LA SOSPENSIONE DELLA PUBBLICAZIONE DI SOCIALISME OU BARBARIE
Il primo numero di «Socialisme ou Barbarie» è apparso nel marzo 1949. Il quarantesimo, nel giugno 1965. Contrariamente a quanto pensavamo pubblicandolo, questo quarantesimo numero sarà per ora l’ultimo.
La sospensione a tempo indeterminato della pubblicazione della rivista, che abbiamo deciso1 dopo una lunga e sofferta riflessione, non è motivata da difficoltà di ordine materiale. Difficoltà simili sono esistite per il nostro gruppo fin dal primo giorno. Non sono mai terminate. Ma poi, sono sempre state superate, e avrebbero continuato a esserlo se avessimo deciso di proseguire la pubblicazione della rivista. Se oggi la sospendiamo, è perché il senso della nostra attività, nella sua forma attuale, è divenuto per noi problematico. Ed è quello che vogliamo esporre qui brevemente per coloro che, abbonati o lettori della rivista, hanno seguito da molto tempo il nostro impegno.
«Socialisme ou Barbarie» non è mai stata una rivista di pura ricerca teorica. Se l’elaborazione delle idee ha sempre occupato una posizione centrale, essa è sempre stata guidata da un intento politico. Il sottotitolo della rivista: organo critico e di orientamento rivoluzionario, indica già in modo sufficiente lo statuto del lavoro teorico che vi è stato espresso da diciotto anni. Alimentato da un’attività rivoluzionaria individuale e collettiva, esso acquistava il suo valore da ciò che era – o poteva, prevedibilmente divenire – pertinente per una simile attività, in quanto interpretazione ed elucidazione del reale e del possibile in un’ottica di trasformazione della società. La rivista non aveva senso per noi e in se stessa, se non come momento e strumento di un progetto politico rivoluzionario.
Ora, da questo punto di vista, le condizioni sociali reali – o in ogni caso, ciò che noi ne cogliamo – sono cambiate sempre di più. Lo abbiamo già constatato dopo il 1959 – come è possibile vedere nella serie di testi sul Movimento rivoluzionario nel capitalismo moderno – e l’evoluzione che ne è seguita non ha fatto altro che confermare questa diagnosi: nelle società del capitalismo moderno, l’attività politica propriamente detta tende a scomparire. Coloro che ci hanno letto sanno che non si trattava di una semplice constatazione di fatto, ma del prodotto di una analisi delle peculiarità a nostro avviso più profonde delle società moderne.
Quello che ci appariva come un elemento di compensazione di questa diagnosi negativa, quello che bilanciava, nella nostra prospettiva, la privatizzazione crescente della massa della popolazione, erano le lotte nella produzione, materialmente constatate e analizzate nel caso dell’industria inglese e americana, lotte che mettono in discussione le relazioni di lavoro nel capitalismo e traducono, in forma embrionale, la tendenza gestionale degli operai. Pensavamo che quelle lotte si sarebbero sviluppate allo stesso modo in Francia e, soprattutto, che avrebbero potuto – certo non senza un intervento e un’introduzione dell’elemento politico vero e proprio – superare i rapporti immediati di lavoro, e progredire verso la messa in discussione esplicita delle relazioni sociali generali.
In questo ci sbagliavamo. Quello sviluppo non ha avuto luogo in Francia, se non su scala estremamente ridotta (non sono certo gli scioperi dell’ultimo periodo, rapidamente sindacalizzati, che potrebbero modificare questa valutazione). In Inghilterra, dove queste lotte continuano (con gli inevitabili alti e bassi), il loro carattere non si è modificato, né da se stesso, né in funzione dell’attività dei nostri compagni del gruppo Solidarity.
Certo, non è da escludere una diversa evoluzione per il futuro – sebbene ci appaia improbabile per le ragioni che menzioneremo più avanti. Ma la questione non è questa. Crediamo di aver mostrato a sufficienza che non siamo impazienti e che non abbiamo mai pensato, ripetiamolo, che la trasformazione di questo tipo di lotte operaie – così come di qualsiasi altro tipo – potrebbe realizzarsi senza il parallelo sviluppo di una organizzazione politica nuova, che è stata sempre nostra intenzione di costruire.
Ora la costruzione di una organizzazione politica nelle condizioni in cui ci troviamo – e delle quali forse fa anche parte ciò che noi siamo - è stata e continua a essere impossibile, in funzione di una serie di fattori nient’affatto accidentali e strettamente collegati gli uni agli altri.
In una società in cui il conflitto politico radicale è sempre più mascherato, soffocato, deviato, o addirittura inesistente, un’organizzazione politica che per ipotesi venga realizzata, non potrebbe che andare verso il declino e degenerare rapidamente. Perché c’è da chiedersi, in primo luogo, dove e in quale strato sociale essa potrebbe trovare quell’ambiente immediato senza il quale un’organizzazione non può vivere. Abbiamo avuto un'esperienza negativa tanto per ciò che riguarda gli elementi operai quanto per ciò riguarda gli elementi intellettuali. I primi, anche quando vedono un gruppo politico con simpatia e riconoscono nelle sue idee l’espressione della propria esperienza, non sono disposti a mantenere con esso un contatto permanente, e ancor meno un’associazione attiva, dato che le prospettive politiche di questo gruppo, nella misura in cui superino le loro preoccupazioni immediate, appaiono loro oscure, gratuite ed eccessive. Per gli altri – gli intellettuali – ciò che sembra appagarlinel loro contatto con un gruppo politico è la curiosità e il “bisogno di informazione”. Qui dobbiamo dire chiaramente che non abbiamo mai avuto, da parte del pubblico della rivista, il tipo di risposta che auspicavamo e che avrebbe potuto aiutarci nel nostro lavoro; la sua attitudine è rimasta, salvo rarissime eccezioni, quella di consumatori passivi di idee. Un simile atteggiamento del pubblico, perfettamente compatibile con il ruolo e gli obiettivi di una rivista tradizionale, rende alla lunga impossibile l’esistenza di una rivista come «Socialisme ou Barbarie».
E chi potrebbe, in queste circostanze, aderire a un’organizzazione politica rivoluzionaria? La nostra esperienza è stata che quelli che sono venuti da noi – essenzialmente dei giovani – l’hanno fatto a partire, se non da un malinteso, perlomeno da motivazioni che avevano a che fare molto più con una rivolta affettiva e con il bisogno di rompere l’isolamento nel quale la società condanna a vivere oggi gli individui, che non con l’adesione lucida e decisa a un progetto rivoluzionario. Forse questa motivazione di partenza vale quanto un’altra; il punto è che le medesime condizioni di assenza di attività politica propriamente detta impediscono che essa si trasformi in qualcosa di più solido.
Infine, in che modo in un tale contesto un’organizzazione politica, di cui presumiamo l’esistenza, potrebbe controllare ciò che dice e ciò che si propone di fare? In che modo potrebbe sviluppare nuovi mezzi di organizzazione e di azione, arricchire, in una dialettica che viva della praxis con l’insieme sociale, ciò che trae dalla propria sostanza? In che modo soprattutto, nella fase storica attuale, dopo l’immenso e profondo fallimento degli strumenti, dei metodi e delle pratiche del movimento di un tempo, essa potrebbe ricostruire, nel silenzio totale della società, una nuova praxis politica? Nel migliore dei casi, potrebbe tenere un discorso teorico astratto; nel peggiore, potrebbe produrre quelle strane combinazioni di ossessività settaria, di isteria pseudo-attivista e di delirio interpretativo di cui decine di gruppi di “estrema sinistra” offrono ancora oggi in ogni parte del mondo tutti gli esempi concepibili.
Nulla lascia prevedere una modificazione rapida di questa situazione. Non è questa la sede per mostrarlo con una lunga analisi, della quale peraltro gli elementi essenziali si trovano già formulati negli ultimi dieci numeri di «Socialisme ou Barbarie». Ma occorre sottolineare ciò che ha un peso enorme nella realtà e nella prospettiva attuale: la depoliticizzazione e la privatizzazione profonde della società moderna; la trasformazione accelerata degli operai in impiegati, con le conseguenze che ne derivano al livello delle lotte nella produzione; la confusione dei contorni di classe che rende sempre più problematica la coincidenza di obiettivi economici e politici.
È questa situazione globale che impedisce, anche su di un altro terreno, quello della crisi della cultura e della vita quotidiana, evidenziata nella rivista già da molti anni, che possa svilupparsi e prendere forma una reazione collettiva positiva contro l’alienazione della società moderna. Ed è perché un’attività politica, anche se embrionale, è oggi impossibile che questa reazione non riesce a prendere forma. Viene condannata a restare individuale, oppure deriva rapidamente verso un folklore delirante che non riesce neanche più a scioccare. La devianza non è mai stata rivoluzionaria; oggi non è neanche più devianza, ma complemento negativo indispensabile della pubblicità “culturale”.
Sappiamo che, da dieci anni in qua, questi fenomeni, più o meno chiaramente percepiti e analizzati, hanno spinto alcuni a riporre le loro speranze nei paesi sottosviluppati. Nella rivista, abbiamo detto già da molto tempo perché questo trasferimento è illusorio: se la parte moderna del mondo è irrimediabilmente marcia, sarebbe assurdo pensare che un destino rivoluzionario dell’umanità possa realizzarsi nell’altra parte. Di fatto, in tutti i paesi sottosviluppati, o un movimento sociale delle masse non riesce a costituirsi, oppure può farlo solo a patto di burocratizzarsi.
Che si tratti della sua metà moderna o della sua metà affamata, sul mondo contemporaneo rimane sospesa la stessa domanda: l’immensa capacità degli uomini di illudersi su ciò che sono e su ciò che pensano si è modificata in alcunché da un secolo a questa parte? Marx pensava che la realtà avrebbe costretto gli uomini a “guardare con sguardo lucido la loro stessa esistenza e i rapporti con i loro simili”. Sappiamo che la realtà si è rivelata al disotto del compito che le affidava il grande pensatore. Freud credeva che i progressi del sapere, e quello che lui chiamava “nostro dio logos”, avrebbero permesso all’uomo di modificare gradualmente il suo rapporto con le forze oscure che porta dentro di sé. Abbiamo reimparato in seguito che il rapporto tra il sapere e l’agire effettivo degli uomini – individui e collettività – è tutt’altro che semplice, e che i saperi marxiano e freudiano stessi sono potuti diventare, e ridiventano ogni giorno, fonte di nuove mistificazioni. L’esperienza storica dopo un secolo, e questo a tutti i livelli, dai più astratti ai più empirici, proibisce di credere tanto a un automatismo positivo della storia quanto a una conquista cumulativa dell’uomo da sé in funzione di una sedimentazione del sapere. Noi non ne traiamo nessuna conclusione scettica o “pessimistica”. Ma il rapporto degli uomini con le loro creazioni teoriche e pratiche, quello tra sapere, o meglio lucidità, e attività reale, la possibilità di costituzione di una società autonoma, il destino del progetto rivoluzionario e il suo possibile radicamento in una società in evoluzione come la nostra – questo tipo di questioni, e molteplici altre che esse inducono, devono essere profondamente ripensate. Un’attività rivoluzionaria potrà ridiventare possibile solo quando una ricostruzione ideologica radicale potrà incontrare un movimento sociale reale.
Questa ricostruzione – i cui elementi sono stati posti già in «Socialisme ou Barbarie» – pensavamo di poterla realizzare sull’onda stessa della costruzione di una organizzazione politica rivoluzionaria. Oggi questo si rivela impossibile, e dobbiamo trarne le conclusioni. Il lavoro teorico, necessario come non mai, ma che da qui in avanti pone altre esigenze e comporta un altro ritmo, non può essere l’asse dell’esistenza di un gruppo organizzato e di una rivista periodica. Non saremo certo noi a disconoscere i rischi immanenti a un’attività teorica separata dall’attività reale. Ma di questa attività, le circostanze presenti non ci permetterebbero di mantenere nel migliore dei casi che un simulacro inutile e sterilizzante.
Noi continueremo, ognuno nel campo che gli è proprio, a riflettere e ad agire in funzione delle certezze e degli interrogativi che «Socialisme ou Barbarie» ci ha permesso di individuare. Se lo faremo bene, e se le condizioni sociali si presenteranno, siamo certi che potremo ricominciare un giorno la nostra attività su delle basi più certe, e in un rapporto differente con coloro che hanno seguito il nostro lavoro.
Cornelius Castoriadis
1 Ad eccezione di quattro compagni del gruppo, che per parte loro hanno in progetto una pubblicazione che si richiami alle idee di «Socialisme ou Barbarie» e che faranno pervenire agli abbonati e ai lettori della rivista un testo che precisi le loro intenzioni.
Circolare indirizzata agli abbonati e ai lettori di Socialisme ou Barbarie, giugno 1967.
14/11/2024