: Mi è difficile discutere la questione in questi termini perché secondo me l'opposizione non è fra l'idealismo e il materialismo: il materialismo è idealismo, è evidente. Che cosa dice il materialismo? Che tutto obbedisce a leggi e che tutto è materia regolata dalle leggi. Allora, che cos'é la materia? Ebbene, dipende... In fin dei conti, che cos'è la materia? Nessun fisico risponderebbe a questa domanda: direbbe che ha a che fare con entità matematiche, ciò che in fisica si chiamano i quanti, i vettori di stato. E questo è tutto. E allora, le leggi che cosa sono? Le leggi non sono oggetti, sono relazioni ideali. Credo che l'opposizione, ancora una volta, sia fra filosofie della determinazione e dell'omogeneità dell'essere, e un pensiero come quello che cerco di sviluppare, che riconosce l'eterogeneità nell'essere e che riconosce le limitazioni della determinazione.
Rispetto all'eterogeneità, non posso dire di più di quanto non abbia detto poco fa: non vedo quale senso abbia dire che la differenza fra una sinfonia e una galassia sia puramente fenomenica, questa espressione a parer mio non ha nessun senso. Una sinfonia, una sonata, un quadro o una poesia appartengono a un altro modo e livello d'essere rispetto a una galassia o l'acqua che bolle in una pentola. Credo che occorra riconoscere questa eterogeneità, e credo anche che occorra riconoscere il fatto che vi sono limiti enormi all'idea di determinazione.
Ora, regolarità nel mondo socio-storico, tu dici: evidentemente vi è regolarità nel mondo socio-storico, vi sono infinite regolarità nel mondo socio-storico: se non ve ne fossero, non potremmo vivere, non potremmo parlare, non saremmo qui. Se non avessi la certezza che nel prossimo istante la nostra amica continuerà a tradurre, e che è praticamente escluso che tiri fuori una pistola e mi spari, non potrei funzionare. Di questo vi sono esempi innumerevoli: vi è la regolarità che fra un po' avremo dei panini, è sicuro, e stamani vi erano dei luoghi dove si potevano comprare dei panini, e che il mio aereo partirà stasera, eccetera.
Dal pubblico: Questo non è certo. [risate]
CC: Vi è persino una regolarità della nebbia, a Milano, di cui ho tenuto conto per il mio viaggio.
Dal pubblico: E degli scioperi.
CC: …e gli scioperi, certo. Però allora, precisamente, che cosa sono queste regolarità nel mondo socio-storico? Ancora una volta, se lasciamo perdere le cose banali, quelle per cui non c'é bisogno di una teoria del pensiero, come ad esempio che nella popolazione nasceranno bambini e bambine, e che la percentuale grosso modo oscillerà attorno al 50%... Se si lascia da parte questo genere di banalità, che cosa si osserva? Che le regolarità che si riscontrano in una società sono le regolarità che sono state poste dalla sua istituzione. La regolarità della comprensione che voi avete di quanto dico; voglio dire, vi possono essere dei malintesi, o dei punti sottili, o delle comprensioni errate, non credo però che nessuno uscirà da questa riunione dicendo: «Stamani abbiamo parlato della riproduzione delle giraffe». Che cos'è questa regolarità? È l'istituzione sociale del linguaggio, che assicura un'univocità e comprensione approssimativa del discorso, che certamente non è mai assoluta, ma è però sufficiente nella pratica sociale per le necessità, come dice Aristotele. Ed evidentemente, quando si rientra nella discussione teorica, questa univocità diviene più problematica. Ora, che cosa si riscontra qui, precisamente? Che vi sono regolarità, che la società non può esistere senza regolarità, persino la nostra società utopica e anarchica non potrà esistere senza regolarità, senza un'infinità di regolarità. Queste regolarità sono però create ogni volta socialmente e storicamente. Voglio dire – ritornando e concludendo con l'eterogeneità e i livelli – che cosa constato in questo caso? Che questo essere socio-storico crea ogni volta la legge della propria esistenza concreta, e non posso dire la stessa cosa per le galassie. Ora, che questo sia idealismo o materialismo, non lo so: credo che questa discussione, sotto questo profilo, sia molto interessante.
Eduardo Colombo: È vero che la società, anche la società anarchica, ideale, deve avere delle norme, perché senza istituzionalizzazione non vi è vita sociale. Il problema è a un altro livello.
Nico Berti: Adesso, possiamo dire kantianamente di avere un noumeno che è inconoscibile se non per la conoscenza – che poi non è una conoscenza –, quell'interpretazione che di volta in volta una società dà di questo noumeno. Se è vero, questo schema, questo approccio noi lo rapportiamo al nostro carissimo amico Karol Wojtyla, rispetto a quello che diceva di lui prima, quando diceva: Karol Wojtyla dice delle cazzate, e tu hai detto: «Sì, è vero, ma le si può smascherare». Si può dire «dice una cazzata» perché, rispetto a una certa cosa, possiamo dire che la nostra esperienza verifica che quello che tu dici è falso. Ma allora ti domando tre cose. Primo: in realtà noi abbiamo tante cose che sono oggettivamente in comune con Karol Wojtyla, per esempio, se Karol Wojtyla dice che lui è contro l’omicidio, magari non è vero niente, noi possiamo concordare su questo punto, giusto? Se lui dice che è contro la pillola, noi non concordiamo. In realtà, però, non è che noi possiamo portare la nostra esperienza: la nostra esperienza è un giudizio di valore. Lui potrebbe dire, non so: «Pregando la Madonna prima di far l’amore, non metti incinta tua moglie». Questa è una cosa che invece si può verificare che è una cazzata, questa è un’opinione che si può smascherare, ma se lui dice, invece, che la pillola è male, noi non abbiamo un’esperienza per dimostrargli che ha torto. Ora, quello che ho detto adesso lo rapportiamo all’idea della rottura rivoluzionaria. Qual è a tuo dire una rottura rivoluzionaria? Secondo me, una rottura rivoluzionaria avviene quando si crea un immaginario, in questo caso, noi sosteniamo che la pillola è bene, perché risponde a dei bisogni oggettivi, perché solo rispondendo a dei bisogni oggettivi noi possiamo smascherare la cazzata di Karol Wojtyla. Se no, quand’è che si crea la possibilità rivoluzionaria della rottura di un immaginario sociale e istituito? È questo che io ancora non capisco e che te l’ho domandato ieri sera e tu mi hai preso per un marxista-leninista, proprio me. Voglio dire, se noi vogliamo, per così dire speculare sulla tua scelta, tu vieni qui a parlare della tua scelta: io, rivoluzionario, voglio trarne profitto, io ho un progetto rivoluzionario. Tu mi parli di rotture rivoluzionarie e allora vorrei capire qual è il segreto della rottura rivoluzionaria. Vorrei carpirti il segreto della rottura rivoluzionaria proprio perché se io ho un progetto di trasformazione sociale, mi posso servire di questa conoscenza per inventare nuovo immaginario sociale che deve essere in grado di rompere l’immaginario sociale di Wojtyla: lui dice che la pillola è male, io dico che la pillola è bene. Però, in realtà, non ho abbastanza forza oggettiva, uso questo termine, perché la mia esperienza sia più forte della sua, perché lui in realtà fa riferimento a un tipo di esperienza che corrisponde veramente e veramente ha quel tipo di giudizio di valore che lui dà e che condivide tutta una parte della popolazione italiana. È una posizione molto confusionaria, ma è proprio perché non ho chiare alcune cose.
CC: In tutto questo vi sono vari punti. Anche qui non bisogna, in tutta buona fede, dogmatizzare le cose, perché questo finisce con il caricaturizzarle. Quando dico che le interpretazioni del mondo greco fornite a posteriori dal Rinascimento, dal Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, ci insegnano di più sul Rinascimento, sul Diciassettesimo secolo e tutto il resto che non sul mondo greco è una battuta di spirito, d'accordo? Si tratta di una formula provocatoria per sottolineare l'elemento della proiezione. È la stessa cosa che succede in psicanalisi: quando qualcuno dice qualcosa, è il suo sistema di interpretazione a parlare e ciò che dice contiene delle proiezioni.
Per poter dire però che contiene delle proiezioni, devo avere una certa visione di ciò a cui lui si riferisce. Se sono paranoico e penso che Luciano voglia uccidermi, è una proiezione, e perché tu possa dire che è una proiezione occorre che tu abbia la relativa certezza che Luciano non abbia assolutamente l'intenzione di uccidermi. Quando dico che l'interpretazione del Diciassettisimo secolo sulla Grecia contiene elementi proiettivi molto forti, evidentemente ciò vuol dire che comprendo abbastanza bene sia il mondo greco sia il Diciassettesimo secolo, per poter fare la separazione.
Ora, come posso avere questa conoscenza del mondo greco e del mondo del Diciassettesimo secolo? Non intendo ritornare su questo punto, ne abbiamo parlato stamani e non ho più nulla da dire. Quello che dirò del mondo greco e del mondo del Diciassettesimo secolo è sempre ciò che diciamo oggi, qui e ora; vale a dire che viene dal nostro punto di vista e, forse, in questo punto di vista, vi è qualcosa rispetto alla quale siamo ciechi e che forse scopriremo domani, o forse non scopriremo mai.
Ora, sul passaggio al limite che fai quando dici che la realtà del mondo greco in fin dei conti non esisteva, ritengo che sia eccessivo e che divenga falso: vi è una realtà del mondo greco per i greci stessi, come vi è una realtà del nostro mondo, anche se non siamo dei teorici. I greci pensano qualcosa di loro stessi e del loro mondo, ed è un pensiero esplicito. Ciò che pensano esplicitamente è una parte della realtà obiettiva di questo mondo e, beninteso, ciò non esaurisce la realtà di questo mondo, poiché vi sono cose assolutamente importanti e vere sulla Grecia antica che i greci non pensavano e non potevano pensare. È questo, in fin dei conti, il sapere ed il pensiero nella storia.
Ora, quando si giunge alla discussione su Wojtyla, credo che in primo luogo vi siano due campi e che occorra separare un po'. Ho parlato dei postulati del discorso di Wojtyla o del discorso cristiano e dicevo che li si può svincolare e dire alla gente. D'accordo, ecco i postulati di questo discorso, postulati che troviamo inaccettabili, come l'idea di una rivelazione divina, e che d'altro canto giungono a conclusioni che non si accordano con il resto della nostra esperienza, o in fin dei conti di tutti i popoli che sono vissuti sulla Terra prima di Cristo, eccetera.
[...]
Eduardo Colombo: Credo di capire cosa dici. Si può pensare, un rivoluzionario può pensare, che la verità sia rivoluzionaria, perché si vede che vi è un'inadeguatezza rispetto alla rappresentazione del mondo a livello cosciente. Una certa realtà di questo mondo vuole mostrarti l'adeguatezza fra il progetto e una certa realtà che questo progetto presenta. A mio parere, però, la difficoltà viene dal fatto che si continua a lavorare con un'idea dualistica fra la rappresentazione e la cosa rappresentata. Per esempio, tu dici, hai la tendenza a dire sempre che ciò che si pensa, ciò che si dice, il discorso e la realtà. Questa dissociazione è falsa all'origine, perché la rappresentazione della cosa e la cosa rappresentata sono la stessa cosa a livello del significato, questo però non vuole dire che, in un dato momento, non si abbia coscienza, in una situazione reale, che vi sia un'inadeguatezza fra ciò che si dice naturalmente, il discorso sociale e un altro discorso che incomincia ad apparire. È qui però che appare la proiezione, perché voglio definirla con un altro esempio: se qualcuno mi dice che il centro della Terra è un nucleo di marmellata, posso pensare due cose: che si sbaglia e sta a lui mostrarmi che le cose sono diverse, oppure situarmi dal punto di vista di dire…. Questo però è un momento interessante nella storia, nel momento in cui si può percepire…. lui ha detto che si incomincia a conoscere qualcosa sulla realtà, ma se qualcuno dice che il centro della Terra è una materia pesante, nessuno pensa se è vero o falso, se è una proiezione o no, è realtà, ma questa realtà è altrettanto significativa dell'altra, anch'essa contiene elementi significativi nell'altro senso. Vi è però l'adeguatezza, ma questa adeguatezza in funzione dell'evoluzione delle scienze della conoscenza della natura è un'altra dimensione. La conoscenza della natura genera una certa necessità di comprendere qualcosa in funzione di una rappresentazione in senso univoco. Questa dimensione dove si trova — riprendo il concetto di alienazione — una concezione del mondo che non è adeguata, non lo è perché l'immaginario di base non è lo stesso, ma perché vi è un collegamento fra il discorso della realtà e un altro.
Nico Berti: Cambio esempio, lasciamo perdere la pillola, che è stato un esempio infelice. Però è lo stesso tipo di esempio che faccio adesso: invece della pillola, prendiamo la rottura rivoluzionaria che tu individui alla fine del Medioevo. Tu dici che alla fine del Medioevo nasce il mondo moderno e quella è una rottura rivoluzionaria. Hai detto questa mattina che l’idea che pensare di utilizzare l’uomo sfruttandolo è qualcosa di talmente artificiale, arbitrario per esempio rispetto all’idea di ammazzarlo, che dimostra la potenza immane dell’immaginario. Allora io ti chiedo — forse è una domanda ingenua — perché quel tipo di immaginario si è affermato? E non, per esempio, pensare di utilizzare gli uomini facendoli giocare agli scacchi come a Marostica. Questo immaginario, di passare il tempo giocando agli scacchi con delle figure umane, no; invece, si pensa di produrre utilizzando gli uomini sfruttandoli. Perché si è affermato quell’immaginario e non quell’altro? Perché — mi verrebbe da rispondere — perché quell’immaginario si è affermato pur dimostrando l’immane potenza dell’immaginario stesso, quell’immaginario ha trovato una verifica — come la chiami tu — oggettiva nei fatti, cioè rispondeva a qualche cosa che era oggettivamente sentito, altrimenti non si spiegherebbe perché si è affermato quell’immaginario e non quell’altro o un altro ancora. Perché questo? È la stessa domanda che salta fuori quando mi chiedo di nuovo di Karol Wojtyla. Perché noi abbiamo l’immaginario a favore della pillola, qual è il segreto perché diventi vincente rispetto invece all’immaginario di Paolo VI, che invece è contro la pillola? Noi diciamo la nostra esperienza umana ci dice che ci dà tutto a favore della pillola, però non è rivoluzionariamente sufficiente perché questo immaginario vinca, sia vincente rispetto a quello di Wojtyla.
CC: Cercherò di commentare quello che credo di avere compreso e di rispondere, e se non ho capito puoi riprendere la parola. Credo che tu confonda qualcosa: quando dici l'immaginario del dominio, perché questo che ha prevalso e non un altro, ciò corrisponde a qualcosa di «obiettivo», ma io non vedo nessuna corrispondenza obiettiva. Esso ha creato una realtà che corrispondeva a quell'immaginario. Fino ad allora, gli uomini avevano armi per uccidersi gli uni con gli altri — non è perché mancassero loro le armi che non c'era dominio — ma, quando c'è stato il dominio, che cosa si è fatto? Bene, evidentemente si sono sottratte le armi ai dominati, gli altri hanno avuto le armi, si è creato un corpo speciale con le armi e le si sono utilizzate per realizzare questo immaginario del dominio, ovvero, questo significato immaginario ha impiegato delle possibilità che esistevano per creare nuove invenzioni e altri utilizzi che hanno effettivamente permesso loro tutto questo.
Ora, non vi è qualcosa di obiettivo che corrisponda a questa creazione, salvo in un senso logico formale che non ha alcun interesse. Nella struttura del mondo fisico e biologico una società di dominio è possibile, il gulag è possibile, la democrazia ateniese è possibile. Ciò non ci insegna nulla, ma la questione che tu ponevi a proposito della pillola è di un altro ordine, vale a dire: In nome di che cosa diciamo contro Wojtyla o contro la chiesa che hanno torto, oppure in nome di che cosa noi siamo a favore della pillola? Evidentemente qui c'è una scelta di valori che non corrisponde a nessuna obiettività, non vuole dire nulla. Io sono a favore della pillola in virtù del principio di autonomia, vale a dire non è che una donna è una donna, che non ha il diritto di fare ciò che vuole del proprio corpo e non ha il diritto di fare l'amore senza dover pensare che forse avrà un figlio che forse non vuole. Occorre che una donna possa decidere se vuole o non vuole un figlio. Quindi, io sono per la pillola e dico che Wojtyla e la Chiesa, quando sono contro la pillola, traducono valori di eteronomia, come tutta la religione e la morale religiosa è una morale di eteronomia, ovvero: farete così perché è Dio che l'ha voluto e non perché volete così dopo avervi riflettuto.
L'altro problema: «La verità è rivoluzionaria», è un po' complicato, è vero e non è vero: in una società in cui vi è l'alienazione e la mistificazione la verità è sovversiva, ovvero demolisce la mistificazione del sistema, ma la verità in questo senso non è pienamente rivoluzionaria, perché il progetto rivoluzionario non consiste solo nel dire che il discorso di Wojtyla è mistificante, il discorso di Craxi è mistificante, il discorso di Mitterrand è mistificante e ecco perché sono mistificanti. Il progetto rivoluzionario consiste anche nel dire «noi vogliamo una società autonoma» e questo al di là della verità e della non-verità; è una scelta fondamentale che può essere delucidata, ma che non può essere argomentata in maniera geometrica.
Eduardo Colombo: A mio parere, vi sono due livelli differenti. Insisto, perché credo che occorra comprenderlo. Per esempio, se si dice di una società gerarchica che vi sono i ricchi e i poveri, i dominati e gli sfruttati, che vi sono i dominati, eccetera... in realtà non si dice nulla, è un giudizio di valore. C'è però un discorso, che è il discorso della realtà politica: tu puoi dire che la gerarchia non esiste, il dominio non esiste, c'è democrazia, tutti possono votare, votano e risolvono la situazione come vogliono. Questo discorso nasconde la realtà del dominio. Se a quel punto tu dici che non è vero, si può dire che c'è un altro adeguamento fra questo primo discorso e questa realtà.
Domanda: È altrettanto vero che, dal momento in cui dici che la democrazia è una maniera di nascondere la realtà, la gerarchia, la relazione fra dominante e dominato... Per dire questo fai riferimento a un sistema di valori che non è dimostrato, ovvero la persona cui va benissimo, non si sente alienata, non si sente sottomessa e dominata, ma bensì vive la società democratica, come una società libera…
Domanda: Il fatto che non partecipi realmente a una democrazia. Qui stiamo confondendo due piani: da un lato quando diciamo che i fatti sociali sono creati dal modo in cui li interpreti, da chi tu pensi di essere. Questo pensare deve essere deve essere inteso in senso latissimo… faccio riferimento alla teoria dei quanti, non significa un pensare in senso stretto, in senso ideologico. Faccio un esempio: il fatto che ci sia un regime, diciamo, democratico che, di fatto quel regime ti consente di esprimere veramente la tua possibilità di gestire insieme agli altri la società: questa è un’ideologia, è mistificante. Tutti lo pensano, ma resta il fatto che sia mistificante, perché il fatto sociale, le istituzioni sociali sono diverse; nei fatti sociali queste non corrispondono al tuo modo di vedere, resta il fatto che questi fatti sociali non sono delle cose, ma si compongono di simboli, cultura, modi di pensare, ma in senso lato. Quindi, ci sono due livelli di come tu vedi le cose: cioè un livello che è il fatto sociale, che chiaramente non è un fatto crudo, ma è un fatto culturale, e poi al di sopra di questo c’è il livello ideologico superiore che è il livello di come tu interpreti quei fatti, che può essere mistificante o meno — in genere è mistificante — che copre la realtà, che è una realtà pure fatta di pensiero. Quindi c’è il rischio, se noi non capiamo bene questi due livelli, di confonderli e di eliminare qualunque realtà sociale: la realtà sociale c’è e la puoi vedere, non è soltanto quello che…
Domanda: È come dire che uno schiavo — proprio uno schiavo degli Egizi eccetera — che abbia interiorizzato i valori dello schiavo, si identifichi nella figura dello schiavo, però non è schiavo. Così è il discorso di un oppresso nel caso della democrazia: anche se lui si riconosce e non crede di essere oppresso, non vuol dire che non sia oppresso, perché l’oppressione esiste.
Altro interlocutore: il problema non è questo. Non metto in discussione che non sia vero, dico semplicemente che il riscontro oggettivo è dato da un ventaglio di possibilità. Quando prima Castoriadis diceva «sappiamo che la democrazia ateniese…». Questo però non ci dice più di tanto: ci dice che esiste un ventaglio ampissimo di possibilità, e fin qui va tutto bene. Il ragionamento che voglio fare io è questo: se tu devi avere, in base alle cose che dicevo prima, un riscontro oggettivo, insuperabile, che ti dice che tu hai più ragione di lui, questo riscontro oggettivo assoluto, da che cosa è dato? Perché anche quando tu dici che lo schiavo è schiavo, benissimo: lo zio Tom, il nero americano era schiavo, lo sapeva benissimo, ma gli andava bene così… Ora, il discorso oggettivo qual è? Lui non ti negava la condizione: ti diceva che questa condizione a lui andava bene. Ora, il discorso di ribaltamento, su che cosa faceva leva? «No, non ti deve andare bene sennò...». È questo che dico, cioè, quando tu dici esiste la gerarchia, e questa gerarchia è oppressiva, non è che dici una cosa che non è vera, è verissimo, per te, e per chi ti dice «questa gerarchia esiste, ma per me non è oppressiva», come puoi rispondere?
Domanda: Volevo dire che quello che hai detto prima, sulla pillola, operiamo il nostro sistema di valori non appena entriamo nel vivo e tu dici — e io sono completamente d’accordo — ché è sufficiente che la donna decida, non occorrono altre dimostrazioni perché questo sia da accettare, sono perfettamente d’accordo. Ti domando, allora, bastano queste nostre affermazioni perché queste nostre affermazioni siano vincenti rispetto a quelle di Karol Wojtyla?
Domanda: Provo a riformulare in modo semplice la domanda di Nico, senza esempi di pillole, perché gli esempi a volte aiutano a comprendere, a volte confondono le idee. La domanda secondo me, ristretta all’essenziale è questa: un sistema di valori si afferma rispetto ad altri sistemi di valori del tutto casualmente oppure ci sono degli elementi esterni al sistema di valori che si afferma che giustificano il suo affermarsi sugli altri sistemi di valori? Un sistema di valori si afferma casualmente, o ci sono dei motivi non casuali quando si afferma un sistema di valori rispetto ad altri sistemi di valori in un certo momento della storia umana?
CC: Dirò solo due cose: la prima sugli schiavi eccetera, e la seconda sul sistema di valori. Quando funzioniamo come dei teorici, degli storici, constatiamo che vi sono società in cui vi erano degli schiavi, d'altronde ve ne sono ancora, nel senso formale: le Nazioni Unite hanno proclamato l'abolizione della schiavitù, ma si sa che vi sono paesi africani e arabi ove vi è schiavitù in senso formale, classico. Lì, il fatto della schiavitù in quanto tale non è oggetto di interpretazione. La società stessa presa in considerazione dice che vi sono degli schiavi: si possono comprare e vendere esseri umani, vi sono mercati in cui li si vende, e si può osservare — quasi come osserverebbe un fisico — che vi sono persone che obbediscono agli ordini degli altri, mangiano ciò che altri danno loro da mangiare, e così via.
Questa è la descrizione di una società in cui vi è schiavitù. La cosa non finisce qui, perché comprendere i significati immaginari sociali di tutto ciò è un'altra cosa, poiché vi sono varie società schiaviste, differenti tra loro, eccetera. Questi schiavi nella società presa in considerazione — supponiamo — hanno interiorizzato il sistema, non vi si oppongono. Qui voglio dire qualcosa che forse sembrerà scandaloso, credo tuttavia che la grande massa dell'evidenza storica è che nei sistemi schiavisti propriamente detti la lotta degli schiavi contro il sistema di schiavitù — attenzione, non la difesa individuale dello schiavo contro l'oppressione che subisce, ma la lotta degli schiavi contro il sistema schiavista — è rara, accidentale e quasi un'eccezione. È così, come dice, credo, Luhmann.
Allora, noi diciamo, beninteso, che condanniamo queste società. Le persone all'interno di questa società e, si suppone, anche gli schiavi, non le condannano, ma a partire da che cosa abbiamo potuto condanna questo sistema? Perché, precisamente, noi apparteniamo a società e a una tradizione sociale e storica in cui il dominio, l'oppressione, lo sfruttamento sono stati contestati dall'interno, dai dominati, gli sfruttati. Ovvero, vi è stata una creazione storica del nostro sistema di valori che dice «non è vero che bisogna obbedire al proprio padrone, perché è Dio che lo ordina» (Paolo, Lettera ai Romani, capitolo settimo, credo) e abbiamo detto «noi mandiamo Dio a farsi fottere anche se è lui che lo ha detto e siamo contro il dominio», e così via. Il problema pratico di ciò che si fa quando si è portatori di quest'altro significato immaginario sociale, di questo altro sistema di valori è che o si fa fronte a una società in cui gli schiavi accettano la schiavitù, cosa che può sembrare un problema teorico ma non lo é, perché per esempio è il problema di una buona parte del popolo tedesco sotto il nazismo ed è — forse — il problema adesso del popolo russo con il regime, almeno per una parte.
Senza però arrivare a questo, qui, in Italia, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, che cosa si fa con un sistema che noi siamo convinti comporti una gerarchia, un dominio e uno sfruttamento, e che con ogni evidenza è sufficientemente interiorizzato da un grande numero di persone, senza il quale semplicemente non esiterebbe, sarebbe caduto da solo? Ora, credo che questo sia il problema concreto dell'attività politica: intendo dire che non ha nulla a che vedere con il sistema di valori. Noi ci consideriamo i continuatori, i rinnovatori o poco importa, di questa creazione storica con i valori storici dell'autonomia sociale individuale, che viviamo in una società che in gran parte accetta una struttura eteronoma e, allora, a partire da questo, si pongono certamente varie questioni. Forse accetta semplicemente perché è mistificata e da questo punto di vista la verità è sovversiva, ovvero le persone, a un livello relativamente superficiale — voglio dire ideologico — credono effettivamente che la democrazia, o per meglio dire i sistemi liberali, da quando esistono esprimono il governo da parte del popolo, vale a dire che non hanno compreso veramente l'alienazione che esiste nelle strutture politiche. Non credo però che sia solo questo, altrimenti perché — a un livello un po' meno superficiale — ideologicamente accettano altri discorsi razionalizzatori dell'ordine esistente? Ve n'è uno in particolare: che naturalmente questo non è un sistema perfetto, ma è il meno cattivo che possiamo avere...
Credo che per molta gente sia a questo livello che si situa la giustificazione del sistema. Anche su questo si può discutere, ma si arriva a qualcosa che diviene più difficile: a partire dal momento in cui il sistema attuale viene difeso a livello relativo, l'interlocutore ci pone, per dire così, l'esigenza di mostrare che il nostro progetto è possibile e realizzabile, cosa che, evidentemente, non possiamo dimostrare; possiamo tutt'al più dimostrare che non è impossibile. E poi, in terzo luogo, vi è un altro livello che è molto più profondo, e che è quello fondamentale: ritengo che il vero fondamento dell'ordine sociale del dominio e dell'eteronomia, quando si pensa agli esseri umani concreti, non sia la riflessione e non sia il discorso ideologico. Credo sia dello stesso ordine della religione, ovvero l'incapacità, diciamo l'enorme difficoltà per gli esseri umani di accettare che non vi sia al di fuori di loro stessi un garante dell'ordine, della legge e del significato. Se volete, l'enorme difficoltà per gli esseri umani di guardare con occhi aperti questo fatto che essi stessi possono creare la società, che possono essere responsabili della loro vita, che devono essere responsabili della loro vita, senza dire «è deciso da Dio», «è deciso dallo Stato o da quelle carogne dei capitalisti»; vale a dire quell'inerzia in cui ricade l'essere umano perché ha bisogno di sistemi si significato stabiliti, di norme e di valori stabiliti, di sapere dov'è l'autorità e qual è il posto di ciascuno.
Credo che qui tocchiamo un problema molto profondo, e credo si veda la lotta fra questo elemento e l'altro elemento in tutta la storia moderna in particolare, ovvero i momenti in cui le società moderne sono entrate in questa sorta di effervescenza creativa rivoluzionaria e hanno cercato effettivamente di prendersi in carico, in cui hanno tagliato la testa al re, alla Chiesa, e così via — per citare i casi più estremi — e poi i momenti di ricaduta nell'inerzia, che non dipendono dal fatto che, non so, la reazione aveva più archibugi, ma dal fatto che vi è una sorta di terrore di fronte all'abisso della libertà e della responsabilità per la propria vita, e questa sorta di terrore di fronte all'abisso è anche ciò che è legato alla radice della religione, come sappiamo.
Domanda: Vorrei fare due domande sul dibattito in generale: nella storia dell’uomo, nelle sue origini, storicamente... Abbiamo una conoscenza di un uomo che vive nella sua autonomia sociale, oppure già nelle sue origini che noi conosciamo oggi si evidenziava un immaginario sociale. Un uomo, nei vari popoli, con un immaginario sociale autoritario e un uomo con un immaginario sociale antiautoritario, questo è il primo punto. Secondo: se nelle sue origini non esisteva questa diversità di immaginario sociale e si è formato successivamente, perché si è formato successivamente un immaginario sociale autoritario nell’uomo fra i popoli, e perché, invece, non si è costituito un immaginario sociale anti-autoritario, che già probabilmente pre-esisteva?
CC: Credo che le due domande siano di fatto la stessa. Incomincerò con la seconda. Non credo che all'inizio vi fosse un immaginario sociale antiautoritario. È un po' la discussione a proposito del libro di Clastres. Ora, se prendiamo alla lettera ciò che dice Clastres e il modo in cui descrive le cose presso i Guayaki, vi è effettivamente un immaginario antiautoritario, nel senso che tutta l'istituzione della tribù esclude che qualcuno possa avere un potere: nella misura in cui c'è un potere, esso appartiene alla collettività e, come dicevo stamani, è una società in cui non vi è immaginario di dominio degli uni sugli altri. Ciò non vuole dire però che non sia una società eteronoma, perché nella società di Clastres, in questa società selvaggia, è impensabile che qualcuno possa dire «le nostre leggi non vanno bene»; è impossibile mettere in discussione l'istituzione esistente. È per questo che ieri sera mi sono riferito a «1984» in un altro modo, vale a dire che per le persone in questa società, il pensiero «la nostra legge non va bene» non può neppure essere pensato. Si ha quindi di partenza un immaginario che è contro il dominio — non veramente contro il dominio, non bisogna presentare la cosa in questo modo, diciamo che non comporta il dominio — si tratta però di un immaginario di eteronomia, cioè le istituzioni poste dalla collettività non possono essere messe in discussione. Occorre anche che vi sia un'istituzione specifica, se posso dire, o una clausola istituita che accompagna tutte le istituzioni dicendo «attenzione, non siamo noi che abbiamo fatto queste leggi…».