Il matrimonio e l’amore
di Emma Goldman
fonte: La libertà o niente, elèuthera, Milano, 2023.
Titolo originale: Marriage and Love, in Anarchism and Other Essays, Mother Earth Publishing Association, New York, 1910.
È opinione comune che matrimonio e amore siano sinonimi, che nascano dalle stesse motivazioni e che rispondano agli stessi bisogni umani. Come gran parte delle idee ricevute, anche questa non si basa su una realtà di fatto ma su un pregiudizio.
Matrimonio e amore non hanno nulla in comune: sono distanti quanto i poli; anzi, sono a tutti gli effetti nemici l’uno dell’altro[1]. Certo, alcuni matrimoni derivano dall’amore. Non però perché l’amore possa realizzarsi soltanto nel matrimonio; semmai è perché alcune persone riescono ad andare oltre le convenzioni. Viceversa, per tantissimi uomini e donne di oggi, il matrimonio non è che una farsa cui sottomettersi per conformismo. In ogni caso, se è vero che alcuni matrimoni sono fondati sull’amore e che a volte l’amore persiste anche nella vita coniugale, la mia tesi è che questo avviene a dispetto del matrimonio e non grazie a esso.
Per converso, è del tutto falso che l’amore derivi dal matrimonio. In rare occasioni si sentirà parlare di un caso miracoloso in cui i coniugi si sono innamorati dopo le nozze, ma a un esame più attento si scopre che si tratta di pura e semplice rassegnazione all’ineluttabile. Fare l’abitudine l’uno all’altra è una condizione ben diversa dalla spontaneità, dall’intensità e dalla bellezza dell’amore, senza le quali l’intimità del matrimonio non può che essere avvilente tanto per l’uomo quanto per la donna.
Il matrimonio è in primo luogo un contratto economico, una polizza assicurativa. Differisce dalle normali polizze sulla vita solo in quanto è più vincolante, e più esoso. Gli utili che se ne ricavano sono infinitesimi in proporzione all’investimento. Le polizze assicurative si pagano in dollari e centesimi, e si possono disdire in qualsiasi momento. Mentre quando il premio assicurativo è un marito, il prezzo da pagare per una donna sarà la rinuncia al proprio cognome, alla propria privacy, al rispetto di sé, alla sua stessa vita, «finché morte non ci separi». In aggiunta, il contratto assicurativo matrimoniale la condanna vita natural durante alla dipendenza, al parassitismo, alla completa inutilità sia individuale sia sociale. Anche l’uomo paga un prezzo, ma la sfera in cui conduce la sua vita è più vasta, e il matrimonio non lo limita quanto limita la donna. Nel suo caso, il peso della catena è più avvertibile in senso economico.
Le parole poste da Dante all’ingresso dell’Inferno valgono dunque, con pari forza, per il matrimonio: «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate».
Solo uno sciocco potrebbe negare che l’istituzione matrimoniale sia un fallimento. Per capire fino a che punto, basta dare un’occhiata alle statistiche sui divorzi. L’argomentazione quanto mai stereotipata e filistea che le leggi sul divorzio sono troppo permissive e le donne sempre più immorali non può spiegare quanto segue: 1. che un matrimonio ogni dodici termina in divorzio; 2. che dal 1870 i divorzi sono aumentati da 28 a 73 per ogni 100.000 abitanti; 3. che dal 1867 l’adulterio come causa di divorzio è aumentato del 270,8 per cento; 4. che le separazioni sono aumentate del 369,8 per cento.
A ulteriore conferma di questi dati clamorosi, possiamo aggiungere una vasta documentazione letteraria, sia teatrale sia narrativa. Autori come Robert Herrick[2] in Together, [Arthur Wing] Pinero[3] in Mid-Channel, Eugene Walter[4] e John W. Harding[5] in Paid in Full, e innumerevoli altri, stanno mettendo in luce l’aridità, la monotonia, lo squallore, l’inadeguatezza del matrimonio come fattore di armonia e conoscenza.
Lo studioso attento del sociale non si accontenterà della superficiale giustificazione che viene comunemente data del fenomeno. Per capire perché il matrimonio abbia conseguenze tanto disastrose scaverà a fondo nella vita dei due sessi.
Edward Carpenter[6] afferma che dietro ogni matrimonio ci sono gli ambienti in cui si svolge la vita intera dei due sessi: ambienti talmente diversi che uomini e donne non possono che restare estranei gli uni alle altre. Il muro insormontabile di pregiudizi, costumi e convenzioni che li separa rende impossibile sviluppare all’interno del matrimonio la conoscenza e il rispetto reciproci in mancanza dei quali ogni unione è destinata al fallimento.
Forse il primo a prendere atto di questa grande verità è stato Ibsen, che aveva in odio tutte le mistificazioni sociali. Nora[7] lascia suo marito non perché sia stanca delle sue incombenze di moglie, o perché senta la necessità di affermare i propri diritti di donna (come vorrebbe la critica più superficiale), ma perché si è resa conto che per otto anni ha vissuto e fatto figli con un estraneo. E cosa potrebbe esistere di più umiliante, di più degradante di una vita intera fondata sull’intimità di due estranei? Dell’uomo che sposa, una donna non è tenuta a sapere niente, tranne il suo reddito. Quanto a conoscere la donna che si sposa, che cosa c’è da sapere, se non che ha un aspetto gradevole? Non ci siamo ancora liberati del mito teologico secondo il quale la donna è priva di anima, è una mera appendice del maschio, creata dalla sua costola per soddisfare le esigenze di un gentiluomo talmente forte da avere paura della sua stessa ombra.
Magari è stata la qualità scadente del materiale con cui è stata creata a determinare l’inferiorità della donna. Comunque sia, è priva di anima, dunque che c’è da sapere di lei? Anzi, meno anima ha e più avrà valore come moglie, perché sarà più disponibile a lasciarsi completamente assorbire dal marito. È stata questa acquiescenza servile alla superiorità maschile a conservare pressoché intatta l’istituzione del matrimonio per un periodo così lungo. Oggi che la donna si sta affermando in proprio, ora che inizia davvero a maturare coscienza di sé come essere indipendente dalle concessioni del suo signore e padrone, la sacra istituzione del matrimonio dà segni di cedimento, e tutti i piagnistei sentimentali non basteranno a tenerla in piedi.
Una ragazza si sente ripetere fin quasi dalla nascita che il suo scopo ultimo è il matrimonio; a questo sono orientate la sua educazione e istruzione. Viene preparata a quell’esito come la bestia muta messa all’ingrasso per il macello. Eppure, in modo alquanto bizzarro, della sua funzione di moglie e madre le è concesso di sapere molto meno di quanto un normale artigiano sappia del suo mestiere. Per una ragazza rispettabile è indecente e osceno sapere alcunché dei rapporti coniugali. Quanta incoerenza in questa rispettabilità, che ha bisogno del vincolo matrimoniale per tramutare qualcosa di osceno in un patto così puro e sacro che nessuno oserà più metterlo in discussione o criticarlo! Nondimeno, è proprio questa la posizione del tipico sostenitore del matrimonio. La futura moglie e madre è tenuta nell’assoluta ignoranza della sua unica risorsa su un mercato competitivo: il sesso. Di conseguenza, stringerà un rapporto a vita con un uomo, solo per ritrovarsi scioccata, disgustata, oltraggiata oltre ogni misura da quello che è l’istinto più sano e naturale, ovvero il sesso. Si può ben dire che una quota significativa dell’infelicità, dell’angoscia e della sofferenza fisica del matrimonio è dovuta alla criminale ignoranza in materia sessuale, celebrata come una grande virtù. E non esagero affermando che più di una famiglia è andata a pezzi a causa di questa deplorevole situazione di fatto.
Se invece una donna è abbastanza libera e adulta da aver sperimentato il mistero del sesso senza la benedizione dello Stato o della Chiesa, allora verrà tacciata di essere del tutto inidonea a diventare la moglie di un uomo «perbene», un uomo la cui dote consiste nell’avere la testa vuota e il portafoglio pieno. Può esistere qualcosa di più osceno dell’idea che una donna sana e adulta, piena di vita e di passione, debba negare gli impulsi della natura, soffocare i suoi desideri più intensi, minare la propria salute, spezzare il proprio spirito e restringere il proprio campo visivo, privandosi dell’esperienza profonda e magnifica del sesso fino al momento in cui un uomo «perbene» verrà a prenderla in moglie? Perché è proprio questo che significa il matrimonio. E come si può pensare che una disposizione del genere possa finire altrimenti che in fallimento? E questo è solo uno, sebbene non il meno importante, degli aspetti che distinguono il matrimonio dall’amore.
La nostra, però, è un’epoca più pragmatica. È finito il tempo in cui, per amore, Romeo e Giulietta rischiavano la collera dei padri o Margherita si esponeva alla maldicenza dei vicini. Nelle rare occasioni in cui i giovani si permettono il lusso di una storia d’amore, ci penseranno gli adulti ad asfissiarli e tormentarli finché non avranno «rimesso la testa a posto».
La lezione morale inculcata alle ragazze non è quella di domandarsi se un uomo accende il suo amore, ma piuttosto di chiedersi: «Che reddito ha?». Eccolo, l’unico e fondamentale dio del pragmatismo americano: quest’uomo guadagna abbastanza? È in grado di mantenere una moglie? Solo questo può giustificare il matrimonio. Poco alla volta, questo diventa l’unico pensiero di una ragazza. Smetterà di sognare baci al chiaro di luna, risate e pianti, per sognare spedizioni di shopping nei grandi magazzini. Questa aridità spirituale, questo abbrutimento, sono parte integrante dell’istituzione matrimonio. Lo Stato e la Chiesa non approvano nessun altro ideale, per il semplice motivo che questo è l’unico che consente loro di mantenere il controllo su uomini e donne.
Beninteso, esistono persone che continuano a considerare l’amore più importante dei soldi. Questo vale soprattutto per la classe obbligata dalla necessità economica a rendersi auto-sufficiente. Lo straordinario cambiamento nella condizione femminile determinato da questo potente fattore è davvero fenomenale se si pensa da quanto poco tempo la donna sia entrata nel mercato del lavoro: sei milioni di donne salariate; sei milioni di donne con lo stesso diritto degli uomini di essere sfruttate e derubate, di scendere in sciopero, e sì, persino di morire di fame. Cos’altro potremmo desiderare? Sì, sei milioni di donne salariate in ogni ambito lavorativo, dalle più astratte funzioni intellettuali alle più faticose mansioni manuali, nelle miniere o nelle ferrovie; e ci sono persino investigatrici e poliziotte. Non vi è dubbio che l’emancipazione ha fatto il suo corso.
Nondimeno, solo un numero molto ristretto del vasto esercito di salariate considera il lavoro come una sistemazione permanente, allo stesso modo in cui lo vede un uomo. Anche quando è ormai decrepito, un uomo tende a conservarsi indipendente, a mantenersi da solo, perché così gli è stato insegnato. Certo, so bene che nessuno è davvero indipendente nella macina del nostro sistema economico, ma resta il fatto che anche il più mediocre esemplare di maschio detesta essere un parassita, o quantomeno che si sappia. Una donna, invece, considera la sua posizione di lavoratrice come provvisoria, da liquidare non appena si fa avanti il primo offerente. Per questo è infinitamente più difficile organizzare le donne rispetto agli uomini. «Perché dovrei aderire a un sindacato? Tanto in futuro mi sposerò e mi occuperò della casa». Non è appunto questa la vocazione ultima che le hanno inculcato fin dalla prima infanzia? E tuttavia scoprirà fin troppo presto che la casa, pur non essendo una prigione grande quanto una fabbrica, ha portoni e sbarre più solidi, e un carceriere così ligio che niente gli sfugge. Ma l’aspetto più tragico è che occuparsi della casa non necessariamente libera le donne dalla schiavitù salariata, il che aggrava il loro carico di lavoro.
Secondo le statistiche più recenti, presentate a una commissione su «lavoro, salari e sovraffollamento», nella sola città di New York il 10 per cento delle lavoratrici salariate è sposato e tuttavia continua svolgere i lavori meno retribuiti al mondo. Se a questo si aggiunge l’orribile monotonia del lavoro domestico, cosa resta della protezione e della gloria della casa? Una volta sposata, nemmeno una donna del ceto medio può dire di avere una casa propria, perché è l’uomo a determinare la sua sfera di vita. E non ha importanza se quell’uomo è un bruto o un angelo: la cosa che più conta è che a una donna il matrimonio garantisce una casa solo per concessione del marito. Anno dopo anno, lei continua a esistere entro confini definiti da lui, finché la sua visione della vita e delle vicende umane si appiattisce, si restringe e diventa scialba quanto l’ambiente che la circonda. Non c’è da sorprendersi che diventi bisbetica, meschina, litigiosa, pettegola e insopportabile, fino a spingere l’uomo ad andarsene di casa. Lei non può andarsene, nemmeno volendo: non ha un posto dove andare. Anche se breve, il periodo vissuto da sposata, nella resa incondizionata di tutte le sue facoltà, rende la donna media assolutamente incapace di affrontare il mondo esterno. Trascurata nell’aspetto, impacciata nei movimenti, priva di autonomia decisionale e timorosa nel giudizio, diventa un peso e una seccatura che la maggior parte degli uomini finisce per odiare e disprezzare. Un’atmosfera davvero stimolante in cui mettere al mondo dei figli, no?
Ma come si potrebbe proteggere un bambino se non ci fosse il matrimonio? Dopotutto, non è questa la considerazione più importante? Che menzogna, che ipocrisia! Il matrimonio tutela i bambini, eppure ce ne sono migliaia abbandonati e senza casa. Il matrimonio tutela i bambini, eppure gli orfanotrofi e i riformatori sono sovraffollati, e la Society for the Prevention of Cruelty to Children [Società per la prevenzione dei maltrattamenti all’infanzia] deve affannarsi per sottrarre le piccole vittime ai loro «amorevoli» genitori e affidarle a una tutela ancora più «amorevole», quella della Gerry Society[8]. Che beffa orribile!
Sarà anche vero che il matrimonio ha il potere di «portare il cavallo all’acqua», ma quando mai l’ha convinto a berla[9]? La legge potrà anche arrestare il padre brutale e sbatterlo in galera, ma quando mai questo è servito a placare la fame del bambino? Se il padre non ha un lavoro o non riconosce il figlio, che cosa mai può fare il matrimonio? Se invocasse la legge, potrebbe portare quell’uomo davanti «alla giustizia» e farlo rinchiudere dietro le sbarre; ma anche così i proventi del suo lavoro forzato non andrebbero al bambino bensì allo Stato. E al bambino non resterebbe che il triste ricordo del padre in divisa da carcerato.
Quanto a proteggere la donna, proprio qui risiede la maledizione del matrimonio. Al di là del fatto che la protegga davvero o no, la sola idea di sposarsi per avere protezione è un tale scandalo, un tale oltraggio alla vita, un concetto così degradante per la dignità umana, da condannare senza appello questa istituzione parassitaria.
In questo è simile a un’altra istituzione paternalistica: il capitalismo. Dopo aver derubato l’uomo dei suoi diritti naturali, dopo averne arrestato la crescita e avvelenato il suo corpo, tenendolo in una condizione di ignoranza, povertà e dipendenza, il capitalismo istituisce opere di carità che spazzano via le ultime vestigia di amor proprio.
Similmente, l’istituzione del matrimonio riduce la donna a un essere parassitario, totalmente dipendente. La rende incapace di affrontare la lotta per la vita, annienta la sua coscienza sociale, paralizza la sua immaginazione, e poi le impone la propria condiscendente protezione, di fatto nient’altro che una trappola, una parodia di umanità.
Se la maternità è la più alta realizzazione della natura femminile, di quale altra protezione dovrebbe avere bisogno, se non quella dell’amore e della libertà? Il matrimonio non fa che contaminare, oltraggiare e corrompere la sua realizzazione. Non dice forse alla donna: «Solo se stai con me potrai mettere al mondo nuove vite»? Non la condanna forse alla gogna, non la svilisce, ricoprendola di vergogna, se rifiuta di comprare il diritto alla maternità vendendo sé stessa? Non è forse l’unica istituzione all’interno della quale la maternità è ammessa anche se concepita nell’odio e nella costrizione? E quando invece la maternità è una libera scelta, nata dall’amore, dall’estasi, da una passione irrefrenabile, non pone forse una corona spine su una testa innocente, incidendogli sulla fronte, in lettere di sangue, l’odioso appellativo di «bastardo»? Se anche il matrimonio avesse tutte le virtù che gli vengono attribuite, basterebbero i suoi crimini contro la maternità a escluderlo per sempre dal regno dell’amore.
L’amore, l’elemento più forte e profondo della vita, messaggero di speranza, gioia ed estasi; l’amore, che sfida ogni legge e ogni convenzione; l’amore, la forza più libera e potente nel plasmare il destino umano: come può una forza tanto travolgente essere sinonimo di matrimonio, quell’infestante concepito da Stato e Chiesa?
Libero amore, dunque? Come se l’amore potesse mai essere altro che libero! L’uomo ha comprato le menti, ma tutti i milioni del mondo non sono mai riusciti a comprare l’amore. L’uomo ha asservito i corpi, ma tutto il potere del mondo non è mai riuscito a sottomettere l’amore. L’uomo ha conquistato intere nazioni, ma tutti i suoi eserciti non sono mai riusciti a conquistare l’amore. L’uomo ha incatenato e piegato lo spirito, ma è del tutto inerme davanti all’amore. Assiso in trono, in tutto lo splendore e la pompa che il suo oro può procurargli, l’uomo resta povero e affranto se l’amore gli passa accanto senza fermarsi. E quando invece si ferma, anche il più misero dei tuguri si riempie di calore, di vita e di colore. Sì, l’amore ha il magico potere di tramutare in re un mendicante. E sì, l’amore è libero: la libertà è l’unica aria che gli consente di vivere. Solo nella libertà si concede incondizionatamente, in abbondanza e pienezza. Tutte le leggi costituite, tutti i tribunali dell’universo, non possono svellerlo dal suolo, una volta che abbia messo radici. Ma se il terreno è sterile, come potrebbe il matrimonio costringerlo a dare frutto? Sarebbe l’ultima disperata lotta di una vita fuggevole contro la morte.
All’amore non servono protezioni: si protegge da sé. Finché è l’amore a generare la vita, nessun bambino sarà abbandonato, ridotto alla fame o privato dell’affetto. Di questo ne sono certa. Conosco donne diventate madri per libera scelta con gli uomini che amavano. Pochi bambini nati all’interno del matrimonio godono le cure, la protezione, la dedizione profuse a piene mani da una maternità liberamente scelta.
I difensori dell’autorità tremano al pensiero della libera maternità, per paura che li privi delle loro prede. Chi resterebbe a combattere le guerre, a creare ricchezza altrui, a fare il poliziotto o il secondino, se le donne rifiutassero di mettere al mondo e allevare figli in modo indiscriminato? «La stirpe, la stirpe!» gridano il re, il presidente, il capitalista, il prete. Bisogna preservare la stirpe, degradando la donna a semplice macchina riproduttiva e istituendo il matrimonio come unica valvola di sfogo contro il suo pernicioso risveglio sessuale. Ma questi tentativi frenetici di tenerla in schiavitù sono ormai vani. Come vani sono gli editti della Chiesa, gli attacchi forsennati dei governanti e persino la legge. Le donne non vogliono più essere complici della produzione di una razza di esseri umani malaticci, fiacchi, decrepiti, infelici, che non hanno né la forza né il coraggio morale di scrollarsi il giogo della povertà e della servitù. Ciò che desiderano è avere meno figli ma più sani, concepiti per libera scelta – non per costrizione, come imposto dal matrimonio – e cresciuti nell’amore. I nostri pseudo moralizzatori non hanno ancora capito quale profondo senso di responsabilità nei confronti del bambino abbia risvegliato nel cuore delle donne l’amore per la libertà. Le donne sono disposte a rinunciare alla gloria della maternità piuttosto che far nascere una nuova vita in un ambiente in cui si respira solo distruzione e morte. E quando decidono di diventare madri, è per dare al bambino quanto di più prezioso possono trarre da sé. Crescere insieme al bambino è la loro massima: sanno che solo così potranno contribuire alla formazione di veri uomini e vere donne.
Ibsen deve avere intravisto l’immagine di una madre libera quando, con tocco magistrale, ha ritratto la signora Alving[10]10. Lei è la madre ideale, perché è andata oltre il matrimonio e tutti i suoi orrori, perché ha spezzato le proprie catene, lasciando il suo spirito libero di volare fino a diventare un’autentica personalità, rigenerata e forte. Sfortunatamente, era troppo tardi per salvare la gioia della sua vita, il suo Oswald; ma non per rendersi conto che amare in libertà è la condizione necessaria per la bellezza della vita. Chi, come la signora Alving, ha pagato in lacrime e sangue in proprio risveglio spirituale, ripudia il matrimonio come un’imposizione, una beffa vuota e vana. Sa che solo nell’amore – che duri un breve istante o in eterno – si può trovare l’ispirazione per creare e far crescere una nuova specie umana, un nuovo mondo.
Nella nostra attuale condizione di pigmei, l’amore rimane del tutto sconosciuto alla maggioranza delle persone. Frainteso ed evitato, raramente mette radici; e se anche accade, nel giro di poco sfiorisce e muore. La sua fibra delicata non sopporta lo sforzo e la tensione del logorio quotidiano. La sua anima è troppo complessa per adattarsi alla sordida trama del nostro tessuto sociale. E così piange, geme e soffre con quanti, pur desiderandolo, non hanno la capacità di innalzarsi fino alle sue vette.
Ma un giorno, un giorno tanti uomini e donne si alzeranno in piedi, scaleranno la montagna e torneranno a sentirsi forti, grandi, liberi, e pronti ad accettare, condividere e assaporare con gioia i raggi dorati dell’amore. Quale fantasia, quale immaginazione, quale genio poetico è capace di intravedere, anche solo approssimativamente, il potenziale di una forza simile sulle vite degli uomini e delle donne? Se il mondo saprà mai dare vita a un vero legame sentimentale e a una vera unione, non sarà certo stato il matrimonio a generarli, ma l’amore.
traduzione di Elena Cantoni
Note
[1] A quell’epoca, una donna che si sposava negli Stati Uniti assumeva il cognome del marito ed era legalmente considerata sempre sessualmente disponibile (il concetto legale di stupro coniugale non esisteva). Non poteva aprire un conto in banca senza il permesso del marito e molti lavori le venivano negati, oltre a essere spesso licenziata se rimaneva incinta. Inoltre, le norme sociali imponevano una rigida divisione sessuale del lavoro all’interno della casa coniugale. La contraccezione e l’aborto erano proibiti e l’adulterio era severamente punito per la moglie, ma tollerato per il marito, grazie a tribunali interamente maschili. La situazione addirittura peggiorava per le donne della classe operaia, le donne afroamericane e le donne aborigene. Oggi, sebbene la situazione sia migliorata grazie agli sforzi dei movimenti femminili, le donne eterosessuali sposate o conviventi sono spesso quelle che svolgono la maggior parte del lavoro domestico e parentale non retribuito, che sopportano il maggior «onere mentale» (cioè sentirsi responsabili, prendersi cura, pianificare e organizzare la gestione della vita coniugale e familiare), e che subiscono la maggior parte delle violenze sessuali e fisiche. Sono infatti loro le prime vittime degli omicidi coniugali e post-coniugali.
[2] Robert Herrick (1591-1674), poeta lirico inglese, fu condannato per oscenità.
[3] Arthur Wing Pinero (1855-1934) fu un commediografo inglese autore di numerose commedie sociali.
[4] Eugene Walter (1874-1941), scrittore e sceneggiatore americano, è soprattutto noto per il libro Paid in Full: A Story of Modern American Life Novelized from the Play by John W. Harding (Dillingham, New York, 1908).
[5] John W. Harding (1853-1895) fu un celebre bandito e giocatore d’azzardo cui vengono attribuiti una quarantina di omicidi. Morì in Texas per una pallottola che lo raggiunse alla schiena durante una partita di poker.
[6] Vedi supra, p. 127, nota 13.
[7] Personaggio principale dell’opera teatrale Casa di bambola.
[8] La New York Society for the Prevention of Cruelty to Children fu fondata nel 1874 dall’avvocato Eldridge Thomas Gerry (1837-1927), da cui il soprannome con cui era conosciuta.
[9] Noto proverbio americano che recita: «You can bring a horse to water but you cannot make it drink» (si può condurre il cavallo all’abbeveraggio, ma non lo si può costringere a bere) [N.d.T.].
[10] Uno dei personaggi della sua opera teatrale Les revenants (1881) [trad. it. Spettri, bur, Milano, 1997].