Mi chiamo Claire Auzias. Ho 46 anni: il che vuol dire che nel '68 ne avevo solo 17 anni. Vivo a Parigi; il mio mestiere è quello di storica e faccio dei piccoli lavori, secondo i bisogni del mercato.
Per parlare del '68, affronterò le domande una ad una.
Se è legittimo non lo so, ma per me è evidente che il '68 è un anno simbolo, in quanto data di una rivoluzione. Ecco, per me è chiaro. Ma di quale rivoluzione si tratta?
Io penso che il '68 è una rivoluzione importante come tutte le altre rivoluzioni che l'hanno preceduta nel corso della storia, della stessa ampiezza e della stessa importanza della rivoluzione francese, di quella del 1848, del 1871 per quel che riguarda la Francia, del 1936, naturalmente, anche se non era in Francia.
Soprattutto perché, ritengo, fosse la prima rivoluzione effettivamente simbolica, contrariamente alle altre che erano rivoluzioni in nome di simboli – non bisogna sbagliarsi – che dovevano istituire cose molto concrete (per esempio, nella rivoluzione francese, la destituzione dell'aristocrazia). Da questo punto di vista, il '68 non è naturalmente una rivoluzione, non è la replica esatta delle rivoluzioni precedenti, ma è una rivoluzione – dal mio punto di vista – nel vero senso del termine; e non parlo nemmeno della rivoluzione bolscevica del '17, ma se ne potrebbe dire altrettanto.
Cosa vuol dire simbolica? Vuol dire che per noi era più importante creare la rivoluzione che mettere la classe operaia al potere.
Era molto facile per noi dire questo, perché avevamo l'esperienza delle classi operaie che erano state messe al potere in passato e di cui avevamo fatto la critica; di conseguenza non avremmo ricominciato quello che avevamo criticato.
Per me, poi, era ancora più facile, perché avevo 17 anni. A questo proposito penso che il momento in cui la rivoluzione del '68 è arrivata nella tua storia personale, è fondamentale: non è la stessa cosa avere 50 anni come Daniel Guerin o essere liceale.
Io ero al liceo, non militavo in nessun gruppo, ma avevo una cultura rivoluzionaria abbastanza sviluppata in quanto appartenevo ad una famiglia francese di intellettuali comunisti, comunisti peraltro non apparatchik ma piuttosto gramsciani che erano stati perfino espulsi dal Partito comunista, quindi critici. Così, senza essere una militante, avevo «bevuto» il comunismo col biberon, era stata la mia educazione e sapevo già che non c'era niente di peggio del PC in una rivoluzione. In più, non venendo da una famiglia operaia, ma da una famiglia della classe media di insegnanti, per me era molto facile non essere operaista, non lo ero mai stata, proprio grazie a questa cultura. Lo è stato certamente meno per quelli che avevano un'altra formazione personale e politica. Io, inoltre, rientravo dagli Stati Uniti, dove avevo passato un anno, il 1967, in un campus universitario. Per me, figlia dell'intellighenzia marxista francese, la sola cosa interessante era rigettare tutto, in quanto simbolo della borghesia, dell'establishment. Niente era più rivoluzionario, ai miei occhi, della controcultura americana dell'epoca. E su questo, arriva il '68. Avevo già conosciuto i beatniks. Avevo già conosciuto l'inizio del movimento delle donne, non il vero e proprio movimento delle donne, ma le prime espressioni delle donne americane. Avevo conosciuto il movimento dei neri americani e sguazzavo in tutta questa cultura, con in più il background del marxismo critico.
Arriva il '68 ed è naturale, per me, adottare le posizioni più innovatrici, più radicali del '68 e cioè non anarchiche ortodosse, ma quelle più creative ed innovatrici del '68, si potrebbe dire libertarie, ma è restrittivo. A questo proposito, direi ancora di peggio: secondo me, gli anarchici di oggi hanno recuperato il '68. Naturalmente, spiegherò meglio quello che dico. C'era sì Dany Cohn Bendit, il nostro idolo. Io ero liceale a Lione e non ho mai incontrato Dany all'epoca, ma non si sarebbe potuto trovare migliore portavoce della nostra rivoluzione.
Sono entrata nel Movimento 22 marzo a Lione come liceale. Dany Cohn Bendit era libertario e il compagno di Dany che aveva creato il Movimento del 22 marzo con lui, Jean-Pierre Duteuil, era un vero anarchico e quindi c'era effettivamente, nel '68, dell'anarchia e del libertarismo, ma più del semplice anarchismo c'era prima di tutto il situazionismo, che era per noi fondamentale e molto al di là del semplice anarchismo ortodosso. Il situazionismo era, soprattutto per dei giovani liceali come noi, una delle espressioni più contemporanee. C'erano poi il Living Theatre, le ispirazioni poetiche, le avanguardie artistiche, tradotte in termini politici. C'erano i surrealisti (ma erano già molto superati), i dadaisti, ecc., insomma nel '68 c'erano cose surrealiste, dadaiste, situazioniste, poetiche, e non solo anarchiche e libertarie.
Per esempio il famoso slogan «l'immaginazione al potere» può essere oggi considerato libertario. Certamente lo è, ma prima di tutto è uno slogan poetico e artistico, di tutti gli artisti rivoluzionari del XX secolo. Dirò di più, è uno slogan artistico «maoista», perché in questo slogan c'è anche un problema di antagonismi, di contraddizioni: «l'imagination au pouvoir» è complicato da gestire, secondo me, sono due concetti che non sembrano stare bene insieme.
Ma dal punto di vista dei giovani come me, che non erano militanti di un gruppo politico preciso, l'anarchismo era naturalmente quello che ci era più vicino, anche se si trattava di un anarchismo molto innovatore, molto creativo. Anzi, prendevamo in giro in modo spietato l'anarchismo ortodosso: per noi erano dei vecchi che non avevano capito niente e che non erano per niente «di moda».
Ho parlato di rivoluzione simbolica. Lo si è affermato spesso in seguito, perché pensavamo – e continuo a pensarlo: confesso che da questo punto di vista sono incorreggibile – che la rivoluzione dei simboli, la rivoluzione dei concetti, la rivoluzione dell'immaginario, è un motore della storia molto più potente della rivoluzione economica quando non ha supporti immaginari.
Il nostro problema di fondo era l'autorità., è più esatto dire che eravamo anti-autoritari più che anarchici. Mi ricordo che dopo il '68 la parola «anti-autoritario» era sempre presente nel vocabolario dei compagni tedeschi, come nelle lotte anti-autoritarie di Berlino «Kommun 1 e 2»… E penso che per noi era più esatto dirci anti-autoritari che anarchici, perché eravamo dei fanatici della critica di tutte le autorità, e veramente dei fanatici come si può esserlo a 17 anni e non si ha niente da perdere.
Naturalmente, primo oggetto di critica veemente ed impietosa era la famiglia, poi il patriarcato, ma non nel senso del successivo movimento delle donne quanto piuttosto nel senso più antropologico, come struttura globale della società: il padre che gestisce gli uomini e le donne, i figli, i giovani, ecc. Oggetto di critica era anche la scuola, e gli stessi militanti più vecchi che volevano dirigerci e dirci quello che dovevamo fare. Insomma, tutti passavano attraverso la nostra critica.
I militanti un po' più vecchi si chiedevano, d'altra parte, se bisognava considerarci dei bambini o se bisognava prenderci sul serio. È in questo senso che parlerei di rivoluzione dei simboli, perché è questo che gli operai hanno avuto voglia di fare, dopo di noi, quando si sono uniti al movimento del '68. Si trattava della stessa critica di noi studenti, al liceo prima e all'università poi, quando criticavamo il potere dei professori, il potere del sapere, della cultura… tutti i poteri.
Credo che ciò abbia dato una potenza immaginativa alle altre categorie rivoluzionarie, al desiderio rivoluzionario generalizzato, l'ha fatto esplodere.
Secondo me, gli operai che non facevano parte di alcun apparato di partito hanno voluto entrare nel gioco, perché era veramente troppo bello e perché anche loro avevano qualcosa da dire in termini di critica simbolica… prima di essere recuperati, canalizzati dagli apparati politici come il PC e la CGT. È solo molto tempo dopo che tutto ciò si è trasformato in rivendicazione salariale ecc. ecc.; per far piacere a De Gaulle e perché la rivoluzione non esplodesse.
Ci sono stati antecedenti libertari? Penso che ce ne siano sempre stati, in tutte le rivoluzioni, solo che chiamarli libertari è ancora una volta una riscrittura della storia.
Se prendi la rivoluzione francese del 1789, l'anno '89 è un'esplosione rivoluzionaria, un'esplosione d'immaginazione critica, rivendicativa, creatrice, ma non è libertario, è un'esplosione creatrice rivoluzionaria. Quindi, penso che in tutti gli inizi di rivoluzione, ovunque, c'è qualcosa che somiglia al '68, ma non appare evidente perché, dopo, gli apparati politici legittimi rimettono sempre tutto in forma, nella loro forma, per motivare la loro appropriazione del potere. Quindi, ci sono stati effettivamente antecedenti libertari, ma credo che ce ne siano stati in tutte le rivoluzioni, come nei grandi scioperi.
Ho studiato uno sciopero a Lione nel XIX secolo: all'inizio dello sciopero le donne hanno fatto cose inverosimili, ma sempre negli scioperi del movimento operaio si trovano antecedenti libertari, anche nel senso di intellettuali critici. Ad esempio Fourier. Dal mio punto di vista Charles Fourier è un uomo del '68 e come lui se ne potrebbero nominare diversi. Quindi, antecedenti ce ne sono, ma che siano libertari lo diciamo noi, non loro.
Il ruolo della cultura? È una domanda che io affronterei in modo diverso, perché se ci ricordiamo, la rivoluzione culturale era un concetto maoista che ci faceva ridere, lo criticavamo. Parlare, perciò, di rivoluzione culturale, significa in realtà legittimare i concetti maoisti.
Il '68 non è una rivoluzione culturale: è una rivoluzione punto e basta. Al massimo è una rivoluzione del desiderio, è un desiderio di rivoluzione. Il desiderio di rivoluzione è un concetto diverso da quello maoista e credo che è appunto questo il fatto nuovo: che dei giovani arrabbiati, incontrollabili e incontrollati, mettessero in atto questo desiderio di rivoluzione, dessero fuoco alle polveri. E aspettiamo soltanto una cosa: di ricominciare (salvo che saranno altri a farlo, per noi sono già passati trent'anni).
Il '68 ha espresso una nuova maniera di essere e di agire? È una domanda molto difficile da fare a quelli che sono stati gli «arrabbiati» del '68, che in fondo, se li si conta, non erano molti, soprattutto se paragonati ai 10 milioni di scioperanti in Francia. Quella che viene chiamata generalmente «la generazione '68», gli «arrabbiati», era tutto sommato costituita da una manciata di persone. A Nanterre erano 142, a Lione 30. Un pugno di persone. Porre una domanda simile a queste persone è molto doloroso, perché dopo il '68 abbiamo vissuto una regressione continua: delle nostre vite, della società, del pensiero, dei mezzi di sussistenza, ecc.
Ma naturalmente per gli altri è stato l'inizio di un nuovo modo di pensare, anche se è difficile affermarlo in modo univoco, perché subito tutto è stato recuperato dalla pubblicità, dalla società mercantile, e dal momento in cui è stato commercializzato ha perso, beninteso, ogni dinamica e ogni capacita rivoluzionaria.
É stato allora l'inizio di un nuovo modo di agire e di pensare? Naturalmente il '68 ha creato un mucchio di movimenti che hanno cambiato la società: il movimento delle donne, il movimento giovanile, il movimento degli omosessuali, la critica della gerarchia anche in seno agli stessi partiti, ecc. Tutto questo è vero, ma non è stato creato da quelli che hanno fatto la rivoluzione, bensì da altri, e quindi la mia risposta sarà, come dire, ambivalente.
Ritengo che ci sia stata gente capace di mantenere il potenziale creativo del maggio '68 più a lungo di altri, in particolare quelli più vecchi; cosa normale del resto: i vecchi rivoluzionari, quelli che hanno vissuto e agito nel '68 con un capitale rivoluzionario alle spalle, cioè con un'esperienza anteriore al '68, hanno potuto attraversare l'evento e venirne fuori. Al contrario, per i giovani come me, che hanno cominciato la loro vita sulle barricate, è stato molto più difficile riprendersi. È stato molto duro per due ragioni: la prima è che c'era stata a posteriori una specie di invisibilità, di negazione totale dei più giovani. Giovani che invece durante gli eventi avevano avuto la parola e che, nel discorso rivoluzionario, avevano predominato sui più vecchi. Questa è la prima ragione: i giovani dopo non esistevano, non avevano mai parlato, non avevano mai fatto niente, non gli si chiedeva mai il parere… La seconda è che hanno avuto molta più difficoltà degli altri a riprendersi perché quando cominci la vita sulle barricate e sai che – come ti hanno così ben insegnato i situazionisti – il resto del tempo lo passerai nella noia, è effettivamente difficile ritrovare un equilibrio e scendere a patti.
Quelli che invece nel '68 non erano stati in prima linea, hanno creato in seguito una gran quantità di movimenti, molto fecondi per la trasformazione della società francese e internazionale. Per gli altri, invece, il dopo è stato un processo di restaurazione continua, una negazione politica totale, una specie di obbligo a dimenticare: non bisognava più parlarne, non bisognava dire più niente, bisognava scomparire dalla circolazione perché i diversi livelli del potere potessero re-installarsi e perché l'ordine sociale potesse tornare. Si è quindi trattato veramente di una restaurazione molto violenta, con tutti gli effetti che ne conseguono. Molti, naturalmente, non si sono ripresi, non si sono mai più rimessi in piedi. Non hanno più avuto la minima voglia di fare qualcosa, ora che non c'erano più le barricate, qualcosa che li facesse vivere e preservasse un po' la vita di tutti i giorni. Molti non hanno nemmeno avuto voglia di far parte di un gruppo militante, politico, creativo, o artistico, niente.
Alcuni hanno ritenuto che era finita una volta per tutte, che non valeva la pena di stancarsi per nessun'altra causa, che il '68 non sarebbe mai più tornato. Finito. Un'altra vita, ma non più la vita della rivoluzione. Quindi, restaurazione assoluta.
Durante questi trent'anni non c'è stato alcun processo creativo, fosse pur minimo. Non è successo niente d'interessante durante questo periodo. Si potrebbe essere più sfumati, naturalmente, e sarebbe meglio, ma per questo ci sono i collettivi d'autocoscienza!
Questa restaurazione è stata, dal mio punto di vista, non solo violenta ma voluta, non si è trattato cioè di un meccanismo inconscio o puramente funzionale della società quello che ha spinto a seppellire il '68 sotto uno strato di totale silenzio; non è stato un meccanismo impersonale e funzionale, ma è stato un meccanismo voluto, organizzato, perseguito: «Non se ne parla più. Siete degli ex-combattenti, farneticate». Eravamo degli ex-combattenti già tre mesi dopo! Non ancora maggiorenni – nel '68 la maggiore età era a 21 anni – alcuni mesi più tardi eravamo già dei reduci, dei rimbambiti farneticanti e senili. Bisognava voltar pagina. Era finito.
Davvero pochi – a mia conoscenza – di quelli che erano stati nel movimento si sono poi ritrovati nei gruppi militanti successivi, e dopo il '68 sono state tentate poche esperienze. Parlo sempre di Lione, di Parigi non so; a Lione e in tutta la regione lionese sud-orientale, ne sono state tentate molto poche. C'è stata una cesura radicale tra il maggio '68 e il dopo, e molti militanti, vecchi e giovani, non hanno mai più messo piede in alcun movimento politico esistente, nemmeno quello anarchico. C'è subito stata da parte dei movimenti che si sono costituiti dopo la voglia di appropriarsi del '68 e questa appropriazione – in quanto rapporto di potere – doveva farsi con l'esclusione di quelli che erano venuti prima e che avevano agito all'epoca. Capisci quello che voglio dire? Un rapporto di potere ordinario: si buttano fuori quelli che ci hanno preceduto e poi ci si appropria delle loro cose.
La restaurazione è stata una realtà fondamentale degli ultimi 30 anni e, per quanto mi riguarda, ne ho sofferto molto, soprattutto durante i primi anni dopo il '68 e, contrariamente ad altri che hanno mantenuto la loro capacità creativa e rivoluzionaria per almeno una dozzina d'anni io non ho potuto. Soltanto col tempo, poco a poco, la volontà, la capacità, il gusto e l'interesse di agire collettivamente è ritornato.
Bisogna dire, naturalmente, che nel '68 c'erano molte donne di tutte le età in tutti i gruppi. Inoltre, intorno al Movimento 22 marzo di Lione – dove c'erano liceali e studenti universitari ma solo uno o due operai – c'erano quelli che chiamavamo i borgatari, i katanghesi, e come a Parigi, ce n'erano molti anche a Lione. Ci piacevano moltissimo, erano il nostro popolo: i katanghesi, i ladri, gli esclusi, i vagabondi che dormono sotto i ponti, che si drogano.
C'erano, comunque, molte donne, liceali ma anche universitarie, militanti più vecchie già presenti dagli anni Sessanta in tutte le opposizioni.
Il Movimento 22 marzo a Lione era influenzato dal lussemburghismo. Era un po' diverso da Parigi e molto, molto interessante. Era formato da due gruppi: il gruppo Bakunin, vicino a «Noir et Rouge», e poi i trotskisti della LCR contrapposti a quelli parigini in quanto lussemburghisti. In più a Lione c'erano i situazionisti. E tra loro c'era una donna, militante di punta, quasi una «capa», la figura carismatica di tutto il 22 marzo: è morta due anni fa, si chiamava Françoise Routier e aveva dato un tratto molto femminile, e non femminista, al movimento libertario, rivoluzionario. Non era anarchica, ma...
C'erano più donne che a Parigi e tutte queste donne erano rivoluzionarie, libertarie o rivoluzionarie critiche; nessuna era femminista, all'epoca questo non esisteva: erano i problemi della contraccezione e dell'aborto che interessavano, la diffusione della pillola e le compagne che abortivano di continuo e in condizioni catastrofiche, che dovevano andare a Ginevra o in Inghilterra per abortire. Il '68 era tutto questo, più la rivoluzione sessuale che non aveva niente di particolarmente femminista. La rivoluzione sessuale era la liberazione sessuale: scopare il più possibile tutto quello che vi piaceva, quanto si voleva. Più si scopava, più si era rivoluzionari. Era pressappoco così. È solo più tardi, molto più tardi, una volta che la rivoluzione era arrivata al culmine ed era iniziata la discesa, cioè alla fine del '69, che è apparso il primo giornale femminista in Francia, a Parigi e non a Lione: si chiamava «La Mensuelle»; ci piaceva moltissimo, lo trovavamo straordinario, ma non era stato creato da donne di cultura anarchica o libertaria, ma da donne, di nuovo, maoiste. Quindi la formazione del pensiero femminista è passata attraverso lo stampo dominante del maoismo: di conseguenza, le donne come me, uscite dal Movimento 22 marzo e più in genere dal movimento libertario del '68, non potevano riconoscersi in questo movimento.
Avevamo già fatto la critica dei gruppi militanti: Dany Cohn Bendit e, credo, Jean-Pierre Duteuil più altri avevano creato il gruppo Non Groupe, non ricordo più se all'inizio del '68 o alla fine del '68. Criticavamo già tutti i gruppi, figurarsi quindi se andavamo a metterci in un movimento di donne sì, ma maoiste!
Abbiamo, quindi, accolto tutto ciò con molta gioia ma anche con molte critiche, ed io mi sono unita al movimento delle donne molto tempo dopo, nel '76, quando non c'era più nessun rapporto con il '68. Il movimento delle donne, lo ribadisco, non ha assolutamente alcun rapporto con il '68. Se non ci fosse stato il '68, il movimento delle donne sarebbe esistito ugualmente perché è nato negli Stati Uniti, dalla Women's Lib. ecc., e accompagna la diffusione della pillola e la liberazione sessuale.
L'unico collegamento è che il grosso delle femministe, all'inizio del movimento, erano state militanti in gruppi sia maoisti, sia spontaneisti (anche se non c'era quasi nessuna anarchica), e in seguito ci sono state anche le trotskiste. Ma se è effettivamente vero che hanno partecipato probabilmente alle manifestazioni e sono state perfino militanti durante il '68, non c'è secondo me alcun rapporto tra il movimento delle donne e il '68, o meglio non c'è filiazione diretta.



