[estratto dal Bollettino 57]
La musa libertaria di Georges Brassens
Di Mimmo Franzinelli
Per ricordare e riascoltare Georges Brassens (1921-1981) non serve di certo il doppio anniversario del secolo tondo dalla nascita e del quarantennale della morte. La sua musica, infatti, è un importante ingrediente della vita quotidiana, di cui non si può fare a meno.
Brassens ha adottato un approccio libertario senza sbandieramenti ideologici, nella persistente diffidenza verso il potere, che – in ogni sua forma – snatura le persone e le priva della loro autenticità. Differentemente da Léo Ferré (1916-1993), l’altro grande musicista francese di matrice anarchica, ha evitato canzoni-manifesto, estranee al suo stile, in apparenza dimesso ma in effetti sottilmente penetrante, ben più acuminato di slogan direttamente politici, destinati all’obsolescenza.
Ma lasciamo la parola all’artista, in una tavola-rotonda parigina del 6 gennaio 1969 con Léo Ferré e Jacques Brel: “L’anarchia è difficile da spiegare… Gli stessi anarchici fanno fatica a spiegarla. Quando ero nel movimento anarchico – ci sono rimasto due o tre anni, facevo ‘Le Libertaire’ nel 1945-46-47, e non ho mai rotto completamente, ma in definitiva non milito più come prima –, ciascuno aveva un’idea del tutto personale dell’anarchia. È proprio questo a essere esaltante nell’anarchia: non c’è un vero dogma. È una morale, un modo di concepire la vita, credo…”. La convinzione che ognuno abbia una propria idea di anarchia e il pieno diritto di seguirla coglie una differenza fondamentale tra anarchismo e comunismo. In quella medesima occasione, l’artista ha spiegato di ritenersi comunque impegnato: “Faccio qualcosa per i miei vicini, per i miei amici, nei miei limiti. Penso d’altra parte che valga tanto quanto se militassi in un posto qualsiasi…”. A questo punto, l’agit-prop Ferré aggiunse un’interessante commento, profeticamente autocritico: “Trovo che Georges, nel suo cuore, militi molto più di me. Perché io non credo più a parecchie delle cose a cui voglio credere” (si veda il testo dell’incontro nell’importante dossier Georges Brassens pubblicato sul n. 371 del maggio 2012 di “A rivista anarchica”).
Anche negli anni del successo, ha mantenuto uno stile di vita indipendente, austero e non consumista, fuori dalle mode, con valori propri e non negoziabili. Nel 1953 respinse l’invito del presidente della Repubblica, Vincent Auriol, che lo voleva ospite d’onore a un banchetto al Palazzo dell’Eliseo: nulla di personale, ma non è quello l’ambiente che ama frequentare… D’altronde, la scelta è coerente per l’autore di La mauvaise reputation, che nella solennità della festa nazionale se ne resta a dormicchiare invece di sfilare disciplinatamente in corteo: slogan e marce militari non gli si confanno… Una ballata che, nella Francia dei primi anni Cinquanta, indignò qualche ex combattente, che sporse querela per disfattismo.
Un profondo senso di umanità pervade ognuna delle circa 140 ballate da lui composte e interpretate (in Italia, chi più vedrei affine alla sua capacità di andare all’essenza della vita, è Enzo Jannacci). Il suo minimalismo musicale, moltiplica il potenziale della chitarra acustica e del magistrale contrabbasso di Pierre Nicolas (1921-1990), catturandoci in suggestive ballate senza tempo, tra medioevo e presente. La canzone si fa passione, provocazione, un’insurrezione contro un mondo di regole in cui ci si trova spesso a disagio.
L’antiautoritarismo esistenziale di Brassens ridicolizza le istituzioni e ne mostra i lati nascosti, rivelandone gli osceni e inconfessabili segreti. Ce n’è per Stato e Chiesa, polizia e magistratura, aristocratici e benpensanti…
Alcune canzoni trascendono il loro tempo e dalla sua Francia si estendono ovunque. Attualissima – nell’Italia d’oggi – La ballade de gens qui sont nés quelque part, ovvero la ballata di quegli imbecilli che per essere nati in qualche posto si sentono in diritto di dichiarare guerra a quanti provengono da altri luoghi, e sull’odio etnico costituiscono movimenti politici che li fanno (s)governare…
Mentre nell’area anglofona Brassens non ha avuto grande fortuna, in Italia ha trovato numerosi e validi traduttori. Gli apripista – mezzo secolo fa! – furono Fausto Amodei, Beppe Chierici, Fabrizio De André, Enrico Medail e Nanni Svampa. In tempi più recenti, quella strada è stata imboccata da Andrea Belli & Franco Pietropaoli, Paolo Capodacqua, Alessio Lega, Alberto Patrucco, Giuseppe Setaro…
Se posso esprimere un parere personale, Nanni Svampa è riuscito in modo straordinario a ricreare la magia del Maestro, nella sua Milano popolata da un caleidoscopio di varia umanità. I tre indimenticabili ellepi stampati dalla Durium Nanni Svampa canta Brassens (usciti rispettivamente nel 1965, 1967 e 1971) dimostrano come il dialetto possa meglio rendere, rispetto alla lingua italiana, un gergo francese creativo e fuori dai logori canoni letterari (la controprova, l’ha fornita lo stesso Svampa, nelle successive traduzioni brassensiane in italiano, non altrettanto felici). A proposito, bisognerebbe ristampare anche il volume uscito nel 1991 a Padova presso Muzzio Editore Brassens, Tutte le canzoni tradotte da Nanni Svampa e Mario Mascioli.
E varrebbe la pena di approntare un repertorio discografico e bibliografico del Brassens italiano, anche per scoprire quali sono le sue ballate che più hanno stimolato i nostri artisti.
P.S. Un consiglio a chi apprezza Georges Brassens: ascoltare il suo amico Boby Lapointe (1922- 1972), artista misconosciuto e sfortunato!