Da vent’anni, dalla Carta d’Atene a oggi, l’urbanistica gira su se stessa proponendosi l’apocalisse o la palingenesi della società umana e producendo città deserte, villaggi tetri, squallidi centri direzionali, miseri quartieri d’abitazione, nei quali la vita non riesce a mettere radici. Perchè accade questo? Perchè sui pilastri obbiettivi che la Carta d’Atene aveva fondato, avrebbe dovuto articolarsi un’ampia problematica diretta a scoprire e portare in gioco tutte le variabili ignote o trascurate della vita associata, la rete complessa di relazioni che le connette, i rapporti che intercorrono tra il loro flusso dinamico e le vicende dello spazio. Invece, ancorato ai caposaldi sicuri delle costanti, sui pilastri della Carta d’Atene si è fondato il Partito dell’urbanistica moderna. Un partito che trova le ragioni del suo accordo nella accettazione di alcuni schemi razionali, tanto generali e vaghi da permettere la coesistenza e la contaminazione di interpretazioni sociali o politiche o economiche del tutto opposte. E ancorato a quegli schemi, distaccato dalla realtà, si riduce a sterili atteggiamenti sentimentali o demiurgici, batte la strada del formalismo, lascia crescere la profonda frattura che lo divide dalle forze attive della cultura e dalla gente comune per la quale vorrebbe operare.
Articolo tratto da «Volontà», n. 11/1954