Intervista a Ernesto Mora detto “Sestri”
L'intervista che segue è stata effettuata da Elio Fiori (partigiano e militante FAI, vedi sua intervista) e Alfonso Nicolazzi (tipografo, Promosello Chivenda 1942 - Carrara 2005) nell'ambito della ricerca sugli anarchici nella Resistenza promossa dal Centro Studi Libertari/Archivio G. Pinelli e dall'Archivio Anna Kuliscioff di Milano in vista del convegno che si è tenuto a Milano l’8 aprile 1995 presso il Circolo De Amicis.
Io sono andato sui monti volontario, non perché ne fossi costretto, e prima di andarci mi sono assicurato che la mia famiglia avesse tutto ciò di cui poteva aver bisogno. Ovviamente non è che ci fosse abbondanza, ma il minimo indispensabile c'era.
E dov'eri l'8 settembre?
Raccontarvi di quei giorni è una storia… Io mi trovavo a Venezia, al termine di quasi tre anni di imbarco. Ero partito come “volontario di leva”, nel 1941, su una nave appoggio. In quel tempo ogni tipo di imbarcazione veniva reclutata per operazioni di vigilanza costiera, ce n'era una ogni 9 miglia, e ogni tanto qualcuna veniva affondata. Sulla nave c'era un’evidente disparità di trattamento, tanto è vero che noi da tempo eravamo imbarcati come militari a tutti gli effetti, ma non avevamo neppure qualcosa che somigliasse ad un abbigliamento adeguato, e tanto meno la paga: alcuni ce l'avevano, altri no. Di lì cominciò una serie di rivendicazioni che durarono per tutti gli imbarchi successivi, e che mi fruttarono diverse punizioni. Insomma, non si può dire che fossi un marinaio o un patriota “modello”, sempre in prima fila a portare avanti i diritti di noi imbarcati. Passai varie volte per il CREM [Corpo regi equipaggi marittimi] a Spezia, e anche per San Francesco, il carcere militare [di Parma], ma è troppo complesso entrare in tutti i dettagli.
Dopo un paio di mesi a Genova, venni imbarcato sul Monreale, che faceva servizio fra Napoli e Tripoli, e con questo feci tre viaggi. Poi andammo in cantiere di riparazione a Taranto. Anche in questo caso vi era disparità di trattamento a bordo, che non mancai di segnalare, occupando per tutto il tempo prestato a bordo un posto un po' differenziato di eterno ribelle. Mi ero anche lasciato crescere i capelli, tanto per significare un'opposizione alla disciplina.
Più d'una volta, nei tempi dei vari congedi, mi capitò di essere coinvolto in risse con carabinieri e guardia di finanza, e quando i rapporti giunsero all'unità sulla quale ero imbarcato, venni trasferito a Spezia per essere sottoposto a processo disciplinare. Questo non ebbe poi luogo, perché la mattina che mi dovevano processare il tribunale fu bombardato e non se ne fece nulla. Tutto ciò aveva luogo nel 1942.
Ma dove eri quando vi fu la smobilitazione?
Mi trovavo a Venezia. La nave sulla quale prestavo servizio era in cantiere, mentre per me ormai era normale [essere sottoposto a] un regime di disciplina. Quando vi fu l'annuncio mi affrettai alla stazione, dove salii su un treno diretto verso Milano. A Verona però il treno venne avviato verso Tarvisio, e io feci appena in tempo a saltare giù dal vagone quando sentii che i tedeschi li piombavano e li spedivano in Germania. Salii su un altro treno e questa volta riuscii a cavarmela grazie ai miei capelli lunghi e grazie all'appoggio di due ragazze triestine che erano nello scompartimento e che facevano la vita. Mi misi una casacca loro, mi tirai i capelli sugli occhi e me la cavai. Il treno partì e nuovamente a Voghera e a Tortona dovetti darmi daffare per dissimularmi. Qui capitò che ci fosse un bambino nello scompartimento: lo presi in braccio e lo coccolai finché il pericolo fu passato.
Ma eri grande e robusto...
Già, ma in certi momenti si riesce anche a diventare piccoli! A Genova stavo per andare su, dietro la stazione, quando delle donne mi videro e mi dissero che l'unica maniera per cavarmela era di dire “arbeit”, che andavo a lavorare alla Todt [organizzazione tedesca legata alla Wehrmacht che si basava sul lavoro coatto di prigionieri o di lavoratori assoldati nei territori occupati]. Seguii il consiglio e appena possibile me la svignai verso Sestri Levante e casa mia. La cosa però non poteva durare e quando venni a sapere che “Zobizzi” [NdR: nome incerto] aveva due moschetti ci andai e uno ciascuno ce lo mettemmo in spalla e andammo sui monti. Su trovai altri che già vi erano andati, altri ancora vennero in seguito e formammo un gruppo che poi divenne distaccamento della formazione “Coduri”, chiamata così in onore del primo che morì sui monti in questa zona, un marinaio meridionale.
Eri già anarchico?
Non sapevo neanche cosa volesse dire. In ogni caso non tenni neppure lì un comportamento sottomesso e ligio agli ordini che non condividevo e questo mio carattere mi valse la qualifica di “anarchico”, più che altro affibbiatami da gente ligia e ubbidiente agli ordini del partito comunista, che già selezionava i propri uomini. Soltanto nel dopoguerra seppi cosa voleva dire. Dopo ebbi modo di conoscere gli anarchici, e sebbene non fossi completamente d'accordo con loro – ritenevo [Umberto] Marzocchi un moderato – ne apprezzai le idee e la coerenza, in particolare di alcuni.
A quali azioni hai preso parte?
Sarebbe veramente troppo lungo anche solo accennare a tutte. Ogni volta che potevamo c'era qualcosa da fare. Una delle più impegnative fu quando a Borgo Nuovo facemmo un'imboscata a due colonne di tedeschi che scendevano dal passo del Bocco. In un primo tempo avevamo pensato che fossero fascisti, poi risultò che erano tedeschi. Riuscimmo a far scappare due donne che erano sulla strada proprio dove noi stavamo per tendere l'imboscata con delle grida. Poi tirammo, e il posto impervio e la sorpresa dettero i loro frutti. Quando si trattò di sganciarsi, i miei compagni ce la fecero ad allontanarsi verso il bosco, io invece avrei dovuto attraversare un punto scoperto e perciò non potevo far altro che buttarmi verso valle, verso il convoglio. Quando sentivo i proiettili arrivare vicini, mi buttavo a terra facendo il morto; poi su di nuovo quando tacevano, e via a rotta di collo. Per finire mi infilai in una macchia di rovi e spine che lì dentro non mi avrebbero trovato neanche se avessero voluto. Ma non sentivo le spine: la prima cosa che feci fu ricaricare le armi che nel frattempo avevo scaricato del tutto, deciso a vendere cara la pelle. Non fu necessario, perché non mi trovarono. Quando arrivai al paese ormai stavano venendo a cercare il mio cadavere. Fu una festa.
Ricordi qualche altro episodio particolare?
Verso l'agosto del 1944 un aereo cadde sul monte Pane, nella nostra zona, e aveva a bordo una bomba inesplosa che alcuni compagni cercavano di aprire per recuperarne l'esplosivo. Quando giunsi le avevano ormai dato fuoco intorno, perché si diceva che si faceva così, ma io non mi fidavo: avevo sentito dire invece che bisognava scaldarla con l'acqua. Dunque non mi fidavo e lo dissi ben chiaro, ma l'inesperienza era tanta e mentre io riparavo dietro una cascina altri rimasero nei dintorni. La bomba, incendiata, esplose e il tritolo venne per la maggior parte fuori e fu recuperato, ma l'esplosione ferì gravemente diversi che le stavano intorno: uno fu colpito alla testa, sfigurato, un altro aveva l'intestino che andava a spasso. Dopo un tamponamento sommario delle ferite ce li caricammo sulle spalle, e su al più presto verso Amborzasco, dove vi era uno dei posti di soccorso. Vi era da salire una cresta, da scendere, da risalire, ma il pensiero che avrei potuto salvare il compagno che avevo a cavalcioni mi dava più forza e ce la feci a scendere il primo monte. Lì incontrai un civile, ben vestito, rifugiato in un cascinale sui monti con tutta la famiglia. Vistici in quelle condizioni fu lui che si caricò per un pezzo il ferito in spalla per la risalita. Con questo aiuto potemmo arrivare fino all'ospedale partigiano.
Ma era una struttura stabile?
Sì, ad Amborzasco si può parlare di un vero e proprio ospedale, mentre a Valletti e a Tavarone avevamo dei posti di soccorso fissi.
E non vi fu il rastrellamento?
Proprio pochi giorni dopo il fatto della bomba fummo costretti a risalire verso il piacentino fino a Cornolo, dove trovammo dei giellisti [militanti di Giustizia e Libertà]. Bisognava stare attenti, perché non c'era accordo, c'era molta rivalità soprattutto intorno al problema dei lanci: alcuni li ricevevano ed altri no e ciò creava molto malumore, ben diverso dal clima di fratellanza al quale eravamo ormai abituati.
Che facesti dopo la liberazione?
Mano a mano che l'attività riprese mi accorgevo che le ingiustizie non erano affatto finite, come avevamo creduto, con la fine del fascismo e della guerra. Io ho avuto la fortuna di riuscire ad essere autonomo, essendo un buon pescatore me la cavavo abbastanza, ma altri erano più svantaggiati. Una volta, davanti al caso di qualche compagno particolarmente bisognoso che era continuamente respinto dalla FIT [grosso stabilimento metalmeccanico che ha costituito per lungo tempo la spina dorsale della Sestri operaia], andai a prendere di petto il direttore e il capo del personale, che si convinsero così ad assumere. Io stesso più tardi, nel 1946, entrai a lavorare alla FIT.
Le differenze con gli altri partecipanti alla guerra partigiana sono venute fuori col tempo: ricordo una volta che ci trovammo, qualche anno prima del 1960, a Varese Ligure per un incontro che nelle intenzioni avrebbe dovuto ripianare alcune asperità insorte fra la IV e la VI brigata. Per poco non finì in rissa aperta a causa della visione chiusa e ligia agli ordini del partito comunista che ormai avevano assunto quelli dell'ANPI, quelli che della politica nella Resistenza avevano fatto un predellino per fare carriera e dare la scalata politica, o i gregari che li sostenevano.
Ma io, come altri, non potevo essere d'accordo con loro. Ancora oggi non sopporto la mentalità pecorile di tanti, che pur son stati compagni sui monti o in fabbrica, e che si rassegnano ai comandi della direzione, alle leggi dell'apparato e alle angherie dei capetti.
Quando ti fu scattata la foto?
Era nell'inverno del 1944.
Ma avevate i calzoni corti...
Sì, quasi tutti avevamo i calzoni corti. Fu un giorno che venne a raggiungere la formazione uno che faceva il fotografo. Lo rispedimmo indietro, a prendere la macchina fotografica che non si era portata, ed ecco la foto.