Collocazione originale: Daniel Poyner, Autonomy. The cover designs of “Anarchy” 1961-1970, Hyphen Press, London, 2012
titolo originale: A Conversation with Rufus Segar
traduzione di Andrea Carbone
Daniel Poyner - Che ne diresti di cominciare dalle tue origini? Dove sei nato e dove sei cresciuto?
Rufus Segar - Sono nato a Ipswich nell’agosto del 1932, secondo figlio di un farmacista ambulante. La famiglia si trasferì a Walsall nel 1936. Poi a Bilston nel 1938, a Bristol nel 1939, a Colwyn Bay nel 1946 e a Prestatyn nel 1948. Di solito sceglievamo piccole città, e ci spostavamo ogni due o tre anni.
La mia era una famiglia di classe medio-bassa, e i miei leggevano cose tipo il «Daily Express», il «Daily Mirror» e quei quattro o cinque libri che potevamo avere in casa. Ricordo che a 10 o 12 anni ero già convinto di voler fare il fumettista.
Ero piuttosto bravo a disegnare. Nel 1949 il mio insegnante di arte mi spinse a iscrivermi alla scuola d’arte di Liverpool. Così feci, pronto ad affrontare quattro anni di duro lavoro. E mi è piaciuto un sacco! Studiavo disegno e imparavo tantissime cose.
La scuola d’arte ti dava un’ottima formazione di base. Nei primi due anni c’erano cose come l’illustrazione botanica, con un’insegnante che si chiamava Katie Hume, e c’era anche un altro insegnante, John Wiffen, che ci portava nei parchi a disegnare alberi e paesaggi. C’era disegno dal vivo, anatomia, prospettiva, composizione: un biennio di formazione piuttosto completo di arti plastiche. Poi, finito il primo biennio, dovevi scegliere uno dei corsi biennali di arti applicate: pittura, ceramica, scultura, illustrazione, scenografia ecc. Le discipline di base erano più o meno otto. Uno dei tutor mi disse: «Beh, cavolo, tu sai disegnare sul serio. Pittura, lasciala perdere. La pittura è una fesseria romantica». In realtà io volevo davvero diventare un pittore, ma no, mi dissero: «Fai l’illustratore». E così il dado era tratto. Scelsi illustrazione.
A quei tempi illustrazione significava un libro con un’immagine in copertina e cinque o sei all’interno, e quello era un libro illustrato. Mi dicevo: «Che cavolata assurda». C’erano tecniche che mi sembravano molto più interessanti, ad esempio l’acquatinta, l’acquaforte, l’incisione, la litografia, lo stampo, il tratteggio. E così le ho praticate tutte. Mi prendevo un po’ di tempo per scoprire cosa facevano gli altri. Mi sono dedicato alla ceramica, alla scenografia, ai tessuti, così, tanto per esplorare.
DP - A chi ti ispiravi? Ti rifacevi in particolare a qualche illustratore, artista o designer nel mondo dell’editoria o della carta stampata?
RS - Trovavo ispirazione più o meno dappertutto e in chiunque, ma in particolare avevo un debole – e ce l’ho tuttora – per la tradizione dei fumettisti e degli illustratori. Soprattutto per Dudley D. Watkins. Dopo aver studiato alla Nottingham Art School, si trasferì in Scozia dove fu assunto dalla D.C. Thomson di Dundee, un’azienda familiare che pubblicava giornali e fumetti. Alla fine degli anni Trenta le sue serie The Kroons e Oor Wullie cominciarono a uscire sul «Sunday Post». Nel 1937 D.C. Thomson pubblicò il primo numero di «The Dandy» e sei mesi dopo «The Beano», e in ciascuno dei due c’erano sei strisce di Dudley D. Watkins.
Oltre a queste pubblicazioni periodiche, Watkins aveva anche una passione per la letteratura e così in «The Topper» disegnò Oliver Twist. Poi lavorò a Il ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson e al racconto biblico La forza di Sansone. Illustrava avventure scritte da altri. Pubblicava strisce settimanali e mensili. Una produzione fantastica. Ha lavorato tanto e alla fine di una carriera straordinaria è morto al tavolo da disegno.
DP - Cosa ti interessava in Watkins? Lo stile delle sue illustrazioni?
RS - Beh, no. Era capace di disegnare Desperate Dan e Lord Snooty come Il ragazzo rapito o Oliver Twist. Poteva disegnare qualsiasi cosa. Watkins e i suoi contemporanei erano quelli che chiamo dei buoni disegnatori: gente come Francis Marshall, Giles e Strube.
Ero molto colpito anche dalle strisce a fumetti del «Daily Mirror», stiamo parlando degli anni Quaranta. Sul «Daily Mirror» c’era una striscia a fumetti quotidiana: Garth, Belinda, Ruggles. Ma Dudley D. li stracciava tutti. Se li mangiava a colazione. A guardare i suoi disegni si vedeva che alcuni erano schizzati rapidamente, mentre in altri c’erano molte linee. Era una cosa che mi colpiva molto e ho pensato che per me il segno da sviluppare fosse quello.
Quindi c’erano i disegnatori delle strisce del «Daily Mirror», e poi «The Beano» e «The Dandy». Ma non finiva lì, se la giocavano con altri cinque o sei. C’era «London Laughs» e David Low, un grande vignettista di sinistra. Poi c’era «Punch», che era pieno zeppo di illustrazioni e disegni assolutamente meravigliosi. Insomma, in giro c’era una marea di roba, molto colorata, mediamente colorata, poco colorata, in bianco e nero.
Allora, a chi mi ispiravo? Il mio punto di riferimento era Dudley D. Watkins, ma anche tutti i vari disegnatori, illustratori e vignettisti della stampa quotidiana. Mi concentravo sugli illustratori che definisco commerciali.
DP - Hai finito la scuola d’arte nel 1953. Hai trovato subito lavoro come illustratore?
RS - Dopo la scuola d’arte ho fatto due lavori: il primo è stato in una fabbrica di scatole di cartone, la Hunt Partners a Hackney, dove ero impiegato nel reparto campioni, e poi nel 1957 ho trovato lavoro come assistente disegnatore alla Horatio Myer & Co. Quei tre anni furono il mio apprendistato. Myer era la sola grande azienda di biancheria da letto londinese, fondata nel 1870. Fu un lavoro rivelatore, che mi diede accesso a tutti gli aspetti della progettazione e mi permise di imparare tanto sul design e sulla produzione. Poi trovai lavoro presso un’agenzia pubblicitaria di alto livello, la S.H. Benson. All’epoca era la numero due, mentre la numero uno era J. Walter Thompson. Era una specie di esercito. Come una corazzata o una portaerei. Alla testa c’era il capitano, che aveva 65 anni o giù di lì. La sua era davvero una direzione basata su principi militari. Poi c’eravamo noi, che andavamo su e giù come matti tra cinque o sei piani, e questa era l’agenzia. C’erano sei gruppi creativi, e in ogni gruppo creativo c’era un pubblicitario senior sulla trentina o sulla quarantina, con cinque o sei assistenti disegnatori che si chiamavano visualizzatori. In tutto eravamo più di 600 dipendenti.
I visualizzatori erano quelli che realizzavano un primo abbozzo di pagina, una cosa molto semplice, a partire da un’idea. Ed era assolutamente meraviglioso. Quindi prendevo tutti i materiali, tutti i fogli, la carta per i dettagli, le matite HB e 6B e mi buttavo a capofitto nel lavoro. Poi però guardavo il mio bozzetto, ed era tutto maledettamente stentato e sovraccarico. Sbavato. Loro invece avevano un tocco molto leggero, che era quello che cercavo. È stata davvero una rivelazione.
Non mi ci è voluto molto per capire che non avevo la stoffa per fare il pubblicitario. Fondamentalmente, la pubblicità è una truffa. È un lavoro da truffatori. Hai un’idea e fai uno schizzo, come pensi che dovrebbe essere, poi il cliente dice: «Oh sì, è una buona idea». A quel punto il disegnatore viene messo da parte, e l’idea passa a un art buyer. In questa fase il sistema è molto diverso. L’art buyer guarda il bozzetto e dice: «Sì, questo è un lavoro per quel tale illustratore o quell’altro». Poi va dall’illustratore e gli chiede: «Quanto vuoi per questo soggetto in sei versioni diverse?». In questo modo diventa una merce. L’illustratore realizza il lavoro da cima a fondo, lo consegna, e poi ci vuole un tipografo per la stampa. E tu in tutto questo dove stai? Tu alla fine prendi una copia di «Picture Post» e c’è questa pubblicità a tutta pagina, con un’illustrazione meravigliosa, stampata in modo impeccabile, e tu dove sei? Non sei da nessuna parte, sei una ruota dell’ingranaggio. Sono stato a guardare per tre anni, per capire come funzionavano le cose, poi mi sono detto: «Non fa per me».
DP - Quindi nel 1961, quando Colin fondò «Anarchy», lavoravi ancora alla S.H. Benson. Come hai conosciuto Colin e come hai cominciato a disegnare per «Anarchy»?
RS - Quando frequentavo la scuola d’arte, condividevo una casa con Harold Sculthorpe e altre persone al 101 di Upper Parliament Street (a Liverpool). Eravamo tre coppie, due studenti e tre bambini, vivevamo in comunità e condividevamo la gestione della casa. Siamo stati coinquilini per tre anni o giù di lì. In quel periodo abbiamo fatto delle riunioni. Harold, che dirigeva il laboratorio di analisi cliniche di un ospedale di Liverpool, aveva fondato il Gruppo Anarchico di Liverpool nel 1949 o nel 1950. Nel 1953, quando mi sono laureato, ci siamo trasferiti insieme a Londra, dove abbiamo condiviso un appartamento a Hackney. Poco dopo essermi trasferito a Londra, mi sono sposato con Sheila Bullard e abbiamo messo su famiglia. Ma condividevamo ancora tutti quanti l’appartamento di Hackney. Eravamo davvero in troppi, così alla fine Sheila e io ci siamo trasferiti in un appartamento a Pimlico.
Frequentavamo un club vicino a Oxford Circus, il Malatesta Club, che all’epoca era gestito dal London Anarchist Group. Era una specie di ristorante sociale, dove si giocava a scacchi. Un luogo di incontro. Nei fine settimana organizzavano lo Speakers’ Corner, c’erano un paio di incontri infrasettimanali al pub, e pubblicavano anche un settimanale che si chiamava «Freedom». È così che ho conosciuto Colin.
Colin lavorava al Freedom Press Group. Nel 1961 ha dato vita al mensile «Anarchy», come contraltare di «Freedom». Per la copertina del primo numero ha utilizzato un lavoro preesistente di un illustratore che si chiama Michael Foreman, poi ha cominciato a rivolgersi ad altri due o tre illustratori, me incluso. Dal sesto numero in poi sono diventato il direttore artistico, l’artefice.
DP - Tu e Colin lavoravate insieme? Ti dava una traccia per ogni numero?
RS - No. Non facevamo molte riunioni con Colin, solo una o due volte, per le copertine. Mi scriveva una cartolina una volta al mese e me la inviava. Il tempo bastava. Ci pensavo più o meno per una settimana e poi dicevo: «Bene, l’ho messa in cantiere. Devo inviare l’illustrazione alla Gee & Watson per fare i cliché». E poi scrivevo: «Gee & Watson, chiamare martedì alle due. Consegna mercoledì pomeriggio». Quindi dal martedì al mercoledì, quelle ventiquattro ore erano dedicate ad «Anarchy». Mettevo da parte tutto il resto fino alla consegna.
DP - Grosso modo allora la tempistica per il progetto grafico e le illustrazioni era sempre questa?
RS - Per realizzare alcune copertine ci voleva quasi un giorno, per altre bastava mezz’ora, quando si trattava solo di una foto con un testo composto al tratto, la foto qui e il testo là. Facevo tutto formato album (in genere il 125-200% rispetto alle dimensioni di «Anarchy»), e poi andavo da Gee & Watson. Di solito lavoravo e consegnavo il mercoledì, Colin e io ricevevamo le bozze il venerdì, le riconsegnavamo sempre venerdì, e venerdì stesso i cliché arrivavano alla Freedom Press.
Era un sistema piuttosto all’antica. A pensarci, è comico che per una pubblicazione anarchica ci fossi io a fare il progetto grafico, la persona che preparava i cliché, e poi il tipografo. Il tipografo stampava l’interno e poi lo mandava in legatoria per cucire la copertina. Erano coinvolte più o meno sei organizzazioni diverse. La tiratura era solo di duemila copie, ma era un periodico che usciva con regolarità.
DP - Avevi molta libertà, questo è chiaro, ma non discutevi con Colin la tua idea per la copertina del mese? Non diceva la sua come direttore, se c’era da aggiungere o togliere qualcosa?
RS - No, la consegnavo direttamente per fare i cliché. Colin la vedeva a cose fatte. Io realizzavo l’illustrazione, e due giorni dopo Gee & Watson inviava una bozza a me e a Colin. Colin non mi ha mai detto, neppure una volta, «questo non mi piace, fai così».
DP - Quindi di fatto lavoravi da solo, in totale libertà. Forse perché per Colin la copertina non era tanto importante?
RS - No. Mettiti nei panni di Colin. Lui aveva già un lavoro, «Anarchy» era un’attività collaterale, e manteneva i contatti con un gruppo selezionato di collaboratori potenziali. Sudava sette camicie per trovare nuovi articoli. Quando raccoglieva un numero sufficiente di battute, mi scriveva una nota. Faceva il suo lavoro di redazione, ed era un lavoro da solista. Trovare i collaboratori, non pagarli, poi mandare tutto in tipografia, pagare i tipografi, correggere le bozze… una cosa da giocolieri. Certi mesi era a corto di materiale, certi altri ne aveva troppo. E anche quando ne aveva troppo, era sotto pressione lo stesso, come quando non ne aveva abbastanza. Gli mancava un articolo, tre articoli, sei articoli. Ai collaboratori chiedeva di mantenersi sulle due o tremila parole, o comunque di tagliare il più possibile. È così che andava.
Ho sempre avuto molto rispetto per Colin. Aveva orizzonti molto ampi, e dato che seminava così, quel che raccoglieva era molto eterogeneo. Nessuno come lui sapeva mettere le cose nella casella giusta. Magari aveva per le mani degli articoli sul crimine, ma sapeva che potevano aspettare altri sei mesi, che ci si poteva fare un numero monografico. E di fatto il suo approccio era proprio questo. Un numero sulla questione degli alloggi, uno sul crimine, uno sull’apolidia, uno sul controllo poliziesco e così via. Questi numeri a tema erano più facili da realizzare rispetto a quelli miscellanei. Per quelli miscellanei, anche la copertina era una miscellanea.
Quel che mi piaceva in «Anarchy», quello che dava una certa continuità, era l’autonomia dell’insieme! Colin si occupava del testo e io nei primi numeri, oltre alla copertina, realizzavo anche tre o quattro illustrazioni all’interno. Ma dopo un po’ ho capito che «Anarchy» funzionava in un altro modo. Se fai una copertina che coglie nel segno, l’interno non conta. Nei primi numeri c’erano delle illustrazioni anche all’interno, su alcune pagine. Tra le copertine dei primi 50 numeri le illustrazioni in rosso e nero su carta gialla sono piuttosto ricorrenti.
DP - Avevate deciso di mantenere quella combinazione di colori? Cercavi di stabilire una continuità visiva con le copertine?
RS - Beh, all’inizio con la carta gialla non avevo molta scelta, quindi facevo tutto in bianco e nero [nero e giallo]. Ma quando si arriva al numero 41, quello sull’agricoltura, c’è il verde, e poi su «Anarchy» 69 c’è il rosa, per la pancia. Ogni tanto usavo un colore diverso, legato al tema. Ma sempre abbinato al nero, per mantenere l’impatto di due colori molto contrastati. Tutto qui. Non credo di aver mai usato mezzi toni. La separazione dei colori per la stampa era semplice. Il giallo era solo un di più, lo consideravo come un vuoto di colore. Quindi inizialmente il tratto distintivo di «Anarchy» era la carta gialla stampata in rosso e nero, fino al numero 58, e poi, una volta passati alla carta bianca, mi sono orientato a stabilire un colore.
DP - Le tue sgranature sui mezzitoni o la fusione di più elementi sono un’anticipazione delle xerografie degli anni Settanta e degli anni Ottanta. Che procedimento utilizzavi per ottenere quell’effetto? Qual era il tuo obiettivo?
RS - Beh, in realtà il punto è proprio quello che fai con i vari elementi, ad esempio sgranare tutto quanto. Ingigantire più immagini, soprattutto quelle tipografiche. E giocare tanto con i mezzitoni, non sulla scala dell’invisibile ma su quella del visibile. Tutte cose che negli anni Sessanta e Settanta erano pane quotidiano. Prendevi una cosa e vedevi che cosa succedeva se la ingrandivi, poi ne ritagliavi un pezzo e lo attaccavi da qualche parte. Tutto molto esplicito, grande, d’effetto. Nei miei primi dieci anni di carriera da illustratore, mi ero guadagnato da vivere disegnando mappe, grafici, diagrammi e pubblicità. Ora utilizzavo le stesse tecniche, ma tradotte in una versione libera dalle convenzioni.
DP - Nelle tue copertine non ci sono molti echi di tendenze contemporanee come la psichedelia. Guardavi indietro oppure avanti? Cercavi strade nuove?
RS - Non credo che stessi cercando strade nuove. Sono sempre stato un consumatore passivo di cultura. Non ho mai seguito nessuno. Quindi no, non credo. Il punto non era guardare indietro o guardare avanti, ma guardare a quello che faceva Colin in quel momento. Avevi una lista di articoli. Ti dovevi concentrare su quella, e fare le cose nel modo migliore possibile in termini di mezzi tipografici, illustrazioni, immagini, da ogni punto di vista. Prendi tutto quanto, ti concentri, vai al sodo, lo butti giù, e quando arriva giovedì mandi tutto a Gee & Watson. Tutto qui. Non c’era da guardare avanti e non c’era da guardare indietro. Niente futuro. Niente passato. C’era quel lavoro, e non c’era un altro minuto per farlo.
Quanto alla psichedelia, ci siamo adeguati alla psichedelia ma non è che ci piacesse molto. Avevamo un amico che era finito a fare lo spacciatore di marijuana. Non riusciva a guadagnarsi da vivere come illustratore ma con lo spaccio sbarcava il lunario, e lui ci dava gli spinelli e ci portava agli spettacoli psichedelici. Ma io non ne avevo bisogno. Ai miei occhi i comignoli ballavano da soli, senza bisogno di droghe.
DP - La diversità delle copertine è davvero vertiginosa, era una scelta esplicita da parte tua? Volevi dare un senso di varietà sul piano visuale? Oppure l’idea era che trattandosi di una pubblicazione anarchica bisognava cambiare a ogni occasione?
RS - Sì, evitare ripetizioni nelle copertine è stata una mia scelta deliberata. Ognuna è diversa. Non vedevo alcun motivo per cui dovessero essere uguali. Quindi sì, ho pensato che si dovesse cambiare. In ogni caso, ogni mese era una delizia. Era come un cucchiaino di zucchero nel caffè nero. Ogni mese, caffè nero, caffè nero, caffè nero e poi, oh! qui non solo c’è zucchero ma anche saccarina o cognac. Sono additivi, e ognuno dà una bella carica, ma sugli ingredienti c’è sempre la massima disciplina.
La disciplina, credo, stava nel fatto che tutto doveva funzionare dentro un riquadro di dieci centimetri. Era uno degli ingredienti di «Freedom», e all’epoca «Freedom» era un settimanale. Il riquadro di dieci centimetri era la pubblicità della prossima uscita di «Anarchy» che si ripeteva su ogni numero per quattro settimane, finché arrivava la successiva. Ma quella non era una prigione, era un parco giochi. Ogni mese hai uno spazio quadrato, con quattro angoli. Ma è vuoto. E tu ci metti quello che ci mette Colin: un sacco di cose diverse. Voglio dire, guarda cos’ha fatto nel numero 57. Bucky Fuller, una specie di architetto moderno, Marx, un vecchietto a modino, il crimine, la legge, Buber & Huxley è storia, poi la giurisprudenza. Tre articoli su sei parlano di legge e crimine. Vorrà dire che qui una copertina sul crimine ci sta tutta. Marx e Buber & Huxley stanno insieme, mentre Bucky Fuller fa storia a sé. Quindi per la copertina il tema dovrebbe essere la legge. Bene, conti alla mano possiamo dire tre sul crimine, due di storia e uno su Buckminster Fuller. La soluzione può essere fare una composizione oppure concentrarsi sul crimine con Bucky Fuller a fianco. Ancora oggi mi viene in mente un criminale, un avvocato e un giudice impiccato: questa sarebbe sul crimine. E di lato Bucky Fuller che guarda la scena, con una specie di mappamondo. Così potrebbe andare. Per ogni soluzione possibile, ce n’erano altre due o tre di riserva. Ovvie e meno ovvie. Insomma, non c’è mai stato nessun problema sul senso delle copertine.
Per «Anarchy» 57 la soluzione è venuta da sé. Era tutto un fritto misto: 57 cose diverse, due scellini oppure trenta centesimi per sei, «Anarchy» 57. Era una reinterpretazione dei fagioli in scatola Heinz. Prendi sei barattoli di fagioli, li sistemi, ed ecco la copertina. Letteralmente, non c’è altro.
Lo stesso si può dire per tutte le altre. In generale è sempre una sistemazione di elementi in una stanza bianca e vuota. Tra quattro angoli. Ogni mese, sempre quel cavolo di stanza vuota. Ci metti un fiore, poi tiri fuori qualcos’altro dal cappello e fai un bel mazzolino! Allora glielo piazzi sotto il naso di qualcuno e dici: «Ecco la soluzione. Se non ti piace, accomodati!». Come Robert Ollendorf. Era nella posizione di poter dire a Colin: «Se c’è la copertina di Rufus, per l’interno non hai niente». E Colin ha ceduto a Ollendorf.
DP - Parli di «Anarchy» 105. Quella è stata l’unica copertina che ti è stata respinta. Che storia c’è dietro? Chi era Robert Ollendorf?
RS - Robert Ollendorf era un rifugiato ebreo tedesco. Era un medico di base e uno psichiatra, e condivideva uno studio medico a Peckham con John Hewetson, uno degli anarchici londinesi. Ollendorf, che era un terapeuta reichiano, aveva avuto un’idea per un libro: trentasei posizioni sessuali e la gioia che se ne può trarre. Aveva una bozza del libro in cui si vedeva una coppia – le foto erano in bianco e nero – nelle varie posizioni, e poi c’era un testo scritto da lui. Questo era il libro. Era un buon libro.
Colin ha deciso che «Anarchy» 105 sarebbe stato un unico grande articolo su Wilhelm Reich e la rivoluzione sessuale, scritto da Ollendorf. La copertina che ho realizzato prendeva in giro tutti quanti. Prendeva in giro l’autore e anche Reich. «Anarchy» era e avrebbe dovuto essere questa cosa qui. Ma Ollendorf si è opposto. Si è impuntato e ha detto a Colin: «Se hai intenzione di pubblicare questo libro con la copertina di Rufus, mi tiro fuori. Ritiro il permesso». La risposta di Colin è stata: «Oh beh, per un numero, che sarà mai». Ha realizzato una copertina tipografica e il numero è stato pubblicato così. Ma il colmo dell’ironia è stato che dieci anni dopo la fine di «Anarchy», Colin ha parlato di quella vicenda nella sua rubrica su «New Society». L’art editor, Richard Hollis, che conoscevo, mi ha telefonato e mi ha chiesto: «Ce l’hai una copia di quella copertina?» Gli ho risposto: «Certo che sì». Ho inviato la copertina alla Neto Society e loro l’hanno pubblicata. E non solo, mi hanno anche pagato 30 sterline! È stata una cosa assolutamente meravigliosa: dopo dieci anni di lavoro gratuito ho ricevuto 30 sterline per una copertina rifiutata.
DP - Mi dicevi che le illustrazioni le consegnavi direttamente in tipografia per fare i cliché senza che nessun altro le vedesse prima. Perché allora hai inviato questa copertina all’autore?
RS - Ho inviato una prova di stampa a Ollendorf pensando che gli sarebbe piaciuta! Che sciocco, non avrei dovuto disturbarmi. L’avrebbe vista Colin e l’avrei vista io, sarebbe uscita e poi sarebbe finita nel dimenticatoio. Sono stato uno sciocco a pensare che Ollendorf si meritasse quella cortesia. Insomma, è un caso che non fa precedente, è successo per la mia dabbenaggine.
DP - Ti sono capitati altri casi di censura?
RS - Sì, una volta, con «Anarchy» 63. Quello con il David di Michelangelo in copertina. Il caporeparto della legatoria che doveva cucire le copertine mi ha detto: «Non posso mandarla in lavorazione. Le signore si oppongono». Allora io gli ho risposto: «Questa signora che è contraria, per piacere, me la chiami al telefono». Ma non c’è stata nessuna telefonata! Era solo lui in loco parentis di questa presunta o di queste presunte signore. Era a lui che non andava bene. Quindi non c’è stata nessuna censura, ma solo per un soffio. «Anarchy» 69, il numero con il sedere nudo, pensavo che avrebbe subito lo stesso destino perché c’era una donna seminuda. Invece è passato senza difficoltà. Ma nessuna delle mie copertine era discutibile, a parte queste due. E non ho niente di cui scusarmi!
DP - In quel periodo hai mai avuto riscontri positivi sulle tue copertine?
RS - Sì. C’era un docente della Central School of Arts & Crafts che si chiamava Anthony Froshaug. Mi è capitato di frequentare la Central tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Ci andavo perché conoscevo John Laing, che insegnava una materia legata alla grafica. Una volta che mi aveva invitato a tenere una dimostrazione, chi ti incontro in corridoio? Anthony Froshaug. Mi dice: «Oh! Sei tu Rufus Segar? Ma che coincidenza!». Poi apre una valigetta e tira fuori qualche copia di «Anarchy». «Assolutamente meraviglioso», mi dice. Era più o meno come a dire: «Oh, sei tu che fai queste cose. Congratulazioni! Continua a fare il tuo lavoro». Ed è finita lì. Credo che questo sia stato l’unico feedback positivo, a parte la cosa che è successa dopo con Richard Hollis, che mi ha fatto guadagnare 30 sterline. Ma ripeto, a me non importava. All’epoca ero abbastanza contento delle mappe, dei grafici e dei diagrammi che facevo per l’«Economist».
DP - Hai lavorato per l’«Economist» e per l’Economist Intelligence Unit per tutti gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Anche questo altro lavoro era interessante: infatti, se per le copertine di «Anarchy» avevi uno spazio di libertà e di creatività, qui invece si trattava di tradurre i dati in grafici, cioè un lavoro comunque creativo, ma anche più strutturato.
RS - Tutti i miei amici artisti mi chiedevano: “Perché lavori per l’‘Economist’? Perché fare grafici, mappe e diagrammi, quando puoi disegnare meraviglie? Perché lo fai?». Ma io andavo alla grande. Nei grafici, nelle mappe e nei diagrammi avevo trovato il mio forte. Ecco, per me stare nel mainstream e nell’avanguardia del design grafico era motivo di gioia.
DP - Mentre lavoravi per l’Economist Intelligence Unit ti sei occupato dell’Atlas of Europe: a profile of Western Europe. Al contrario di «Anarchy», qui si trattava di infografica pura, vero?
RS - Sì. L’editore, Bartholomew Warner, lo ha realizzato insieme all’Economist Intelligence Unit. Essenzialmente si trattava di un quadro d’insieme costruito confrontando le popolazioni dei paesi europei, che all’epoca erano diciannove. Mi avevano chiesto di inserire un piccolo grafico in un quarto di pagina, ma ho detto no. Anzi, mi sono molto arrabbiato. Quello che volevo fare era tutto quanto il libro. Allora l’ho riprogettato. Ho realizzato la grafica per le ferrovie, le strade, i porti, gli aeroporti, i sistemi E-route, gli alloggi, ovvero per tutte le cose che fanno spendere soldi alla gente. Ho sfruttato tutte le potenzialità del linguaggio dei grafici. È un libro splendido. Mi piace chiamarlo «un’infografica andata su tutte le furie». Se lo consideriamo un catalogo dei vari modi di tradurre graficamente le statistiche, è invecchiato bene, credo. È un vero peccato che non abbiano continuato a pubblicarlo via via in edizione aggiornata.
DP - Che fine ha fatto la collana?
RS - Margaret Thatcher – in qualità di segretario di Stato per l’Educazione e la Scienza – ha tagliato il budget per la formazione continua dal sesto anno delle superiori in poi. Quindi questa cosuccia non ha mai avuto successo. In teoria, doveva essere aggiornata con nuove statistiche ogni due o tre anni. Il progetto è del 1974, è uscito nel 1975 e una nuova edizione sarebbe dovuta uscire prima del 1980. Ma non è mai stata pubblicata. Non ha mai avuto successo. Quindi rimane lì, in un’unica edizione, come una pietra tombale.
DP - Oltre che per l’«Economist» e «Anarchy», hai lavorato ad altri progetti come designer o illustratore?
RS - A metà degli anni Sessanta ho pubblicato dei libri. Ricordo di aver realizzato un libro intitolato Cockney alphabet. È nato da una rubrica omonima lanciata in forma di concorso sul «Daily Mail» da un giornalista di peso, Vincent Mulchrone. Aveva già mezza colonna a settimana, ma una volta ha detto: «Che ne dite di organizzare un alfabeto cockney quotidiano? Si comincia con: A sta per ’orses, B per mutton, C per th’ highlanders». Ha esposto il progetto su una mezza pagina, e ha invitato i lettori a dire la loro. Quando l’ho letto, all’epoca, mi sono lasciato trasportare. Ho realizzato la mia versione, e mi sono detto che se ne poteva fare un bel libretto. Allora ho preparato una bozza del libro e sono andato da Max Parrish, che era un editore. Ci siamo visti a pranzo, ho tirato fuori il libro e gli ho detto: «Ecco, questa è la bozza, ed ecco come funziona il libro». Lo hanno pubblicato nel 1965.
DP - Una volta hai detto che nel complesso le tue copertine per «Anarchy» sono state «per il dieci per cento brillanti, per l’ottanta per cento efficaci e per il dieci per cento maledettamente orrende». Del dieci per cento «brillante» e del dieci per cento «maledettamente orrendo», quali sono le tue copertine preferite e quelle che invece scarteresti?
RS - Intanto sono ancora convinto che sia così. Penso che «Anarchy» 70 funzioni bene perché è una doppia pagina con le due teste. Gli occhi e la bocca sono immagini prese altrove, da un libro Dover: è arte del ritaglio, come si suol dire. Quello che avevo in mente era una specie di testa scultorea alla Henry Moore. Allora ho letteralmente tagliato due teste. Anche il colore ricorda Henry Moore. Per i suoi disegni e le litografie usava una specie di viola scuro. Ci vedevo il colore. E ci vedevo quelle immagini di repertorio, gli occhi e la bocca. Credo che la copertina abbia vinto il concorso annuale della Designers & Art Directors Association (D&AD); se non sbaglio l’hanno inviato a Colin e lui l’ha inviato a me.
«Anarchy» 68 è molto semplice, sono letteralmente sei fotocopie accuratamente ritoccate. Non è altro che una striscia a fumetti. È un po’ un autoritratto. E in quarta c’è l’editoriale dell’«Economist» di quella settimana, The rejectors (quelli che oppongono un rifiuto), dedicato agli anarchici e ai libertari.
«Anarchy» 37 è molto forte: il titolo è Perché non andrò a votare, con l’incisione di una mano che fa un gestaccio. A «Freedom» è piaciuta molto e l’hanno utilizzata più volte, ha fatto il giro del mondo. Ne hanno fatto anche un poster, ma non è mai stato un disegno di Rufus, è un ritaglio di Rufus: un collage.
Penso che quelle più piene di cose siano pessime. «Anarchy» 35 è orribile. Se metti un titolo di tre righe su un’immagine interessante, rovini tutto. Mi sembra terribile! E «Anarchy» 64 è una foto di famiglia. Una foto mia, credo.
DP - Quando dici «di famiglia», intendi la tua famiglia?
RS - La mia famiglia, sì. Questo è mio figlio maggiore. Avrà avuto circa 6 o 7 anni. E questa era la banda del quartiere, quelli con cui se ne andava in giro nel sud-ovest di Londra. Eccolo di nuovo in una foto scolastica: «Anarchy» 71, sull’educazione. Non ci è voluta neppure mezz’ora per farla. Avevo sotto mano quella foto, una foto della quinta della Marylebone Grammar School. Ed ecco fatto. Qui c’è ancora Rupert, in «Anarchy» 90. Aveva davvero una t-shirt come questa, e questa è la stessa stampa ripetuta sul davanti e sul retro.
DP - Fino ad ora non mi ero reso conto che non avevi mai visto tutte le copertine riunite insieme così.
RS - No, non le avevo mai viste tutte in una volta. Pensavo solo a lavorare: finita una, passavo all’altra. La mia visione era focalizzata sul singolo oggetto. Ma ora, a guardarle nell’insieme, ti rendi conto di quanto siano coerenti gli ingredienti. C’è un’immagine forte, il titolo che indica l’argomento e poi la testata, «Anarchy». Ma ti devi ricordare, devi sempre tenere a mente, che ogni mese hai una stanza vuota da riempire, i soliti quattro angoli. Ci pensi più o meno per circa una settimana e poi trovi una soluzione semplice.
DP - Quindi, dopo dieci anni, come è finita «Anarchy»?
RS - Arrivati al decimo anno, Colin ha perso interesse. C’erano anche stati dei cambiamenti nello stile di gestione e delle modifiche nelle dimensioni, nel formato e nella tecnica. Per tutto il tempo in cui ho lavorato con Colin, ho lavorato per conto mio. Ma a un certo punto la rivista si è lanciata, ha cambiato formato, è passata all’A4. Il nuovo gruppo che è subentrato mi ha chiesto: «Ti va di continuare a fare le copertine?» e io ho risposto di sì. Per loro ho fatto quattro o cinque copertine, ma all’interno, invece di fare solo testi come aveva fatto Colin, si poteva fare di tutto. Perché ormai la stampa era in offset e mettevi tutto insieme in fotocomposizione: le possibilità erano illimitate. Hanno fatto dei cambiamenti anche rispetto all’idea che aveva Colin sulla struttura dei numeri. Da tre, quattro, cinque o sei articoli su un tema si è passati a un’accozzaglia generica, che non si reggeva in piedi. Troppi cuochi guastano la cucina. Alla fine ho perso la pazienza. Ho detto: «È ovvio che intendete fare quello che volete per l’interno, e che intendete fare quello che volete per la copertina». E ho lasciato perdere. Non che fosse una patata bollente, ma semplicemente non mi interessava più. Il motivo per cui sono sempre rimasto ad «Anarchy» per quei dieci anni è che mi sentivo legato al progetto di Colin. Lo sostenevo.
Ripensandoci, ci sono stati momenti in cui ho pensato: «Ma che sta succedendo? Eccoci qui, dovremmo essere anarchici che rimettono in sesto il mondo e invece non facciamo altro che questo». Però Colin ha fatto un buon lavoro. Stiamo parlando di una cinquantina di articoli all’anno, moltiplicati per dieci. Cavolo, saranno cinquecento articoli veramente validi sulla storia sociale e anarchica. Ma a chi interessa? Eppure, eccoci qui nel 2009 a parlare di «Anarchy». E mi sembra di poter dire che, anche se sono passati quasi quarant’anni, io e mia moglie Sheila siamo ancora anarchici, per quanto strana questa cosa possa suonare detta da un settantenne. Ma eccoci qua.