Il 6 novembre 1983, il nostro centro studi organizzava un seminario con Cornelius Castoriadis nella sede che allora era in viale Monza 255. Quella che segue è la trascrizione/traduzione della prima parte del dibattito denso che seguì all’intervento pubblico sull’immaginario sociale che Castoradis aveva tenuto il giorno prima in altra sede. Questo testo era già apparso all'interno del Bollettino 42. A distanza di quarant'anni non riusciamo più a identificare le persone che pongono le domande o esprimono una propria opinione. Abbiamo invece identificato con certezza Eduardo Colombo perché era anche lui invitato al seminario, e infatti è l’unico nome che ricorre nel dibattito. Infine la registrazione, ahimè non troppo professionale e usurata dal tempo, presenta alcuni “buchi” che ovviamente segnaliamo, lasciando alla fervida immaginazione del lettore di ricucire il discorso complessivo.
L’immaginario sociale. Dibattito con Cornelius Castoriadis
Registrazioni audio e trascrizione. Parte Prima. [Qui la seconda parte]
Domanda: In un nuovo modo di essere, potrebbe esserci il rischio di spezzare l’unità dell’essere, […] che significa che lo spazio sociale storico è un altro modo di essere? Ci sono diversi modi di essere? Cioè, la realtà è una, o ci sono diverse realtà? E se ci sono diverse realtà, come facciamo a verificare, a “toccare” la realtà dello spazio sociale storico? Non c’è il rischio di essere metafisici?
CC: È una domanda molto importante, che ci porta nell’ambito della filosofia propriamente detto. In altre parole, io non posso dimostrare quello che affermerò, penso però che tutto ciò che sappiamo mostra che ciò che può essere chiamato l’essere in generale può anche essere chiamato “caos”, o “abisso”, e che questo caos o abisso è in certo modo stratificato, e quindi ha strati tra loro diversi. Allora, se prendo il punto di vista riflessivo e discorsivo, e tutto ciò che sappiamo in quanto esseri umani occidentali ora, nel 1983, ritengo si possano distinguere certamente tre strati nell’essere, che sono d’altronde molto classici. Uno strato che si può chiamare l’essere fisico nello stretto senso del termine; un altro strato che può essere chiamato l’essere del vivente; e un terzo strato che corrisponde al mondo umano, ovvero allo stesso tempo lo psichico e il socio-storico. Io sostengo che questa distinzione è certamente classica, ma la posizione tradizionale, quella dominante, centrale, è che si possono ridurre tutti questi tipi di essere in uno solo, e che quest’unico tipo, sempre per la corrente dominante, può essere pensato come l’essere completamente determinato.
Nelle grandi dispute filosofiche le distinzioni possono essere ridotte in certa misura a questa biforcazione: per gli uni, ciò che è completamente determinato e che costituisce quindi il paradigma dell’essere, cui occorre ridurre tutto il resto, è l’essere fisico, ed è grosso modo ciò che viene definito “materialismo”; per gli altri, invece, ciò che è stato considerato come completamente determinato e pienamente “essere” è qualcosa che ai nostri occhi, ai miei occhi, è una creazione del mondo umano, del mondo-socio storico. In altri termini, l’essere ideale (ad esempio per qualcuno come Platone), ciò che veramente è sono le idee, mentre il mondo materiale è una sorta di derivazione, di imitazione imperfetta di queste idee. E si può comprendere qualcosa del mondo materiale solo nella misura in cui si conosce il mondo delle idee. Ora, secondo me, questi tre mondi non possono essere ridotti l’uno all’altro, voglio dire che non credo, per esempio, che si arriverà mai a ridurre perfettamente il mondo del vivente a una semplice operazione delle leggi fisiche. Emerge qui qualcosa di altro e di nuovo nell’essere. E perché dico “altro” e “nuovo”? Perché il mondo del vivente fa sorgere nuove determinazioni che non esistono nel mondo fisico, che non hanno senso nel mondo fisico. Se si dice, per fare un esempio veloce, che ogni essere vivente, ogni specie vivente, tende a conservare la propria identità, a conservarsi allo stesso tempo come singolo e come specie, e dunque si prendono in considerazione tutti i meccanismi e i dispositivi che il vivente mette in atto per esistere, per conservarsi come identità, ci si imbatte in cose che, beninteso, non violano e non possono violare le leggi fisiche, ma che lasciano apparire leggi e determinazioni a un altro livello.
La stessa cosa, secondo me, è vera per il mondo umano e, in particolare, per il mondo socio-storico. Vale a dire che abbiamo anche qui, come nel mondo del vivente, il fatto della vita che, dopotutto, è indefinibile. Vedo che ancora oggi la miglior definizione che si possa dare della vita è quella che è stata data nella prima metà del diciannovesimo secolo, da Bichat, se ricordo bene, ovvero che la vita è “l’insieme delle potenze che resistono alla morte”. È verissimo, ma è una definizione? Che cos’è la morte? E quella definizione – che la vita sia l’insieme delle potenze che resistono alla morte, ovvero di tutto ciò che fa sì che il vivente si mantenga altro dalla materia morta – che cosa vuol davvero dire?
Allo stesso modo, quando parliamo delle significazioni immaginarie sociali, non si può dare una vera e propria definizione. Che cosa sono? Eppure sono tratti fondamentali che differenziano il mondo socio-storico dal mondo animale, e non essendo riducibili alle determinazioni biologiche dell’essere umano, creano un nuovo modo di essere. Ma qual è effettivamente? Prendiamo ad esempio la significazione immaginaria centrale del capitalismo, quello che chiamo “l’espansione illimitata del dominio razionale”. Qual è il modo di essere di questa significazione? Non è una cosa, non è un animale, non è un essere umano, non è un’idea geometrica, non lo si può definire mediante assiomi o logicamente, e tuttavia è ciò che penetra, che permea, e in un certo senso determina e domina tutte le attività umane nella società capitalista, ciò che consente la loro unità. Evidentemente, come in tutte le attività umane, questo avviene in maniera controversa, non univoca, ma è quello che il sistema tende sempre a imporre. E nella misura in cui vi è lotta nel capitalismo, la lotta è anche contro questo, ma in quale misura questa sia la significazione dominante è mostrata dal fatto che persino gli sfruttati e gli oppressi cadono essi stessi preda di questa significazione nella loro lotta. L’esempio più lampante è il marxismo, e non parlo dello stalinismo, ma in un certo senso lo stesso progetto teorico e pratico di Marx è un progetto “capitalista”, un progetto di dominio razionale universale, di dominio completo di tutta la storia passata giacché adesso, grazie a Marx, conosciamo le leggi di questa storia, è un progetto di dominio razionale del futuro… e d’altra parte l’espressione la si trova in Marx stesso quando parla della vita umana e della natura.
Passando al secondo aspetto della domanda, anche qui – se ci si pone dal punto di vista discorsivo e contemporaneo – non ci interessa poter dire qualcosa di vero del mondo fisico o del mondo biologico: ciò che è più importante per noi è poter dire qualcosa di vero del mondo socio-storico, ovvero verificare effettivamente quanto andiamo affermando sulla nostra società o, ancor più, sulle società del passato. Non credo che vi sia una sola risposta o una metodologia esclusiva, credo però che vi siano due dimensioni da prendere in considerazione, e che ciascuna di esse ponga problemi diversi. In ogni società vi è la dimensione identitaria, la dimensione logica, funzionale e strumentale. Ora, la mia tesi è che si tratta solo di una delle dimensioni della vita sociale e – per quanto attiene la conoscenza di una società – anche la meno importante perché non c’è strumentalità trans-storica. Ciò vuol dire, per esempio, che ogni società crea la propria strumentalità e le proprie modalità strumentali, e le crea derivandole dalle sue significazioni immaginarie. Prendo degli esempi facili come il cibo. Per nessuna società il cibo è semplicemente calorie e proteine. Vi è un’attribuzione di valore degli alimenti che non ha nulla a che vedere con le loro proprietà naturali, e vi sono le proibizioni. Per esempio, il fatto che gli ebrei e i musulmani non mangino il maiale o altre cose, non ha nulla a che vedere con la strumentalità o la funzionalità. Oppure, un altro esempio che mi viene in mente è la guerra: nel corso della storia un numero esorbitante di battaglie perse è stato motivato con il fatto che la parte sconfitta non avrebbe dovuto dare battaglia perché quello era un giorno nefasto, oppure perché le predizioni degli áuguri non erano state favorevoli, oppure semplicemente perché prevaleva l’ala sinistra dell’esercito che è l’ala cattiva (infatti si riteneva vi fosse una differenza qualitativa fra l’ala destra e l’ala sinistra di un esercito). Insomma, tutte cose che non hanno alcuna realtà, anche se si cerca, come fanno gli storici positivisti, di interpretarle in modo strumentale. Detto questo, la dimensione strumentale, logica o aritmetica, esiste sempre, e possiamo e dobbiamo stabilirla con tutta la precisione e il rigore possibili.
Vi è poi un’altra dimensione, che è la significazione, la dimensione immaginaria propriamente detta. Come possiamo accedervi? Un modo esiste già: se si considera la società come un semplice sistema funzionale e strumentale, è facile riscontrare che il sistema funziona sempre; magari funziona più o meno, ma in ogni caso funziona in vista di alcune finalità. Beninteso, la prima di tutte le finalità è la conservazione del sistema stesso, e qui vi è una dimensione, diciamo, di pura ripetizione. Ma non c’è solo la conservazione del sistema: si può dire che ogni sistema sociale ha una sorta di spinta a realizzare taluni obiettivi, e questi obiettivi possono essere identificati.
Per esempio, nella società capitalista (anche se è vero che, se la si considera come una società ideale, in senso weberiano, non è che sia una società ideale) ciò che corrisponde agli assunti del capitalismo di fatto funziona al suo interno, soprattutto in vista di alcune finalità. Beninteso, fra queste finalità vi è la conservazione del sistema, quindi, nella misura in cui il sistema è conflittuale e antagonistico, tra le sue finalità c’è anche quella di obbligare la parte che vi si oppone a restare al suo posto e persino a funzionare al servizio delle finalità del sistema. Ma vi è di più: in vista di che cosa funziona il capitalismo? Non è difficile da vedere: Marx e Weber lo avevano visto bene. Marx la chiama l’accumulazione indefinita delle forze di produzione, ma non ci sono solo le forze di produzione. Se si guarda ancora più a fondo la questione, si individua quello che io chiamo l’espansione illimitata del sedicente dominio razionale, che diviene una sorta di fine in se stesso e a quel punto si svincola dalle stesse considerazioni relative al profitto economico: occorre assolutamente dominare, regolare, e farlo razionalmente. Che questo produca o no profitto non è più un problema, perché è diventato il vero spirito del sistema. Ovviamente, questa finalità in se stessa non serve a nulla, è assolutamente arbitraria e non è affatto una razionalità, ma anche se lo fosse veramente, resterebbe comunque aperta la domanda: “E perché diavolo la società dovrebbe essere subordinata alla razionalità?”. Fin qui è relativamente facile, perché sono ormai due secoli che siamo in questo brodo di cottura e vi sono state innumerevoli analisi, dunque possiamo andare oltre. Ma nel caso delle società del passato è palesemente più difficile, e questo nonostante anche qui si riesca a vedere in che modo funzioni una società, quali siano le finalità cruciali che deve conseguire e quali siano quelle non cruciali. Ed è appunto qui che si individua una parte di quelle che sono le significazioni immaginarie di quella società, ovvero l’organizzazione del mondo che stabilisce quella società. […]
Per esempio, se si considera il mondo greco classico, vi è tutta una elaborazione immaginaria di che cosa sia l’essere umano e il suo posto nel mondo che è del tutto differente da ciò che è venuto dopo, e che a mio parere ha un legame profondo con il fatto che è in Grecia che c’è stata per la prima volta la democrazia (o il tentativo di una democrazia) e la ricerca filosofica. Ora, come si può dar conto di questa elaborazione immaginaria del mondo e dell’uomo? Ebbene, vi sono i testi scritti, c’è la storia, ci sono gli atti degli uomini, e da qui si può cercare di ricostituire questo universo. Vi è tuttavia qualcosa che rende tutto questo estremamente difficile, ovvero l’etnocentrismo, che ha segnato tutte le interpretazioni successive della Grecia classica: perché il Rinascimento vedeva i Greci in un certo modo, la Francia di Luigi XIV li vedeva in un altro modo, i romantici tedeschi li vedevano in un altro modo ancora, e oggi li si può vedere in modo del tutto differente. Occorre quindi diffidare, certamente, ma credo che quelle elaborazione immaginarie rimangono comunque accessibili se si accetta che il fine del lavoro è cercare di comprendere quelle significazioni così come quella società la aveva create e vissute.
Domanda: Com’è possibile uscire dal proprio immaginario? Avremo sempre la rappresentazione di una qualunque realtà in base a quelle che sono le chiavi di volta del nostro immaginario, proprio come gli antichi Romani o i romantici tedeschi quando interpretavano il mondo greco classico. Ma se anche noi non possiamo uscire da questo schema, com’è possibile arrivare a comprendere realmente i meccanismi di un’altra società?
CC: Ottima domanda. È evidente che non possiamo mai dimostrare che quello che diciamo è scevro da qualunque influenza della nostra struttura immaginaria. E tuttavia non abbiamo bisogno di affermarlo, e questo perché non facciamo della fisica. In fisica, chiedersi che cosa si può dire dei fenomeni fisici che sia assolutamente indipendente dalla posizione dell’osservatore, dal fatto che sia bianco o nero, che faccia le sue esperienze a Milano o a Melbourne, che sia in un sistema di coordinate che abbia un movimento semplice o accelerato rispetto ad altri sistemi, è appunto l’ideale per il sapere esatto proprio di quell’ambito. Ma non ha senso nel mondo umano, poiché non si tratta di fare delle misurazioni, ma di interpretare e comprendere, e chi interpreterà e comprenderà lo farà necessariamente a partire dai propri schemi di interpretazione. È una tautologia, ma nel mondo socio-storico il resto non esiste e non vi può esistere.
Ciò non vuol dire che non vi siano differenze, però queste differenze […] Ebbene, c’è una differenza fra Spinoza, Kant, Aristotele, Hegel da un lato e diciamo Alberoni dall’altro? Io dico che c’è. Potete dimostrarla, matematicamente, questa differenza? C’è una differenza fra Weber, Tocqueville e Marx (quando si occupa di storia) e diciamo Bernard-Henry Levy? Bernard-Henry Levy ha le sue idee in testa, idee di per sé pietose, e le incolla così come sono sul passato, non si fa domande, non si critica, ed è per questo che la comprensione del passato e di un’altra società diventa un’impresa difficile, sempre discutibile, un’interpretazione mai conclusa. E tuttavia si può comunque accedere a qualcosa.
Domanda: Se noi diciamo che la conoscenza della società non è mai esatta e che non è possibile avere una chiara conoscenza del sociale, se non filtrata da quello che è l’immaginario di ciascuno, ho paura che si possa legittimare qualunque concezione della società. Cioè, se noi diciamo che qualunque modo di pensare la società è legittimo, in quanto non c’è differenza tra il modo di pensare la società di Weber e quello di Giovanni Paolo II perché entrambi sono filtrati da un immaginario sociale ed entrambi riflettono la realtà epistemologica del sociale, allora ci precludiamo qualunque possibilità di conoscere il sociale poiché diamo legittimazione a qualunque cazzata. Credo ci debba essere un qualche modo che ci dia, non dico la verità assoluta, ma delle verità, delle modalità di verifica, altrimenti ci precludiamo qualunque possibilità di scegliere, di discriminare.
CC: Innanzi tutto, non si può dire qualunque cazzata, o meglio la si può dire (come ho appena detto, Levy dice cazzate), ma è palese che sono cazzate, lo si vede subito e lo si può dimostrare, cioè si può dimostrare che il tale non comprende la tal cosa e soprattutto che lascia da parte tutta una serie di aspetti dell’oggetto della riflessione che non collimano con la sua interpretazione. In questo caso, la prima domanda da farsi è: l’interpretazione proposta copre tutti gli aspetti dell’oggetto della riflessione, o quanto meno gli aspetti cruciali, oppure lascia da parte tutto quello che dà fastidio, che interferisce? Questo è il primo punto, ma il secondo punto è che dobbiamo prenderci carico di questo dato di fatto, che non abbiamo, nel mondo socio-storico, la possibilità di un sapere obiettivo come quello perseguito dalla matematica o dalla fisica. Anzi, non solo non possiamo averlo, ma se ci fosse sarebbe terribile, perché vorrebbe dire che ci sarebbe una scienza obiettiva della società e della storia, e dunque una sola opinione, la quale si imporrebbe categoricamente per dirvi: “Ecco il senso del passato, ecco il senso del presente ed ecco il senso del futuro”. In breve il senso di tutto, e quindi ancora una volta ci sarebbe, a scelta, il governo dei sacerdoti o quello Comitato Centrale. […]
Domanda: Se ho ben capito, è possibile dimostrare soltanto la distanza. Cioè, è possibile dimostrare soltanto quanto si dice che non è vero, ma non è possibile dimostrare quando si afferma che è vero. La certezza si raggiunge dunque soltanto nella critica negativa. Ma la conoscenza ha bisogno, per essere tale, anche di certezze che affermano: come posso capire una società se il mio metro di misura della certezza si riduce al non dire cazzate? A mio avviso è un criterio totalmente insufficiente, perché devo anche poter fare affermazioni in positivo, altrimenti non dico nulla.
Domanda: Anche per me limitarsi a non dire cazzate è estremamente riduttivo, anche perché una data affermazione può diventare una cazzata rispetto a un altro sistema di pensiero, ovvero quando si esce dalla logica del sistema di pensiero che ha formulato quella affermazione. Prendiamo per esempio la Summa Theologica di san Tommaso: è un sistema perfettamente costruito, non ci sono cazzate, però non ha alcuna corrispondenza, o ne ha pochissima, con la realtà. Quindi, il criterio della cazzata ci dice troppo poco. Quando iniziamo a capire qualcosa delle società? Quando iniziamo a pensare che, rispetto alla verità di un’affermazione, ci vuole una qualche corrispondenza, una qualche verifica empirica. Non voglio dire che possiamo raggiungere il sapere assoluto, come in fisica, però ritengo che un qualche modesto criterio di verifica per discernere un tipo di affermazione da un altro graviti intorno a una realtà che permane, ci deve essere e c’è, altrimenti finiamo sempre per legittimare qualunque cosa. Giovanni Paolo II non dice cazzate, dice cose logicamente corrette nel suo sistema di pensiero. Ed è questo il punto: rispetto alla realtà ci deve essere qualcosa che ti dice: “va bene, non va bene, è reale, non è reale”, altrimenti tutto è legittimo, tutto è giusto, tutto è conoscenza, compreso l’oroscopo.
Eduardo Colombo: Penso, in primo luogo, che tu continui ad impiegare categorie che associano la realtà con il significato di categorie già date […] A mio parere, però, non si centra il problema, che è vecchio come il mondo: la verità, l’adeguamento fra i concetti di riferimento, ci conduce a considerazioni filosofiche un po’ tradizionali. Le cose sono più complicate di così e pongono svariati problemi. Vorrei evidenziare i tre problemi più importanti, e poi tu potrai scegliere quello che trovi maggiormente stimolante. Il primo problema è che tu non utilizzi il concetto psicoanalitico di fantasma, che a mio avviso consente l’articolazione fra i mondi, le significazioni e gli immaginari centrali. Il secondo problema è che le significazioni immaginarie che non hanno riferimento, perché hanno costruito il loro proprio referente, ordinano un tipo di società. Io penso che la significazione immaginaria centrale del capitalismo sia lo Stato, la costruzione dello Stato, e il problema del dominio. E che qui vi sia anche una certa “materialità” sociale (fra virgolette), ovvero una materialità per la quale, nella società, non vi è adeguamento fra i significati coscienti e un’altra realtà che è dell’ordine della quotidianità e che sfugge a questi significati abituali. Il terzo problema è che io non sono affatto convinto che nella storia occidentale vi siano solo due rotture: la polis greca e il XII secolo, per dirla semplicemente. Penso che le cose siano molto più complesse, che vi sia una molteplicità di rotture, e vorrei ritornare su questa affermazione che pone il problema della rivoluzione, che non è solamente sociale, ma che poggia su una dimensione immaginaria forte, utopica.
CC: Tutti questi punti sono molto importanti, ma vorrei prima rispondere alle altre due domande. Beninteso, san Tommaso o Giovanni Paolo II non dicono idiozie, diciamo pure che non dicono nessuna idiozia, ma all’interno del loro sistema di riferimento. Non dicono idiozie perché ciò che dicono corrisponde a quelli che sono i postulati, gli assiomi, le ipotesi di quel sistema; questi assiomi, questi postulati, possono essere esplicitati, e a quel punto si può dire: ecco un punto di vista che, e vale per entrambi, postula una verità rivelata. In un certo senso, non si può respingere geometricamente un’idea di verità rivelata, però si può dire: “Quelli che fra voi credono a una verità rivelata, vadano pure con Giovanni Paolo II. Noi non ci possiamo fare nulla, possiamo solo affermare che tutta la nostra esperienza mostra come non ci sia alcuna verità rivelata, che il sistema costruito su questa verità rivelata non dà conto di tutto ciò che abbiamo sperimentato nella nostra esistenza. Ma io non credo che sia necessario assolutizzare in questo modo la discussione fra il vero e il non vero; quando si tratta di una ricerca reale, concreta, credo sia abbastanza evidente che le cose non stanno così. Faccio un piccolo esempio: sempre parlando del mondo greco antico, esiste uno scritto di Aristotele che si chiama in greco (il titolo è su un papiro) Athnaiwn politheia. Il papiro è stato scoperto verso il 1880 e in tutta Europa vi sono accademici e filologi molto sapienti: eppure è un secolo che la traduzione di questo titolo in francese è La Costituzione di Atene. Ebbene, si tratta di un errore (per il quale si darebbe zero a uno studente), perché il titolo non dice La Costituzione di Atene, ma La Costituzione degli Ateniesi. E qui si spalanca tutto il mondo socio-storico, che testimonia come i grandi filologi e i grandi accademici siano totalmente immersi nella concezione territoriale dello Stato, che invece esiste solamente dal mondo feudale […], ma che non ha nulla a che vedere con la concezione greca. Nella Grecia antica, non vi è il concetto di Atene o di Sparta, i trattati non sono fatti da Atene o da Sparta, ma dagli Ateniesi e dai Lacedemoni. Tucidide non parla mai di Atene e di Sparta, ma degli Ateniesi e dei Lacedemoni. Ebbene, questa non è una confutazione del non-vero, è il vero che emerge. In altri termini, è emersa la significazione immaginaria di una entità politica come comunità di esseri viventi e non di un territorio, sebbene la proprietà esista e sia conosciuta. Ma mi sembra evidente che questa idea di comunità politica responsabile di se stessa è una creazione socio-storica nuova, giacché non se ne trova traccia nel mondo del dispotismo asiatico.
Ho uno specifico interesse teorico e politico verso questa idea di collettività, di comunità politica autonoma e sovrana, che a parer mio rappresenta il punto centrale dell’azione politica. E lo ritrovo nel mondo greco. O forse mi sbaglio, perché non è una verità rivelata e la discussione può continuare. […].
Passo adesso al terzo punto posto da Eduardo, che si ricollega a quanto ho appena detto, e cioè al fatto che a suo avviso nella storia occidentale ci sono state più di due rotture e che le cose sono molto più complesse. È evidente che le cose sono molto più complesse, anzi sono di una complessità infinita, ed è evidente che vi sono state altre rotture che hanno la loro importanza. Se però insisto su quelle due rotture è, in primo luogo, perché credo che siano quelle qualitativamente più importanti. In generale, quando si guarda alla storia e alle diverse società che sono esistite, si può fare tutta una serie di classificazioni e categorizzazioni, che non sono però tutte allo stesso livello. Credo si possa dimostrare che ve ne siano alcune più importanti di altre e, anche qui, le categorizzazioni che si fanno dipendono dal punto di vista che si assume e dall’interesse teorico e pratico che si ha. Per esempio, si possono distinguere le società umane fra “società con i pantaloni” e “società con le gonne” in base alla prevalenza di questa o quella foggia di abito: la qual cosa può essere importante per uno storico dell’abbigliamento, ma certamente non lo è per noi. E ovviamente le si può distinguere in base a criteri meno divertenti e meno banali. La categorizzazione marxiana rimanda ai modi di produzione, che così convalida la teoria della storia secondo cui è il modo di produzione a determinare tutto. Ciò che a me interessa, e lo dico subito, è una categorizzazione della storia che rimandi a quelle che definisco società eteronome e a quelle società in cui, per la prima volta, compaiono embrioni di autonomia. Ma appunto, come ho già detto, può darsi che abbia torto…
Eduardo Colombo: E qui appunto si pone il problema della rivoluzione. Quello che mi disturba è il XII secolo, la data di nascita dello Stato moderno. Vi è una rottura rivoluzionaria in quel momento o vi è la produzione di una situazione nuova che, se si guarda dal punto di vista della libertà, appare come una destrutturazione dei rapporti di forza prevalenti? In contemporanea, ed è a questo che bisogna dare un senso, emergono sia una struttura su base comunitaria, sia qualcosa che incomincia a organizzare la vita sociale in funzione di una gerarchia, di un principio di potere differente.
CC: Sì, su questo punto specifico, considero il XII o XIII secolo, la fine del Medioevo insomma, come il momento in cui appare la proto-borghesia, ovvero quando si ricostituiscono delle comunità politiche. Ora, la storia europea moderna è infinitamente più complessa della storia antica, il mondo europeo è molto più multidimensionale: vi è questa auto-creazione del comune borghese che esce dal mondo feudale, ma c’è nello stesso tempo l’enorme importanza della Chiesa e la monarchia che incomincia a creare lo Stato centralizzato, ecc. Tuttavia, per me, l’elemento determinante è la ricostituzione di una comunità politica. Evidentemente, lo Stato appare in tutto questo come un elemento negatore della libertà, su questo non c’è alcun dubbio. Durante la prima fase vi è un gioco con tre o quattro protagonisti, che si sviluppa fra la Chiesa, la monarchia, le città e il resto della feudalità, con alleanze che si fanno e si disfano. Ma quello che mi interessa evidenziare è la ricostituzione della comunità politica. Dunque ricorro a una categorizzazione che distingue le società fra società eteronome e società dove l’eteronomia incomincia a essere rotta. Inoltre, dal punto di vista tanto teorico quanto pratico, è molto importante anche un’altra categorizzazione, che non è esattamente una suddivisione della prima, ovvero quella che all’interno delle società eteronome individua quelle con lo Stato e con divisioni sociali molto marcate e quelle dove c’è un’articolazione sociale, che però non è una divisione altrettanto antagonistica e asimmetrica, una divisione netta fra dominanti e dominati.
A mio parere, è evidente che in molte società selvagge non vi è una netta divisione fra dominanti e dominati, pur tenendo sempre presente la diversa posizione sociale delle donne rispetto agli uomini. Tuttavia, non è la stessa cosa, nel senso che non è che gli uomini corrispondano allo Stato e le donne al popolo. Molti studi suggeriscono che anche se vi è un’ineguaglianza reale tra i generi, questa ineguaglianza non è omologabile al rapporto di dominio così come lo intendiamo nelle società divise. È un punto che deve essere ancora approfondito e che dipende anche dal materiale empirico raccolto. Ora, tutto questo ben illustra cosa sia una creazione storica: lo Stato è creato, il dominio è creato, e perché il dominio sia creato, occorre che si crei anche la relativa significazione immaginaria sociale. In altre parole, il rapporto di dominio non è qualcosa di evidente, non cade dal cielo. Direi in maniera un po’ provocatoria – non credo affatto a una natura umana buona o a una natura umana cattiva – che nei rapporti fra esseri umani è infinitamente più naturale vedere nell’altro un nemico da sterminare, o qualcuno da uccidere e mangiare, che non vedervi un oggetto da dominare e sfruttare. Questo è del tutto artificiale e arbitrario, mentre non lo è “se ho fame, ti mangio”. Ma che tu sia un oggetto da dominare e sfruttare è un’invenzione del tutto arbitraria, che mostra la potenza dell’immaginario di creare cose surreali. Ci troviamo dunque di fronte a creazioni storiche arbitrarie, di cui i marxisti hanno voluto invece trovare precise cause e spiegazioni. Per esempio, come scrive Marshall Sahlins, nella maggior parte delle società selvagge si lavora due, tre, quattro ore al giorno, sia gli uomini che le donne. Ora, i marxisti dicono che non c’è più stata schiavitù a partire dal momento in cui il livello delle forze produttive si è sviluppato in modo sufficiente da poter sfruttare qualcuno senza farlo morire di fame. È una stupidaggine: lo sfruttamento è nato nel momento in cui è emersa questa significazione immaginaria sociale, nel momento in cui si è potuto pensare l’altro essere umano come un oggetto da dominare, e quindi farlo anche lavorare dodici ore al giorno (ma non solo questo).
Vi è dunque questa ulteriore divisione, diciamo fra le società dello Stato e le società senza Stato o senza dominio, che beninteso ci interessa enormemente, poiché noi oggi viviamo in società particolari dove l’eteronomia non è astratta, ma si è materializzata, si è incarnata nella relazione dominante/dominato e nell’esistenza effettiva di un apparato di dominio che è lo Stato, di uno Stato che con ogni evidenza si è autonomizzato rispetto alla società. Credo che Eduardo abbia perfettamente ragione quando richiama l’attenzione su questo problema, che va approfondito. Personalmente, date le mie origini e quindi il lavoro che ho fatto per svincolarmi dal marxismo e dall’orizzonte che avevo, ho piuttosto indirizzato i miei sforzi di analisi sulla questione del capitalismo, in quanto significazione immaginaria, in quanto sistema che funziona, concentrandomi più sulle sue antinomie e contraddizioni che non sul problema dello Stato in quanto tale. E qui entrano effettivamente in gioco anche tutte le questioni relative alla differenza fra la coscienza e la rappresentazione delle persone e la realtà della società. Eduardo chiede perché non utilizzo la nozione di fantasma: la ragione per cui non la utilizzo quando parlo di questi argomenti è che mi pare più rigoroso riservare la nozione di fantasma alla sfera del soggetto psichico. Non voglio parlare, per esempio, del fantasma sociale, anzi è proprio per questo che parlo di immaginario sociale.
traduzione di Marco Bonello