Questa selezione iconografica, pubblicata originariamente all'nterno del Quaderno "Il mondo cambia: com'è cambiato l'anarchismo?" ripercorre visivamente il decennio della rivista inglese “Anarchy”, un’esperienza editoriale che, sotto la guida redazionale di Colin Ward e con la direzione grafica di Rufus Segar, ha rappresentato un potente canale di trasmissione del pensiero anarchico critico degli anni Sessanta. In tal senso, questa rivista ha dimostrato un’inedita abilità di comprendere e fare propri gli strumenti comunicativi ancora agli esordi della loro massificazione, così da riuscire a veicolare il proprio messaggio nella maniera più diretta, efficace e comprensibile, conservando al contempo un’autonomia che sarà sempre più difficile da preservare – nell’era della “comunicazione per la comunicazione” – per qualsiasi editore e progettista grafico.
“Anarchy”, il mensile diretto da Colin Ward, è riuscito a farsi portavoce, più deciso e radicale di qualsiasi altra pubblicazione, della rivoluzione culturale inglese degli anni Sessanta e lo ha fatto, come si può intuire anche dalla selezione iconografica qui proposta, nella maniera più diretta e consapevole.
Partendo dal primo numero della rivista, apparso nel 1961, si ritrovano tutte le tematiche più determinanti che hanno influenzato il pensiero critico a partire dai primi anni Sessanta: il principio del piacere, per esempio, inteso come controparte e strumento di lotta all’autoritarismo (“Anarchy” è stato il primo sostenitore dei cosiddetti “adventure playground”, così come ha rappresentato una delle prime piattaforme d’espressione del sexual radicalism), la critica delle carceri (quella che la rivista ha definito, all’interno dei suoi articoli sul tema, la “de-istituzionalizzazione”), la celebrazione della spontaneità come prima espressione della libertà individuale.
Gli esordi di “Anarchy” vanno collocati sulla scia e sono stati l’espressione dell’entusiasmo per l’azione diretta e tale entusiasmo, per una specie di osmosi, si è tradotto in una vitalità e in una particolare apertura che ha permesso alla rivista, quasi contro la sua stessa natura, di mantenere uno stretto contatto con la sua contemporaneità.
Quando nei primi anni Sessanta lo scrittore Colin MacInnes affermò che “Anarchy” stava “rivelando più sul nostro Paese di qualsiasi altro giornale io conosca”, faceva riferimento a settimanali ben noti come il “New Statesman”, “Listener”, il “The Economist” e “Spectator”, o a quotidiani di grande rilevanza come “Encounter” o “New Life Review”.
Se le sue copertine erano di fatto lo specchio di quelle stesse tematiche di cui si occupavano anche gli altri periodici e quotidiani – principalmente politica e società contemporanea – una delle peculiarità di “Anarchy” è stata però quella di dedicare spesso interi numeri a un unico tema: la progettazione urbana, la riforma delle carceri, il disarmo nucleare, la politica estera, la politica degli alloggi e il problema dei senzatetto; la criminalità, le politiche sessuali, le arti popolari e il teatro; il razzismo, le droghe, la tecnologia, la povertà, il movimento studentesco e i diritti dei lavoratori, l’educazione.
Così facendo, “Anarchy” ha dovuto sviluppare uno stile grafico duttile che potesse, di volta in volta, rappresentare tematiche tanto variabili quanto specifiche.
Se l’anarchismo ha ben poco da spartire con il concetto di “stile”, le copertine di “Anarchy” sono nondimeno pienamente riconducibili al loro periodo storico. Infatti, sarebbe stato impossibile che l’opera di un grafico attivo nella Londra di quel tempo non riflettesse almeno in parte le innovazioni legate alla nascita del graphic design avvenuta, in Inghilterra, negli anni 1960-63. Il grafico di “Anarchy”, Rufus Segar, aveva d’altronde lavorato per l’Economist Intelligence Unit: le copertine del “The Economist” avevano vinto diversi premi e Segar non avrebbe potuto esimersi dal subire la loro influenza.
La stampa e il grafico
Il decennio di “Anarchy” non ha soltanto rappresentato un punto di svolta nell’approccio politico, sociale ed estetico, ma ha coinciso anche con una rivoluzione dei metodi di stampa. La rilievografia stava lentamente cedendo il passo alla stampa in offset, la fotocomposizione si stava sostituendo alla composizione metallica. Fu solo a partire dalla metà degli anni Ottanta che i graphic designer furono in grado di produrre e assemblare personalmente tutti gli elementi grafici in un unico file digitale pronto per la stampa. La composizione del carattere, lo scanning, il ritocco e l’inserimento delle immagini diventarono a quel punto appannaggio esclusivo del grafico, ma fino all’avvento del personal computer il processo di produzione rimase diviso. Da una parte c’era il designer, che dirigeva il lavoro dando istruzioni e specifiche; dall’altra, c’erano gli specialisti del processo di stampa: composizione tipografica, fotografia, stampa. Le prime copertine di “Anarchy” mostrano in maniera evidente questa divisione del lavoro. Con il passaggio dalla stampa in rilievo all’offset, il grafico iniziò ad avere un maggior controllo sull’intero processo e, di conseguenza, una maggiore libertà di sperimentazione.
Le immagini illustrate erano state fino ad allora le più comunemente utilizzate, ma a partire dagli anni Sessanta cominciarono a essere sostituite dalle fotografie, specialmente nell’ambito pubblicitario. Il collage e le diverse tecniche di distorsione iniziarono a essere ampiamente utilizzate per rendere la fotografia più espressiva.
Allusioni allo stile modernista, inaugurato nel 1967 dal “The Sunday Times Magazine” con uno speciale dedicato al cinquantesimo anniversario della Rivoluzione russa, fanno la loro comparsa in “Anarchy” 66, numero dedicato al movimento olandese Provo, il cui simbolo era una bicicletta bianca con sopra dipinto in maniera evidente il codice del suo lucchetto.
Se esisteva in quel momento uno stereotipo della grafica politica, quest’ultimo poteva essere ricondotto ai poster realizzati dall’Atelier Populaire, legato ai moti degli studenti francesi del Maggio 68. Lo stile peculiarmente studentesco di utilizzare semplici silhouette e slogan stringati ha certamente influenzato la scelta grafica di numeri come “Anarchy” 89 e 95, mentre lo stile dei volantini fai-da-te, a quel tempo di uso comune per la propaganda dei gruppi attivisti e militanti, fu adottato per il numero 86.
Linguaggio grafico
Immagine e testo sono i materiali grezzi a disposizione del progettista grafico. Per la prima metà della sua esistenza, le copertine “Anarchy” furono stampate su carta gialla; una scelta che, a prescindere dalle varie e imprevedibili soluzioni grafiche di volta in volta adottate, conferì nel tempo alla rivista una sorta di uniformità e identità estremamente riconoscibile. Normalmente, il giallo veniva impiegato come semplice sfondo e solo in rari casi divenne parte integrante del disegno grafico, come nel caso di “Anarchy” 5, progettato da Philip Sansom, o di “Anarchy” 19, il numero sul teatro, la cui copertina fu disegnata da Colin Munro. Similmente, per “Anarchy” 17, dallo stile più conforme al graphic design moderno, il giallo venne utilizzato come elemento positivo. Il design concepito da Sansom per il numero 5 fu invece uno dei pochi a non ricorrere al rosso come secondo colore. Dopo di lui, per il numero 36 David Boyd scelse il colore verde per rappresentare un giudice, in modo che l’immagine non fosse messa in risalto dal colore e lasciando piuttosto che si confondesse con il giallo dello sfondo. Questo stratagemma verrà poi ripreso anche per rappresentare il campo incolto del numero 41, dedicato al tema delle terre. L’impiego del secondo colore come parte integrante del disegno ricorrerà in seguito diverse volte, per esempio nei numeri 69, 70, 72 e 74.
Di contro, per oltre il 40% delle copertine di “Anarchy” (46 numeri per la precisione) fu utilizzato il nero come unico colore di stampa (per esempio, i numeri 9, 18, 23).
Se in generale può essere difficile distinguere dei pattern di riferimento nell’ampia schiera delle soluzioni grafiche adottate dai progettisti di “Anarchy”, è tuttavia possibile rilevare come i primi numeri mantenessero una maggiore convenzionalità nella struttura, che si basava sulla giustapposizione di un testo a un’immagine o a una serie di immagini. A partire da “Anarchy” 13, l’approccio divenne invece più propriamente “grafico”, attraverso l’integrazione di immagine e testo.
Con “Anarchy” 59, avvenne il passaggio alla carta bianca, mentre i numeri 79 e 91 inaugurarono la scelta, forsanche dovuta alla necessità di lavorare più rapidamente, delle copertine di solo testo, una scelta che determinò un’importante e innovativa sperimentazione anche per quanto riguarda i caratteri tipografici. Per esempio, “Anarchy” 14 fu il primo a utilizzare il Compacta, che fu in seguito impiegato per il nome stesso della rivista in quatto numeri, per poi ritornare in maniera evidente nel numero 25, caratterizzato da lettere tagliate e leggermente sovrapposte, e un’ultima volta nel numero 44 del 1964. Il numero 37 introdusse il cosiddetto Futura Display.
Una tale varietà di stili grafici e soluzioni tipografiche rispecchia a pieno le inclinazioni eclettiche della rivista. Sebbene le copertine di “Anarchy” non abbiano introdotto un vero e proprio stile grafico originale, la loro apparente incoerenza ben si accorda all’ampia gamma degli argomenti trattati. Se guardati dalla prospettiva e sullo sfondo dell’emergente dominio dell’immagine da parte dei media commerciali e delle rapide innovazioni tecnologiche, le copertine di “Anarchy” rappresentano un ritratto significativo dei primi anni del graphic design inglese e testimoniano l’intreccio tra lavoro editoriale e rivoluzione culturale.
Sara Marchesi