Lo spazio politico della democrazia. Introduzione a La rivoluzione democratica di Cornelius Castoriadis
di Fabio Ciaramelli
Dagli anni della militanza rivoluzionaria in «Socialisme ou Barbarie» (1949-1965) a quelli dell’impegno teorico, di tipo filosofico e psicoanalitico, culminante in L’istituzione immaginaria della società (1975), e nei testi successivi, il pensiero di Castoriadis ha sempre avuto intense implicazioni politico-pedagogiche. Il suo è sempre stato un pressante invito a non cadere nella rassegnazione e nell’apatia, a non avvilirsi di fronte all’insignificanza trionfante, a non considerarsi vittime dell’impotenza. Invito a reagire elaborando un forte progetto politico e filosofico, capace di forzare i limiti dell’esistente, senza appoggiarsi a nessuna garanzia già data. Appello inattuale alla libertà e alla creazione storica, invito a una responsabilità sguarnita di certezze assolute, che trova la propria chiave di volta nell’autonomia intesa come democrazia effettiva dell’autogoverno.
Democrazia e oligarchie liberali
Il progetto dell’autonomia traduce in termini politici la teoria dell’istituzione immaginaria della società[1], secondo la quale in ogni società data, sotto la cenere della sua stabilità (la «società istituita»), cova la brace dell’alterazione e del cambiamento (la «società istituente»). Infatti, c’è sempre uno sdoppiamento inevitabile, uno scarto, magari impercettibile, ma insanabile, tra la stabilità delle istituzioni sociali e ciò che ne determina l’assetto e ne rende possibile la tenuta e la permanenza. Si tratta di due dimensioni distinte e irriducibili, che però coesistono simultaneamente come due facce della stessa medaglia. L’istituzione del sociale risulta dall’intersezione tra l’istituente e l’istituito, il cui esito è sempre provvisorio, ma di volta in volta relativamente stabile. Il ritmo storico della vita sociale è scandito dalla loro incessante mediazione.
Secondo Castoriadis, infatti, ciò che costituisce e determina ogni società, in nessun caso la trascende dall’esterno. In altri termini, lo sdoppiamento di istituente e istituito è immanente a ogni società data. Non c’è alcuna alterità – di tipo religioso o biologico o puramente razionale – che dall’esterno potrebbe fondare universalmente il sociale. La molteplicità e variabilità delle diverse istituzioni della società è un dato di fatto, che sfida qualunque spiegazione deterministica. Tra le cosiddette società animali e le società umane corre una differenza abissale e invalicabile, conseguenza di un dato molto semplice: le prime non sono autoistituite. La nozione di istituzione allude esattamente alla «non-naturalità» del sociale: all’imprevedibilità della sua autocreazione.
Le società, proprio in quanto autoistituzione e quindi proprio perché a differenza della natura non sono rette da leggi universali, non possono non avere una dimensione intrinsecamente e originariamente politica. Ciò vuol dire che la determinazione dell’assetto globale di una qualunque società è sempre e soltanto l’opera di questa stessa società: un’opera collettiva di cui ogni società è al tempo stesso soggetto e oggetto. Ma è esattamente questa dimensione politica dell’autoistituzione del sociale che viene occultata e negata attivamente nella maggioranza delle società conosciute. L’unica forma di società che la assume, la esplicita e si propone di coltivarla, è la democrazia. E la democrazia è un’eccezione proprio in virtù di queste sue implicazioni rivoluzionarie: cioè perché essa implica un’inversione radicale della tendenza spontanea all’eteronomia sociale, alla quale fa invece riferimento Paul Valéry in questo suo lapidario assunto: «La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò che la riguarda»[2]. L’obiettivo – rivoluzionario – della politica democratica è esattamente il contrario, e perciò entra in rotta di collisione con le tendenze dominanti dell’immaginario contemporaneo, polarizzato dal primato dell’economia e della sua presunta razionalità inderogabile.
Castoriadis è stato un aspro critico della deriva delle democrazie contemporanee, da lui definite regimi di oligarchia liberale, in cui la partecipazione dei più alla gestione degli affari collettivi, lungi dall’essere incoraggiata, è espressamente ostacolata. In nome dell’autogoverno e della partecipazione, il suo pensiero invita a riaprire la riflessione sull’immaginario politico di una democrazia da non intendersi esclusivamente come figura giuridica. Anzi, il fatto stesso che il dibattito recente sempre più spesso riduca la democrazia a un insieme di regole procedurali è, ai suoi occhi, un segno della crisi del movimento democratico. La democrazia è l’unica forma di società in cui la politica è esplicitamente istituita come attività collettiva e conflittuale. Democrazia, politica e filosofia nascono e vivono insieme come forme di messa in discussione del dato sociale istituito nello spazio pubblico della polis per mezzo del logos.
L’attuale crisi del movimento democratico, crisi dell’attività politica, o crisi del progetto d’autogoverno, è dovuta all’eclissi del significato immaginario sociale dell’autonomia, che sembra in difficoltà rispetto all’altro significato immaginario della modernità, concorrente rispetto al primo, costituito dal dominio razionale assoluto, dal predominio dell’economico, del quantificabile come valore esclusivo.
La rivoluzione democratica
La rivoluzione democratica su cui gli scritti politici di Castoriadis invitano a riflettere non va intesa nel senso in cui ne parlava Tocqueville, che vi vedeva un evento storico ineluttabile, dal carattere essenzialmente sociologico. Com’è noto, all’indomani della Rivoluzione francese, Tocqueville vedeva nell’avvento della democrazia un nuovo regime sociale, nel quale avrebbero fatto la loro comparsa sulla scena della storia le masse, fino ad allora tenute ai margini.
Ma per Castoriadis la democrazia non ha nulla d’ineluttabile, né tantomeno di «provvidenziale». Anzi, come s’è appena detto, essa s’inscrive in controtendenza rispetto alla deriva più diffusa e più spontanea dell’esistenza sociale, consistente nell’occultare l’istituzione, appagandosi dell’eteronomia. La «società burocratica» ne è stata nel Novecento l’estrema propaggine. Ecco perché il progetto della democrazia è eminentemente politico: esso consiste nel farsi carico dell’istituzione complessiva della società, la cui posta in gioco è democratica se e solo se mira ad allargare gli spazi di autonomia individuale e collettiva. Infatti, la democrazia dell’autogoverno implica la partecipazione collettiva al potere e in primo luogo al potere istituente. Il vero compito della politica democratica, il suo autentico carattere rivoluzionario, consisterà allora nel fare degli esseri umani i soggetti attivi del proprio cambiamento. Ma a questo fine è indispensabile suscitare in loro – attraverso la paideia – il desiderio e l’interesse per le decisioni pubbliche.
La passione indomita per l’autonomia e la sua realizzazione, che resta in Castoriadis un elemento di matrice illuministica[3], coniugandosi col rifiuto accanito d’ogni forma d’ortodossia e d’obbedienza istituzionale, ne hanno fatto un pensatore originale e solitario, geloso della propria autonomia di giudizio: un vero Selbstdenker, come è stato scritto all’indomani della sua morte[4]. Ma autonomia – darsi da sé le proprie leggi – non significa affatto anomia, assenza della legge, o diniego della sua necessità. La posizione di Castoriadis è irriducibile al disconoscimento della mediazione o alla fuga dall’istituzione. Proprio perché consapevole della necessità inderogabile del simbolico, Castoriadis ha lottato tutta la vita per metterne in luce le componenti immaginarie, e per rendere in tal modo possibile la sua trasformazione. Ecco perché garanzia dell’autonomia è sempre il discorso pubblico – il logos: l’argomentazione e la ragione – attraverso cui la legge istituita si pone e si giustifica.
Castoriadis ha sempre rivendicato la propria fedeltà al progetto rivoluzionario come realizzazione della democrazia: realizzazione del suo germe greco, anzi ateniese, e inveramento della sua rinascita moderna, che ne prevede l’allargamento e la radicalizzazione, ma che al tempo stesso rischia di soffocarlo e affossarlo. Ciò che fin dalle origini dell’età moderna minaccia il progetto dell’autonomia, secondo Castoriadis, è l’altro grande significato immaginario della modernità, e cioè la pretesa al dominio totale e al controllo razionale della realtà, la cui espansione trionfante rischia ormai di eclissare il senso stesso dell’autonomia politica.
La domanda che ci si deve porre, ma che resta in ombra nell’opera dell’autore greco-francese, concerne la possibilità stessa di scindere questi due momenti. Infatti, lo specifico della modernità è esattamente la pretesa di realizzare l’autonomia proprio attraverso «il feticismo del dominio razionale». E una posizione come quella di Castoriadis è in parte a sua volta figlia della stessa ansia e dello stesso prometeismo. Forse il progetto di Castoriadis è destinato a fallire proprio come quello della modernità, di cui parla Waldenfels[5], e per la stessa ragione: il suo pieno compimento sarebbe la morte stessa dell’autonomia, la sua fuoriuscita illusoria dal paradosso della circolarità su cui lo stesso Castoriadis ha tante volte richiamato l’attenzione[6].
Eppure, in virtù della forte consapevolezza del carattere immaginario dei significati sociali e della loro forza aggregante, Castoriadis è il primo a riconoscere l’impossibilità di fornire una fondazione razionale del progetto dell’autonomia. Così facendo, ne asserisce lo statuto pratico-politico e ne riconosce l’irriducibilità. «Impossibile sfuggire alla necessità d’affermare il progetto di autonomia come posizione prima, che si può certo delucidare ma non può ‘essere fondata’, giacché la stessa intenzione di fondarla la presuppone»[7].
Non trattandosi di un progetto fondabile razionalmente, non c’è alcuna scappatoia possibile: non lo si può far discendere da alcuna autorità o evidenza indiscutibile e necessaria. Non c’è niente che lo imponga o lo renda assoluto. La dimensione storico-politica è irriducibile proprio perché è originaria: non deriva da nulla che la preceda e la fondi, e perciò risulta assolutamente rimessa a se stessa. Nulla può, dall’esterno, attenuarne la responsabilità. Nulla può «salvarla».
La divisione tra dirigenti ed esecutori come costruzione politica
Questa «tragicità» dell’agire politico, sprovvisto di modelli esterni cui appigliarsi, costituisce, nell’opera di Castoriadis, una sorta di esplicito controcanto alla tradizione marxista dalla quale Castoriadis proveniva[8]. In altri termini, è proprio la scoperta e la tematizzazione della centralità della politica che inevitabilmente allontana Castoriadis dal marxismo; nel quale, in effetti, non c’è spazio per una vera azione politica, giacché nella sua pratica corrente s’è il più delle volte trattato quasi esclusivamente di applicare un’analisi socio-economica, la cui asserita scientificità si presumeva togliesse ogni margine d’indeterminazione all’agire[9]. Il livello politico della deliberazione in tanto è possibile e decisivo in quanto presuppone l’indeterminatezza ontologica di ciò su cui s’esercita. Al contrario, la riconduzione marxista alla relazione determinante tra rapporti di produzione e forze produttive ha come effetto la morte della politica, ridotta a messa in opera o applicazione di una verità scientifica.
In effetti, l’elemento decisivo nell’allontanamento di Castoriadis dal marxismo è stata la critica, ancora attualissima, del carattere intoccabile e indiscutibile dell’immaginario progressivo dello sviluppo. Proprio su questo piano, agli occhi di Castoriadis, il marxismo mostrava tutta la sua solidarietà e tutta la sua subordinazione all’organizzazione burocratica del capitalismo. E in sintonia con quest’ultima, tendeva a esautorare la dimensione propriamente politica dell’esistenza umana.
Letta retrospettivamente, è questa la linea dominante della critica della burocrazia sovietica che Castoriadis conduce accanitamente a partire dalla fine degli anni Quaranta. Nel suo discorso, isolato tanto a sinistra che a destra, incominciava già allora a delinearsi come figura decisiva l’immaginario dello sviluppo illimitato (prima della produzione, poi del consumo), che sarebbe giunto al suo punto culminante con l’attuale globalizzazione dell’economia e del diritto. In tal modo la critica della burocrazia sovietica sfocia in un discorso complessivo sulle trasformazioni del capitalismo moderno. Già nel 1957 Castoriadis la metteva in questi termini:
La società russa non è una società socialista, né uno Stato operaio, più o meno «degenerato», ma una società di sfruttamento, in cui il proletariato, privato dei prodotti del suo lavoro, espropriato della direzione della propria attività, subisce la stessa sorte che sotto il capitalismo privato. La burocrazia russa non è una formazione transitoria, né un ceto «parassitario», ma classe sfruttatrice, la cui struttura, la cui ideologia, il cui modo di dominazione economico e politico corrispondono organicamente alla concentrazione totale del capitale nelle mani dello «Stato». […] Questa analisi della burocrazia non vale soltanto per la Russia, ma si applica, con la riserva dei necessari correttivi, a tutti i Paesi dove essa ha preso il potere. E il capitalismo burocratico non riguarda soltanto i Paesi dominati dal partito stalinista. Lungi dall’essere un fenomeno esclusivamente politico, il ruolo preponderante della burocrazia è in egual misura un fenomeno economico. Esso esprime le tendenze più profonde della produzione capitalistica moderna: concentrazione delle forze produttive, e scomparsa o limitazione conseguente della proprietà privata come fondamento del potere della classe dominante; comparsa nelle grandi imprese d’enormi apparati burocratici di direzione; fusione dei monopoli dello Stato; regolamentazione statale dell’economia. La divisione in classe delle società contemporanee – occidentali e orientali – a livello essenziale non corrisponde più alla divisione tra proprietari e non proprietari, ma a quella, assai più profonda e molto più difficile da eliminare, tra dirigenti ed esecutori nel processo di produzione[10].
E quest’ultima divisione tra chi creativamente dirige e chi passivamente esegue è il tratto di maggiore attualità dell’analisi di Castoriadis. Non v’è dubbio, peraltro, che la nostra età di capitalismo globale la accentui. Infatti, «come in economia, anche in politica la globalizzazione implica che il baricentro si sposti dalla produzione (il progetto) al consumo (la passività)»[11]. E Zygmunt Bauman ha mostrato a sufficienza, utilizzando peraltro categorie desunte da Castoriadis, come le conseguenze della globalizzazione sulla vita della maggioranza degli individui che si collocano, per così dire, sul versante passivo della stessa, siano l’aumento dell’insignificanza e dell’esclusione. Esclusione non tanto e non solo dal processo produttivo di benessere e di ricchezza, ma dalla produzione dei significati sociali.
Non si tratta, però, ed è questo il senso profondo del discorso di Castoriadis, della constatazione di un dato obiettivo, da registrare, da indagare, e su cui far leva, in termini rassicuranti, per garantirsi la praticabilità e il successo del suo superamento. La divisione tra dirigenti ed esecutori – questo nuovo aspetto della divisione di classe – non è un dato sociale, obiettivamente misurabile, ma una costruzione politica. Per dir meglio, si tratta della posta in gioco di un processo politico nel quale soltanto possono costituirsi un’aggregazione e un progetto miranti alla realizzazione dell’autonomia.
Benché già in Marx l’idea di classe fosse da intendersi come una costruzione politica, e non come una semplice categoria economico-sociale, nella critica marxista del capitalismo è prevalso un orientamento di tipo sociologico ed economicistico, subordinato ai significati immaginari della modernità e alla sua rivendicazione del primato indiscutibile dello sviluppo. Ciò che Castoriadis critica nel marxismo è proprio questo restringimento dello spazio di una reale prassi politica. Annullando la creatività dell’azione collettiva, resta possibile solo un’attività burocratica, il cui fine consiste nel portare a compimento ciò di cui il capitalismo pone le premesse ma impedisce la realizzazione. In effetti, nel quadro della teoria economica marxista il capitalismo va criticato solo perché non è in grado di mantenere le proprie promesse, in quanto le forze produttive che suscita non sono poi lasciate libere di svilupparsi ma vengono costrette e limitate da rapporti di produzione che devono essere superati – e che saranno comunque superati in virtù della logica intrinseca dello sviluppo produttivo intesa come fondamento scientifico del processo storico.
Troppo spesso in Marx prevalgono l’indiscussa e indiscutibile certezza scientifica della rivoluzione futura, la convinzione che questo esito necessario dischiuda il senso ultimo dell’avventura umana, e la concezione del comunismo come risultato «naturale» di uno sviluppo storico unitario. In tal modo è la stessa opera di Marx a porre le premesse del marxismo, nel quale rivive la pretesa ontologica del pensiero speculativo, cioè quella d’attingere il fondo stesso della realtà, quel livello in cui il reale, il dato di fatto, l’essere stesso non viene più interpretato o detto da un punto di vista determinato, ma si mostra da se stesso o si esibisce da solo nell’assoluta trasparenza della sua (presunta) verità. In questo senso, Marx condivide e conferma il privilegio del teoretico-speculativo proprio dell’ontologia classica, al cui centro campeggia la tesi dell’accessibilità immediata dell’originario alla trasparenza del sapere scientifico. Dal momento che poi nell’archè è già presente il telos, sia pure solo in forma potenziale, dall’accessibilità immediata dell’originario discende come sua inevitabile conseguenza l’approccio diretto al senso ultimo del processo storico e al suo traguardo ultimo.
Il congedo dal marxismo
In questo contesto, dunque, il congedo di Castoriadis dal marxismo fa corpo col rifiuto delle pretese conoscitive della ragione universale. Quest’ultima si spaccia per una struttura logica intemporale e necessaria in virtù della quale ci sarebbe garantito l’accesso immediato all’origine del vero, mentre in realtà – anche grazie a una parte dell’insegnamento di Marx – dimostra di essere solo una forma di vita, mossa dalla pretesa (illusoria) che sia possibile dedurre i significati sociali da un fondamento oggettivo, inteso come stabile struttura della realtà. Il privilegio marxiano della prassi non è che la pretesa di esibire nell’oggettivazione storica e nell’applicazione tecnica quella presunta verità ultima del reale che solo la razionalità dell’autentica teoria scientifica dovrebbe esser capace d’attingere in maniera indiscutibile e assoluta. Presupposto di una simile capacità della teoria scientifica è ovviamente la coincidenza immediata tra ordine della realtà e ordine del significato o del valore, posta come premessa originaria e traguardo finale del processo storico. Ben se ne capisce la grande funzione rassicurante, capace di fornire un riscontro oggettivo alla più profonda aspirazione della psiche: quella di ritrovare un parallelismo armonico tra il desiderio e la sua realizzazione, cioè tra l’esigenza di un riscontro ultimo del significato e il pieno soddisfacimento di una simile esigenza vitale. Infatti, che l’ordine del senso possa trovare un aggancio esterno in uno strato irriducibile di realtà oggettivamente data, permette di fondare l’ambito della conoscenza, della verità e dei desideri sulla determinatezza del reale, sulla sua intrinseca permeabilità al senso, sulla sua trasparente esibizione scientifica. Il compito decisivo della prassi – ridotta a tecnica dell’oggettivazione o messa in opera – sarà allora quello di dare visibilità e consistenza storica alla struttura originaria di senso che la teoria presume di scoprire al fondo dei processi reali.
Che questa fiducia nelle capacità scientifiche di conoscere anticipatamente il senso intrinsecamente progressivo dello sviluppo storico, prevedendone ottimisticamente l’esito conclusivo, ci sia divenuta del tutto estranea, è il men che si possa dire. Senza dilungarci sul carattere illusorio di una simile fiducia, limitiamoci a osservare con Pietro Barcellona che «con questo crollo del significato sociale dell’ottimismo progressivo si rifiuta di fare i conti chi continua a chiedersi come mai cresca lo scarto tra l’innovazione tecnologica, il progresso scientifico e le condizioni della vita quotidiana»[12]. Ciò che ha perso affidabilità è la connessione automatica tra l’incremento o sviluppo delle forze produttive e il progresso civile. «C’è una perdita di credibilità dell’idea di progresso, cioè dell’idea che ci si possa affidare puramente e semplicemente a meccanismi automatici che garantiscono l’evoluzione progressiva delle società umane verso livelli sempre più alti di civilizzazione»[13].
Il trionfo della mediocrità e dell’insignificanza
Piuttosto che verso un progresso sempre maggiore della razionalità e dello sviluppo, la società contemporanea sembra orientata verso quella mediocrità generale che, secondo un’acuta osservazione di Berman, «è forse l’unica cosa che Marx non riesce assolutamente a concepire»[14]. Ma è proprio qualcosa del genere che tende a imporsi oggi, come Castoriadis ripete nei suoi scritti recenti sul conformismo generalizzato, l’ascesa dell’insignificanza, il disfacimento dell’Occidente[15]: scritti sui quali ama richiamare appassionatamente l’attenzione nei suoi articoli su «La Stampa» uno spirito acuto e lungimirante come Guido Ceronetti. In tali scritti Castoriadis denuncia un contrasto insanabile tra la pretesa al dominio razionale assoluto – centrato sul primato dell’economico come valore esclusivo se non unico – e la tenuta stessa della democrazia. Egli nega che il processo di industrializzazione e modernizzazione capitalistica, lasciato a se stesso, implichi necessariamente la diffusione del progetto e dei significati della democrazia. Benché il marxismo, in quanto movimento politico di emancipazione e di lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, sia stato a lungo il solo movimento storico influente che sembrava opporsi al capitalismo, tale opposizione non era che un aspetto della sua profonda adesione ai significati immaginari e ai valori sociali preconizzati e realizzati dal capitalismo stesso, ai quali quest’ultimo alla lunga si sarebbe dovuto rivelare incapace di garantire efficace realizzazione storica, partorendo dal suo seno una nuova formazione sociale. Infatti, l’avvento della società comunista sarebbe stato il risultato quasi spontaneo, ancorché solo faticosamente raggiungibile, di un processo di complicazione e crisi dei rapporti sociali di tipo capitalistico evoluto.
Nonostante il carattere meramente strumentale della propria concezione di sviluppo, come scrive Castoriadis in un testo inserito in questo volume, «l’ideologia capitalistica ha tuttavia, nei suoi momenti più filantropici, la pretesa di affermare uno scopo della ‘razionalità’, che sarebbe il ‘benessere’. Ma la sua specificità è data dal fatto che essa identifica questo benessere con un massimo – o con un ottimo – di tipo economico»[16]. Il marxismo non se ne discosta quanto all’apprezzamento del benessere come obiettivo dello sviluppo, ma quanto alla convinzione che il capitalismo non sia in grado di realizzare ciò che promette, pur fornendone tutte le premesse.
La ragione del grande successo, presso generazioni di militanti anticapitalisti, dell’immaginario dello sviluppo e del benessere è stata la sua capacità di fornire appagamento immediato a una delle più profonde aspirazioni individuali e collettive, quella di poter esibire – innanzi tutto a se stessi – la realizzazione compiuta e garantita di una grande speranza storica: realizzazione compiuta nel processo reale tendente verso la società senza classi, realizzazione garantita dalla forza effettualmente vincente di questo stesso processo.
Si può quindi concludere con Castoriadis che «le riserve più forti, le critiche più radicali rivolte a Marx non annullano la sua importanza di pensatore né la grandezza del suo sforzo. Si rifletterà ancora su Marx quando si cercheranno a fatica i nomi dei vari von Hayek e Friedmann nelle enciclopedie. Ma non è per effetto di quest’opera che Marx ha svolto il suo ruolo enorme nella Storia effettiva. Marx sarebbe stato soltanto un altro Hobbes, Montesquieu o Tocqueville se dai suoi scritti non si fosse riusciti a ricavare un dogma, e se quegli scritti non vi si fossero prestati»[17].
Ciò è in particolar modo visibile nella celebrazione della centralità della tecnica, della produzione e dell’economia come motori trainanti del processo storico emancipatore, che assicurerebbero un progresso automatico della storia, al quale viene di fatto subordinata la stessa attività rivoluzionaria. La grande idea politica centro del movimento emancipatore e democratico degli operai inglesi nei primi decenni dell’Ottocento, l’idea di un autogoverno dei produttori, invece di mantenere la sua carica eversiva rispetto all’andamento storico del capitalismo nascente, viene ritenuta realizzabile solo da un’evoluzione compiuta delle potenzialità tecniche presenti nel capitalismo stesso. Anzi, è l’insieme stesso della storia dell’umanità che viene interpretato – in linea con lo spirito del capitalismo – come un risultato dell’evoluzione delle forze produttive. La libertà futura è fondata sulla teleologia del processo e sul carattere immaginario della sua natura progressiva.
Ne consegue come risultato paradossale che tanto dall’analisi marxista quanto dall’immaginario progressivo del capitalismo (e oggi della globalizzazione) restano esclusi la rilevanza e il riconoscimento della portata decisiva della mediazione politica come attività umana che è alla base del processo storico-sociale. Nel marxismo, questo diniego della politica è evidente proprio nella riduzione della lotta di classe a fenomeno socio-economico, in cui consisterebbe il motore «naturale» della storia. Indipendentemente dal banco di prova rappresentato dal corso degli eventi, questo modo di considerare il processo storico come frutto di una logica inderogabile di rapporti di forza è una fantasia d’onnipotenza nella quale si manifesta una delle componenti più caratteristiche dell’immaginario capitalistico della modernità. Come scriveva Claude Lefort in uno dei testi di «Socialisme ou Barbarie» inteso a riscattare l’esperienza proletaria dalla sua subordinazione alla teoria scientifica, il marxismo
converte la teoria della lotta di classe in una scienza puramente economica, pretende di stabilire leggi a immagine e somiglianza delle leggi della fisica classica, effettua una deduzione della sovrastruttura e inserisce in questo capitolo, tra i fenomeni propriamente ideologici, lo stesso comportamento delle classi. Il proletariato e la borghesia, si dice, non sono che «personificazioni di categorie economiche» – l’espressione si trova nel Capitale –, il primo espressione del lavoro salariato, la seconda del capitale. La loro lotta dunque non è se non il riflesso di un conflitto obiettivo, quello che si produce in alcuni periodi determinati tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione esistenti. Giacché questo conflitto è a sua volta il risultato dello sviluppo delle forze produttive, la storia nella sua essenza viene a ridursi a questo sviluppo, trasformandosi insensibilmente in un episodio particolare dell’evoluzione della natura[18].
È questo il contesto in cui un testo come Il Manifesto del Partito Comunista esalta la fluidificazione frenetica degli antichi legami vigenti in un mondo chiuso e la forza inarrestabile e irresistibile dell’avanzata del progresso. Di un progresso, beninteso, di cui la borghesia non è che il provvisorio protagonista, destinato a esser sostituito dal proletariato, il cui avvento dovrebbe comportare il pieno e radicale sviluppo di tutte le potenzialità dell’essere umano. La modernità trova il suo senso – la sua direzione e il suo significato – nella logica stringente ed eloquente dello sviluppo economico come sviluppo delle forze produttive, cioè come espansione e realizzazione di quelle forze che producono e riproducono le condizioni reali della vita umana. Ed è proprio il carattere scontato e indiscutibile di una simile logica dello sviluppo a costituire il punto di contatto del marxismo con l’immaginario progressista della modernità capitalistica, che esso vede penetrare l’intero globo terrestre, e di cui costituisce un’inopinata ed entusiastica celebrazione. Certo, questa celebrazione è finalizzata all’asserito autosuperamento del regime capitalistico, ritenuto incapace di garantire adeguata espansione alle forze produttive che lo sorreggono e che in definitiva dovrebbero condurlo a esplosione. Ma è pur sempre l’ambito del lavoro produttivo – del suo inesorabile sviluppo naturale – a esser la sorgente ultima del senso.
Modernità e crisi della politica
La modernità appare qui caratterizzata dalla esaltazione del Mutamento, che spazza via le tradizionali stabilità e annulla ogni assoluto. O meglio, che rende gli assoluti – religiosi o filosofici, etici o estetici – non più collettivi ma privati. Come dice Hannah Arendt, la modernità trionfa dei bisogni grazie all’emancipazione del lavoro, grazie «al fatto, cioè, che l’animal laborans [sia] stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia, per tutto il tempo che l’animal laborans ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente»[19]. La modernità, insomma, malgrado l’esaltazione dell’attività lavorativa, culmina «nella più mortale e più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto»[20].
Come comprendere questo strano rapporto tra il trionfo dell’animal laborans e l’espropriazione della capacità di agire – della capacità politica – che subisce la maggioranza degli individui moderni? La crisi dell’immaginario della modernità nasce dal fatto che essa affida al lavoro produttivo e alla sua celebrata efficacia un compito impossibile: quello di produrre senso. Ma l’unica cosa che il lavoro produttivo riesce a produrre è il funzionamento meccanico e automatico della società, il suo approvvigionamento, la sua ripetitiva riproduzione. L’ordine originale del senso, l’ambito dei significati, eccede la funzionalità e la validità, eccede la logica dello sviluppo misurabile a cui soggiace la regolarità strumentale del lavoro produttivo. Si tratta cioè di un ordine che oltrepassa indefinitamente il mero soddisfacimento dei bisogni funzionali alla sopravvivenza: ma sarebbe miope credere che una qualunque società possa funzionare senza tenerne conto.
L’ordine simbolico e l’ordine reale sono entrambi indeterminati e nel loro scarto riluce la non coincidenza con sé del sociale, la sua dimensione politica, insomma la sua storicità. Quest’ultima «è sostenuta da tutto un sistema di significazioni immaginarie che valorizzano e svalutano, strutturano e gerarchizzano un insieme incrociato di oggetti e di mancanze corrispondenti»; in esso si può «riconoscere quella cosa tanto incerta quanto incontestabile che è l’orientamento di una società»[21].
Il punto è che questa dimensione decisiva ma immateriale e impalpabile non può essere il risultato del livello di complicazione e crisi dei rapporti di produzione. Non è la posta in gioco di una relazione economica ma di un legame storico-politico, attraverso il quale le donne e gli uomini agiscono di concerto entro condizioni date. L’attività collettiva – oggi ingloriosamente sostituita dalla passività del consumo di massa – è di natura politica, poiché solo essa è la fonte dell’istituzione globale della società, e non può esser concepita secondo il modello puramente economicistico all’orizzonte dell’«associazione di produttori», che secondo un celebre passo del Manifesto dovrebbe subentrare all’antagonismo delle classi. Il presupposto implicito di una tale veduta, nella quale già s’intravede e s’annuncia l’avvento attuale della globalizzazione, è che il senso dello sviluppo economico, nonché la sua libertà, si risolvano nell’abolizione d’ogni intralcio all’attività economica dei soggetti sociali. L’unico obiettivo della loro associazione consiste nello sviluppare senza limiti le loro naturali potenzialità produttive.
In questa prospettiva, il legame che unisce i produttori esula dalla mediazione politica. Esso non è dato da alcun progetto comune, non si realizza in alcuna attività collettiva generatrice di senso perché irriducibile alla logica dell’autoriproduzione. «Il problema è che, considerata la matrice nichilista della moderna evoluzione privata e sociale, non è affatto chiaro quali legami politici possano stabilire gli uomini moderni. E così la difficoltà insita nel pensiero di Marx si rivela alla fine una difficoltà che attraversa l’intera struttura della stessa vita moderna»[22].
L’aporia della modernità è la mancanza d’uno spazio adeguato per l’instaurarsi delle mediazioni politiche. Ne consegue una crescente spoliticizzazione, cioè l’incapacità di ravvisare una qualunque forma significativa d’alterità politica. L’abolizione del legame tende ad affermare l’immediata produttività degli individui associati, sciolti da ogni vincolo estraneo al comando diretto della coazione economica. Il processo si compie nella diffusione di massa del consumo, la cui centralità prende il posto della produzione. Ormai al primato dei bisogni si sostituisce quello dei desideri. E sul piano politico la dimensione progettuale della soggettività cede il passo alla passività del consumo, tramite esclusivo di appagamento dei desideri[23].
Spazio della politica e portata rivoluzionaria della democrazia
In questo contesto, l’elemento di maggiore attualità dell’opera di Castoriadis appare senz’altro la riabilitazione di ciò che lui chiamava delucidazione dell’azione politica. L’esigenza di una cosa del genere deriva dal fatto che solo attraverso la mediazione politica l’istituzione della società può riuscire a governare le proprie trasformazioni. In altri termini, l’autonomia è un obiettivo che inevitabilmente privilegia la centralità della politica e sconfessa il determinismo sociale. Quest’ultimo, infatti, asserisce e subisce il primato del tecnico-economico, cui conseguenza inevitabile è la morte della politica. Come ha notato Robert Redeker[24], è solo grazie alla centralità della poetica che la politica, dopo la sua eclissi nella modernità (dov’essa finisce con l’esser soppiantata dal predominio del sociale e delle leggi economiche), può tornare alla ribalta.
Per chiarire il senso di questa dimensione poetica (in cui, secondo Castoriadis, è in gioco la libera creatività dell’immaginario, la quale però deve sempre coniugarsi con le necessità della logica identitaria) può essere utile una breve citazione di Vittorio Foa, tratta da un suo dialogo radiofonico con Natalia Ginzburg. Foa parte dalla constatazione che in politica vi sono diversi livelli:
C’è un livello utilitario, che io non giudico una cosa volgare, è una cosa che è necessaria, però se si rimane lì, l’immaginazione non è servita, l’immaginazione resta spenta. Se resta spenta l’immaginazione, resta spento anche il movimento della vita […]; poi c’è la sfera etica, nel senso che le cose che si fanno hanno un senso per la collettività, per gli altri, e in questi altri c’è da scegliere […]. E c’è un terzo livello, che è il livello… della poesia. Che non è vero che è fuori della politica: è il livello dell’immaginazione […] è la capacità di scegliere nella vita delle cose con un certo criterio e non con altri: con il criterio dettato da te stessa, capisci? Cioè tu non segui in quel caso delle regole. Le costruisci tu, come si costruisce una poesia[25].
L’allargamento della creatività dalla sfera propriamente estetica a quella politica, già al centro della teoria di Hannah Arendt, si ritrova alla base del pensiero di Castoriadis. Nel quale s’insiste sulla dimensione collettiva, sociale, istituita di questa creatività dell’immaginazione. «Immaginario», in Castoriadis, infatti è il nome della dimensione sociale e collettiva che fa da sfondo alla capacità individuale dell’immaginazione in quanto facoltà dell’animo umano[26]. Lo chiarisce molto bene Gianni Vattimo, partendo dalla dimensione storica che sfugge all’ontologia tradizionale:
È proprio l’impossibilità di render conto della storia, intesa come storicità degli individui e delle società, ciò che richiede la critica dell’ontologia identitaria, e il passaggio all’idea dell’essere come creazione dell’immaginario, che non ha niente a che fare con una riduzione della realtà a fantasia arbitraria, ma in cui tuttavia ha un peso decisivo ciò che Platone e Aristotele ci hanno insegnato a chiamare «poiesis», invenzione e creazione appunto – e che nei moderni è diventata la poesia, di cui per lo più si pensa che sia un ambito del tutto diverso dalla realtà[27].
In tal modo Castoriadis invita a riaprire la riflessione sull’immaginario politico della democrazia. Quest’ultima è rivoluzionaria perché comporta una rottura nell’ordine simbolico, cioè la creazione di nuovi significati immaginari sociali. Questa centralità dell’immaginario è inaccettabile al pensiero dogmatico e speculativo che invece presume di avere il monopolio della realtà e della verità. Insostenibile gli risulta, infatti, l’inaccessibilità immediata del reale, del suo essere, del suo significato, della sua origine: il fatto che l’indeterminatezza di ciò che è esiga la creazione del senso. Come ha scritto Maurice Merleau-Ponty, «l’Essere è ciò che esige da noi creazione affinché se ne abbia esperienza»[28]. Ed è proprio la creatività dell’immaginario, la sua produzione di un insieme di significati sociali in risposta alla richiesta di senso degli individui, a porli di fronte alla dimensione pubblica della loro libertà, e quindi alla possibilità dell’autonomia. Quest’ultima si radica esattamente nell’indeterminatezza ontologica che fa da sfondo ai processi reali, e che perciò consegna esclusivamente alla responsabilità storico-sociale la definizione degli assetti istituzionali della vita collettiva.
Il compito della politica consiste nel prendersi cura di questa libertà, nel fornirle senso. Cosa che la modernità tende a fare solo sporadicamente, nel parossismo spasmodico e occasionale rappresentato dall’interruzione rivoluzionaria del tempo storico progressivo. Cui fa seguito l’eclissi della politica, il rimettersi del processo storico all’abituale logica cumulativa della tecnica e dell’economia.
Nel suo «excursus su Castoriadis», Habermas[29] riconosce l’originalità del riferimento alla prassi e alla sua autoregolazione, ma denuncia in Castoriadis la mancanza di un criterio che sia in grado di distinguere validità e significato. A quest’obiezione, Castoriadis risponde sottolineando la centralità della politica intesa come istituzione globale della società. A essa appartiene il compito di creare il nesso tra validità e significato. Cosa che non accade sul piano della razionalità, ma coinvolge ciò che in termini psicoanalitici va sotto il nome di investimento. Per rendere un progetto comune oggetto d’investimento collettivo non basta che esso sia significativo. Esso deve vedere riconosciuta la propria validità. Castoriadis non ritiene che quest’ultima sia suscettibile di una fondazione ultima (perché ciò già presupporrebbe l’adesione al progetto della razionalità), ma ritiene invece che sia compito della politica suscitare il consenso inaugurale nei riguardi di una forma di vita incentrata sulla ragionevolezza e l’autonomia. Ecco perché, se è vero che tutte le creazioni culturali sono uguali in dignità e valore, è solo la creazione greco-occidentale del logos che asserisce, giustifica e fonda la tolleranza e il rispetto per le culture altre. Questa è l’essenza della democrazia.
È contro la dimissione collettiva della responsabilità politica che Castoriadis invita a non rassegnarsi, a combattere. Non già in virtù di una ragione storica – universale, di classe o di genere – che l’insignificanza e il conformismo generalizzato colpevolmente trascurerebbero, bensì in virtù dell’eccellenza intrinseca dell’autonomia, della sua desiderabilità, della sua ragionevolezza. L’autonomia non è un dato naturale, sottratto all’intervento della politica. All’opposto, essa è esattamente istituzione della libertà, perciò essa non è tale se non viene tenuta in vita da istituzioni politiche. E la filosofia è una forma dell’autonomia poiché suo compito è argomentare e diffondere l’eccellenza e la razionalità dell’autonomia come forma di vita.
In uno dei testi tradotti in questo libro, Castoriadis ricorda un celebre luogo freudiano, secondo il quale educare, governare e psicoanalizzare sono le tre professioni «impossibili». L’obiettivo che esse perseguono è infatti rigorosamente estraneo a ogni programmazione o realizzazione proveniente dall’esterno, giacché esse si prefiggono l’autotrasformazione degli esseri umani. Paideia, politica e psicoanalisi hanno un unico compito: fare degli esseri umani i soggetti attivi del proprio cambiamento. Ed è esattamente questa la portata rivoluzionaria della democrazia.
[1] Cfr. Fabio Ciaramelli, Castoriadis e l’istituzione immaginaria della società, «Paradigmi», viii (1990), n. 24, pp. 521-548 e Il problema del senso e il rapporto tra psiche e società in Castoriadis, «Democrazia e diritto», xxxiii (1993), n. 4, pp. 105-122.
[2] Paul Valéry, Sguardi sul mondo attuale, a cura di F. C. Papparo, Adelphi, Milano 1998, p. 51.
[3] Cfr. Dick Howard e Diane Pacom, Autonomy. The Legacy of the Enlightenment: A Dialogue with Castoriadis, «Thesis Eleven» (Sage Publications, London), febbraio 1998.
[4] 4. Joel Whitebook, Requiem for a Selbstdenker: Cornelius Castoriadis (1922-1997), «Constellations», giugno 1998.
[5] Cfr. Bernhard Waldenfels, Verfremdung der Moderne. Phänomenologische Grenzgänge, Wallstein Verlag, Essen, 2001.
[6] E su cui mi sono dilungato altrove; cfr. Le cercle de la création, «Revue européenne des sciences sociales», xxvii (1989), n. 86, pp. 87-104; The Self-presupposition of the Origin. Homage to Cornelius Castoriadis (translated by D. A. Curtis), «Thesis Eleven», n. 49 (1997), pp. 45-68; «Castoriadis» (translated by D. A. Curtis), in A Companion to Continental Philosophy, a cura di Simon Critchley e William R. Schroeder, Blackwell Publishers, Oxford, 1998, pp. 492-503; Human Creation and the Paradox of the Originary (translated by D. A. Curtis), «Free Associations» (Process Press, London), 1999, vol. 7, part. 3 (n. 43), pp. 357-366.
[7] Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto. L’immaginario e le istituzioni, trad. it. R. Currado, a cura di F. Ciaramelli, Dedalo, Bari, 1998, p. 160. Su questo punto si veda in particolare la mia Postfazione, «La creazione dell’autonomia e i suoi presupposti», ibid., pp. 289-309.
[8] Tra il 1949 e il 1965, dalle pagine di «Socialisme ou Barbarie», Castoriadis aveva elaborato e argomentato una critica radicale della burocrazia, dell’economia e dell’ambiguità teorica del marxismo, su cui mi sia permesso di rinviare al mio articolo Una critica libertaria al marxismo: C. Castoriadis, «Il tetto», n. 120, 1983, pp. 601-621.
[9] Cfr. Tony Judt, Marxism and the French Left: Studies in Labour and Politics in France, 1830-1981, Clarendon, Oxford, 1986 (su Castoriadis si vedano in particolare le pp. 189-90 e 196-222) e Dick Howard, Cornelius Castoriadis: Ontology as Political, apparso come Afterword alla seconda edizione del suo importante volume The Marxian Legacy, Macmillan, London, 1988. Cfr. infine, Stephen Hastings-King, On the Marxist Imaginary and the Problem of Practice: Socialisme ou Barbarie, 1952-6, «Thesis Eleven», maggio 1997 (Festschirft per il settantacinquesimo compleanno di Castoriadis). Hastings-King è autore di una ponderosa dissertazione su Fordism and the Marxist Revolutionary Project: A History of «Socialisme ou Barbarie», discussa nel 1999 alla Cornell University.
[10] Cornelius Castoriadis, Bilan, perspectives et tâches, «Socialisme ou Barbarie», marzo 1957, ora in Cornelius Castoriadis, L’expérience du mouvement ouvrier, vol. i, Comment lutter, Union générale d’éditions, coll. 10/18, Paris 1974, pp. 384-386.
[11] Carlo Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 150.
[12] Pietro Barcellona, Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri, Torino, 1997, p. 54.
[13] Ibid., p. 52.
[14] Marshall Berman, L’esperienza della modernità, trad. it. V. Lalli, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 166, nota 20.
[15] Cfr. Cornelius Castoriadis, «L’époque du conformisme généralisé (1989)», in Le monde morcelé, cit., pp. 19-24. Nel volume intitolato La montée de l’insignifiance. Les Carrefours du labyrinthe IV, Seuil, Paris, 1996, si vedano in particolare i seguenti testi: «La crise des sociétés occidentales», pp. 11-26; «Entre le vide occidental et le mythe arabe», pp. 51-57; «Le délabrement de l’Occident», pp. 58-81; «La montée de l’insignifiance», pp. 82-102.
[16] Cornelius Castoriadis, La «razionalità» del capitalismo, infra, pp. 177-206.
[17] Cornelius Castoriadis, «Marxisme-léninisme: la pulvérisation (1990)», in Id., La montée de l’insignifiance, Seuil, Paris, 1997, pp. 40-41.
[18] Claude Lefort, «L’expérience prolétarienne» (originariamente apparso in «Socialisme ou Barbarie», 1952), in Id., Eléments d’une critique de la bureaucratie, Gallimard, Paris, 1979, pp. 71-72.
[19] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana (1958), edizione italiana a cura di A. Dal Lago, Bompiani, Milano, 1990, pp. 94-95.
[20] Ibid., p. 240.
[21] Cornelius Castoriadis, L’enigma del soggetto, cit., p. 77.
[22] Marshall Berman, L’esperienza della modernità, cit., p. 162.
[23] Cfr. Fabio Ciaramelli, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Dedalo, Bari, 2000.
[24] Robert Redeker, Cornelius Castoriadis ou la politisation de l’existence, «Les Temps Modernes», n. 609, (55) 2000, pp. 131-154.
[25] Natalia Ginzburg, È difficile parlare di sé, Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Einaudi, Torino, 1999, pp. 226-228.
[26] Su questo punto, cfr. René Barbier, «Castoriadis et l’imaginaire», in Id., L’Approche transversale. L’écoute sensible en sciences humaines, Anthropos, Paris, 1997, pp. 57-91.
[27] Gianni Vattimo, Castoriadis, l’immaginazione madre della democrazia, «La Stampa», 28 dicembre 1997, p. 21.
[28] Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, a cura di C. Lefort, Gallimard, Paris, 1964, p. 251
[29] Cfr. Jürgen Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 327-335.