[Illustrazione di un panettiere medievale e del suo apprendista]
Storia medievale e anarchist studies
Di Ian Forrest
Non soltanto il passato, ma anche il futuro, non soltanto il futuro ma anche il passato!
Ursula K. Le Guin
I reietti dell’altro pianeta, Mondadori, Milano, 2014, p. 556
Il presente articolo formula due proposte, ovvero che la prospettiva anarchica abbia molto da offrire allo studio della storia medievale, e che la storia medievale, a sua volta, abbia molto da offrire agli anarchist studies. Lo scambio intellettuale tra i due campi è piuttosto scarso: i medievalisti raramente hanno pensato di ricorrere a una prospettiva anarchica come strumento di indagine, e gli studiosi anarchici, in linea di massima, non si sono resi conto dell’importanza del lavoro svolto dagli storici medievalisti rispetto a ciò di cui s’interessano. Non intendo dedicare molto spazio a considerare i motivi di tali circostanze, preferendo descrivere i benefici futuri che i due campi potrebbero trarre da un maggior contatto, ma due aspetti sembrano chiari: anzitutto, nonostante gli interessi storici di molti scrittori anarchici, gli anarchist studies – al momento – sono principalmente un sottocampo di scienze politiche, una disciplina la cui passione per la teoria e le drastiche ripartizioni temporali rende molti storici a dir poco cauti; in secondo luogo, gli anarchici che sono storici si sono tendenzialmente concentrati, con una visione piuttosto ristretta, sulla storia del movimento anarchico e dei suoi esponenti.
Benché sia sempre stato attratto dalle idee anarchiche, e il mio lavoro storico sulle istituzioni e sui popoli nel periodo «tardo medievale» (dal 1100 al 1500 circa) sia arrivato a essere sempre più influenzato dalla prospettiva anarchica, non mi sono esplicitamente posizionato in tal modo, quanto meno non su carta, fino ad ora. Il mio anarchismo accademico non deriva dalla lettura estesa delle teorie e delle interpretazioni dell’anarchismo classico, ma da come la mia iniziale esposizione all’anarchismo ecologista e ad alcune correnti che avrebbero confluito nel cosiddetto post-anarchismo filtrò l’assimilazione della mia formazione da storico, e mi preservò dalla miopia elitaria e dal riduzionismo sociale che trovavo in molta della teoria sociale e politica che peraltro mi interessava. Il presente saggio è dunque un tentativo personale di riflessione sulle potenzialità e sulle implicazioni di una prospettiva anarchica della storia, specificatamente legata al mio campo di studi in storia medievale.
Attingerò alle conclusioni della mia ricerca personale, cercando di provare la potenziale proficuità di una tale collaborazione tramite l’osservazione di alcune tendenze attuali nella scrittura storica medievale; inoltre, collocherò il potenziale di una storiografia anarchica accanto ai recenti sviluppi in antropologia e archeologia, discipline che offrono modalità complementari di studio del passato. Nonostante i numerosi punti di contatto tra le tre discipline, gli storici, e in particolare gli storici medievalisti, hanno qualcosa di distintivo da aggiungere allo sviluppo dell’anarchismo accademico come significativo approccio interpretativo allo studio dell’esperienza e del potenziale umani.
Ma potreste chiedervi: non esiste già parecchia storia dell'anarchismo? Dopotutto, gli anarchici spesso sono molto esperti della storia del proprio movimento, e tanti importanti scrittori anarchici hanno assunto un approccio esplicitamente storico nei confronti di problematiche sociali. Tra gli intellettuali fondatori dell’anarchismo ottocentesco, Pëtr Kropotkin è particolarmente noto per i casi di studio storici da cui elaborò il suo modello di mutuo appoggio, nello specifico ciò che definì le «città libere» dell’Europa medievale. Lo stesso fenomeno era altrettanto centrale nell’immaginario storico di Rudolf Rocker, la cui opera del 1938, Nationalism and Culture, faceva analogo ricorso a una lettura romantica di certi aspetti della storia medievale[1]. Tale interesse fondante per il passato premoderno fu poi ripreso in molte storie dell’anarchismo politicamente affini, specialmente il libro del 1962 di George Woodcock, Anarchism, in cui affermava che la rivolta dei contadini inglesi del 1381 e la Münster anabattista degli anni 1534-35 fossero precorritrici del movimento moderno, nonché nell’ambiziosa storia dell’anarchismo di Peter Marshall pubblicata nel 1992, Demanding the Impossible[2].
Queste storie dell’anarchismo hanno un valore intrinseco. Sono azioni radicali di salvataggio e sopravvivenza. Ma nonostante questi esempi ragguardevoli, l’anarchismo novecentesco non si formò sull’interesse di Kropotkin per il Medioevo, tantomeno sul valore che attribuiva alla storia più in generale. Sebbene le storiografie di Kropotkin e Rocker risultino semplicistiche, oggigiorno persino naif (un aspetto su cui mi dilungherò a suo tempo), l'intuito da loro dimostrato riguardo all’importanza della storia è quasi del tutto scomparso dall’anarchismo accademico, e la scrittura storica accademica si è sviluppata senza alcun contributo apprezzabile delle idee anarchiche. Più di recente, diversi scrittori anarchici, specialmente Peter Gelderloos e David Graeber, sono tornati a confrontarsi con la ricerca accademica sul passato umano premoderno, seppure con una lieve tendenza a scegliere appositamente esempi che rientrassero in una storia prestabilita[3]. L’esiguità del confronto anarchico accademico con la storia è un elemento che ultimamente è stato rilevato da altri autori. Nella storia intellettuale dell’anarchismo stesso, diverse opere recenti hanno dimostrato che inserire autori canonici anarchici in un contesto più ampio potrebbe giovare allo studio della storia del movimento moderno. Nel 2013, Matthew Adams ha portato l’attenzione sull’effetto soffocante che la «purezza» del canone anarchico ha avuto sulla scrittura storica anarchica intellettuale; nello stesso anno, il principale libro di Sho Konishi sui legami intellettuali russo-giapponesi e sull’«anarchismo cooperativo» del tardo Ottocento e primo Novecento ha dimostrato la proficuità dell’ampliamento che Adams propugnava; e nel 2016, la biografia critica di Kropotkin scritta da Ruth Kinna ha offerto un ulteriore esempio dell’approccio contestuale che promette di tirare fuori la storia dell’anarchismo dal suo cul-de-sac autoreferenziale[4]. La caratteristica fondamentale di queste opere è che collocano le idee anarchiche in un contesto intellettuale ampio, anziché presentare ritratti isolati delle personalità di famosi scrittori e attivisti.
Tuttavia, nonostante questa eredità, è interessante notare come oggi esista pochissima storia anarchica rispetto alla storia dell'anarchismo. A causa della sua emarginazione dalla scrittura storica accademica, non è stata sviluppata una prospettiva anarchica come metodo d’indagine storica, come accaduto invece per la storia femminista, che non tratta solo la storia del femminismo, o la storia marxista, che racchiude molto più della semplice storia del marxismo. I due paragoni non sono scelti a caso: gli anarchici possono imparare molto dalla ricchezza della storiografia femminista e marxista, nello stesso modo in con cui hanno alimentato, in varie epoche, le identità di tali movimenti e il loro senso di finalità politica[5]. Buona parte dello studio accademico di entrambe le tradizioni si è tenuto anche al di fuori dell’accademia formale, una pratica e un principio a cui gli anarchici sono particolarmente dediti. Il femminismo, in special modo, ha articolato nuove domande e nuove cronologie, ha proposto nuove fonti e oggetti di ricerca, e ha cambiato i programmi di studio di molti dipartimenti di storia universitari. Tali conquiste sono state raggiunte ritenendo che la comprensione del passato sia determinante per cambiare il futuro: come osserva Judith Bennett, «il potere del patriarcato nelle nostre vite oggi si basa parzialmente […] sulla nostra incapacità di comprensione del suo operare in epoche passate»[6]. Oltretutto, le storiche femministe hanno capito che le domande generate dall’oppressione e dalla disuguaglianza odierne possono condurre gli storici verso una comprensione migliore del passato, vale a dire più completa e critica.
Tradurre i termini di un dibattito sul femminismo all’interno di un dibattito sull’anarchismo non comporta un grande salto concettuale, ed è facilmente intuibile che il commento di Bennett potrebbe essere applicato alla storiografia anarchica. Potremmo dire che le forme di dominio, che inibiscono l’autonomia e la cooperazione, non possono essere adeguatamente riconosciute, comprese e contestate senza una consapevolezza critica delle condizioni in cui il dominio si è verificato nel passato, e dei motivi per cui la sua natura sia mutata così tanto nel tempo e nello spazio.
Ma prima abbiamo bisogno di più storici anarchici, e non ce ne sono molti a disposizione. Nel 2009 David Graeber valutava che ci sono «migliaia di studiosi marxisti, ma pochissimi studiosi anarchici», minimizzando seriamente la presenza di studiosi con simpatie anarchiche in scienze politiche, antropologia e archeologia, ma di sicuro rispecchiando il campo della storia. Secondo Graeber, «non è perché l’anarchismo sia antintellettualista, quanto piuttosto perché non si considera fondamentalmente un progetto di analisi ma un progetto etico»[7]. L’anarchismo, sostiene l’autore, spesso non è stato considerato una prospettiva interpretativa o analitica; di nuovo: sebbene sia discutibile rispetto alle scienze sociali in generale, è piuttosto vero per quanto riguarda la storia. Gli archeologi, colleghi degli storici nello studio del passato umano, hanno solamente cominciato a dimostrare cosa è possibile, e gli ultimi sviluppi nel mio campo di storia medievale suggeriscono che una nuova consapevolezza storica anarchica stia emergendo. Ultimamente è stata varcata una soglia accademica importante, quando nel 2017 la rivista Archaeological Record della Society for American Archaeology ha dedicato un’edizione speciale all’anarchia e all’archeologia; e potremmo parlare di una seconda soglia con la fondazione della rete Anarchist Approaches to the Middle Ages durante l’International Medieval Conference nel 2019 [https://anarchyma.wordpress.com/]. È comunque significativo che i curatori di Archaeological Record, benché uniscano studiosi anarchici e studiosi interessati all’anarchismo, si siano sentiti in dovere di sottolineare che l’anarchismo è stato «a lungo ignorato dagli accademici»[8]. A ogni modo, nonostante il crescente interesse a mettere a frutto le idee anarchiche all’interno di discipline affini, la mancanza di un metodo anarchico d’indagine storica espressamente articolato impoverisce intellettualmente la storia e l’anarchismo più del necessario.
Il presente articolo sostiene la necessità che gli storici adottino un approccio anarchico alla loro materia, e che gli anarchici leggano più storia medievale.
Quali benefici potrebbero trarre gli storici medievalisti adottando una prospettiva anarchica?
Come sarebbe una prospettiva o un metodologia anarchica per gli storici medievalisti, e magari per gli storici in generale? Anzitutto, dovrei dire che non sono qui a proporre una teoria anarchica dell’evoluzione storica, alla maniera della versione anarchica di Alan Carter dell’applicazione della filosofia analitica di Gerry Cohen alla dialettica storica marxista[9]. La mia agenda è più pratica per procedere a fare storia in modo anarchico. Esistono così tante correnti fertili e immaginative nel pensiero e nella pratica anarchici – all’interno dell’accademia, come nell’attivismo, o nell’arte, dove il confronto con la ricerca e la scrittura anarchica è possibile –, che tutto ciò che dico qui deve essere considerato personale e provvisorio: prima di tutto, quanto scrivo è una riflessione sul mio lavoro di storico. Ma comincerò citando tre esempi incoraggianti da cui gli storici potrebbero imparare: due antropologi già letti dai medievalisti, ossia James Scott e David Graeber, e il movimento emergente di archeologi anarchici, tra cui il Black Trowel Collective. Insieme forniscono punti di partenza istruttivi per pensare a una storia anarchica che non sia solo storia dell’anarchismo.
Il sottotitolo del libro di Scott del 2009, The Art of Not Being Governed, è «una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico», ed esamina le società delle montagne e delle foreste che in epoca moderna resistettero allo Stato. L’antropologo americano è stato fortemente influenzato dallo studio classico di Pierre Clastres sugli abitanti della foresta amazzonica, Society against the State, e dal nome «Zomia» coniato dal geografo Willem van Schendel per designare una regione montuosa transnazionale che si estende tra i confini dei moderni Stati della Cambogia, del Laos, del Vietnam, della Birmania e della Cina[10]. La Zomia di Scott è abitata, così sostiene l’antropologo, da popoli che fuggirono dai progetti di controllo statale delle pianure, adottando pratiche economiche, sociali e culturali per tenere lontano gli Stati e soffocare le disuguaglianze di potere. In quanto opera di storiografia anarchica, è particolarmente eccezionale perché assume un approccio anarchico non solo nei confronti dei popoli presumibilmente senza Stato, ma anche nei confronti delle storie degli Stati che suscitarono la loro comparsa; due temi su cui tornerò più nel dettaglio a breve. The Art of Not Being Governed ha suscitato molte critiche e discussioni nel campo di studi del Sud-est asiatico, con un chiaro invito da parte di un esperto a rinvigorire la «venerabile prospettiva anarchica» di Scott, un approccio «pressoché scomparso dalla scrittura accademica»[11].
Nonostante i principali interessi di Scott risiedano nel ventesimo secolo, la sua è un’antropologia molto storica, e la sua analisi si estende fino al diciannovesimo secolo, oltre ad alludere a periodi precedenti; il ché costituisce un invito al confronto e rende il suo lavoro molto affascinante, ma non ha del tutto la «profondità temporale» che creerebbe subito un dialogo con gli storici del passato premoderno. A ogni modo, le sue precedenti idee relative a «i verbali segreti» e «le armi dei deboli» hanno già avuto una forte influenza sulle ricerche di storia medievale[12], pertanto una certa familiarità con il suo lavoro potrebbe incoraggiare i medievalisti a iniziare a considerarsi studiosi anarchici. Per di più, come suggerirò a tempo debito, il concetto di «Zomia» (o forse le «zomie» astutamente indefinite) offre ai medievalisti grandi possibilità su cui lavorare, poiché nel periodo attorno al 500 e il 1500 d.C. gli spazi non governati erano tanto diffusi quanto quelli governati, eppure gli storici hanno dedicato ai primi molta meno attenzione[13].
Al di là della sua portata popolare e accademica più ampia, Graeber è un altro antropologo anarchico letto e discusso in particolare dai medievalisti, specialmente il suo libro del 2011 sulla storia del debito che, trattando alcuni aspetti della vita economia e culturale medievale in una veloce carrellata della storia del mondo, di recente è stato al centro di una conferenza organizzata da storici medievalisti[14]. La propensione di Graeber per la lettura di storia medievale (così come di una serie di altre materie) è l’impronta del suo approccio eclettico, che dimostra come la ricerca recente sul passato lontano possa essere utile agli anarchici. Tuttavia, Graeber tende a far rientrare gli esempi nella sua macro-idea (un tantino alla maniera dell’altro grande pensatore sociale assetato di storia, Charles Tilly), e credo si possa dire che il suo approccio sintetico sia sostanzialmente inteso a provocare gli storici affinché conducano ulteriore ricerca, proprio come il suo pamphlet del 2004, Fragments of an Anarchist Anthropology, era rivolto alla disciplina in cui si è formato[15]. Gli storici medievalisti del credito e del debito potrebbero mettere in discussione alcune conclusioni di Graeber, in particolare sul presunto potere del debito di scacciare altri modelli – più reciproci ed egualitari –, ma dovrebbero accogliere il radicalismo con cui ha infuso il significato morale di ogni debito (non solo l’usura) all’interno del dibattito storico. È una radicale apertura della materia che poteva provenire solo da una prospettiva anarchica: «Alla fine, che cos’è un debito?»[16].
Insieme agli antropologi, anche gli archeologi sono arrivati a essere attratti dai modi di pensare anarchici. Nel 2016, il Black Trowel Collective ha lanciato un manifesto per un’archeologia anarchica, come «modo alternativo di pensare al passato e di considerare i nostri metodi e le nostre pratiche nel presente»[17]. Come prospettiva attraverso cui pensare e studiare il passato, ha molto da offrire a chiunque sia interessato a un modo di concepire la storia radicalmente umano. Il manifesto suggerisce un’archeologia che non dia per scontato che la complessità organizzativa derivi esclusivamente dal «controllo dell’élite», che ricerchi le tracce di resistenza così come l’esercizio del potere, e che ponga domande critiche riguardo le proporzioni e l’agentività della vita umana; inoltre, formula proposte sui modi in cui l’archeologia dovrebbe essere condotta, come studio non gerarchico e inclusivo del mondo umano e non-umano. Per quanto non siano ancora esattamente convenzionali, gli approcci anarchici all’interno della comunità archeologica godono di un buon sostegno, che ha potenziale di crescita. Forse perché quando gli archeologi passano dal pensare agli oggetti al pensare alle persone, si posizionano più spesso a fianco di queste ultime, al contrario degli storici, che tendono a osservare i loro «soggetti» dagli alteri archivi del potere statale[18]. Tale tendenza ha incoraggiato alcuni archeologi a riflettere attraverso concetti tratti dalla teoria anarchica. Per esempio, sia James Flexner, scrivendo a proposito dell’archeologia delle isole del Pacifico, sia Matthew Sanger, che scrive del probante potenziale che si trova negli studi etnografici tradizionali, fanno uso creativo dell’idea di «contropotere», il meccanismo con cui la gerarchia viene abolita e disincentivata all’interno di società non gerarchiche[19]. Anche se con un vocabolario diverso, è quanto ha cercato d’illustrare anche l’antropologia del Sud-est asiatico di Scott. Sono progetti di analisi che attingono a una varietà di modelli intellettuali, e sono in grado di rispondere agli imprevisti del luogo, delle prove documentarie e del metodo, ma che sono realizzabili – in maniera determinante – assumendo una visione anarchica del mondo.
Prendendo ispirazione da antropologi e archeologi, così come dalla ben più profonda tradizione di scrittura contro il dominio nella storiografia femminista, passerei ora a illustrare tre esempi di materie in cui la storia medievale potrebbe essere rivitalizzata assumendo una prospettiva anarchica: la storia di spazi «non statali» o zomie, la storia di dominio e disuguaglianza, e la storia di Stati e istituzioni. Sono meramente gli argomenti che mi interessano al momento, e non ho alcuna pretesa di sorta che siano le tematiche «giuste», «migliori» o le uniche che trarrebbero beneficio da un approccio anarchico. Ci sono anche enormi potenzialità per le modalità anarchiche d’indagine storica in ogni ambito della storia culturale, e – forse in modo più proficuo e immediato – in storia ambientale, un campo in cui i concetti di Antropocene e Capitalocene stanno stimolando un nuovo orientamento radicale rispetto a come concepire e interrogare il passato umano, per esempio nel lavoro dell’archeologa Theresa Kintz e in quello della storica Amanda Power[20].
Spazi non statali
Lo studio degli spazi non statali sul modello di Zomia di Scott sta cominciando a proliferare tra gli archeologi, inclusi quelli sopracitati, così come tra alcuni storici premoderni. Nello specifico, Peter Thonemann ha dimostrato l’utilità del modello di società anarchica di Scott per reinterpretare le regioni a lungo (in)comprese in termini di fallimento o collasso. Thonemann presenta un caso dettagliato per ripensare la storia dell’antica Frigia (l’Anatolia centrale intorno al 500 e il 100 a.C.), dove un precedente apparato statale urbano e letterato si trasformò in una «società cellulare agro-pastorale, post-letterata, post-urbana, altamente frammentata»[21]. Ipotizzando che gli antichi Frigi fossero un popolo raziocinante che cercò di mantenere uno stile di vita accettabile – anziché gente stupida e ignorante che respinse la giusta maniera di fare dei Romani –, Thonemann riesce a restituirgli agentività e importanza storiche significative, trovando che il rifiuto consapevole della gerarchia e del potere centralizzato descriva meglio le testimonianze dei Frigi rispetto a un modello di fallimento e declino.
Tenendo a mente questo esempio, forse è attraverso le storie di tali regioni, sia quelle dove gli Stati non arrivano, sia quelle in cui le gerarchie coercitive sarebbero state rifiutate a favore di un altro stile di vita, che un approccio anarchico potrebbe farsi strada più velocemente. Questo significherebbe relegare l’importanza del potere centralizzato alla definizione delle domande degli storici, nonché ammettere la possibilità che i popoli scelgano di non vivere sotto la «protezione» dello Stato, preferendo un’esistenza più autonoma ed egualitaria indipendentemente dai pericoli concomitanti[22]. Oltretutto, se volessimo estendere la discussione teorica oltre la tesi di Zomia formulata da Scott per incorporare altri elementi del pensiero anarchico, gli storici scoprirebbero che i suoi concetti basilari, come l’eterarchia, le comunità acefale, la confederazione, il contropotere e il metodo del consenso, sono utili strumenti per riflettere sulla storia degli spazi non governati[23]. Non esorterei gli storici ad accettare tali idee acriticamente (in proposito, si veda la sezione finale del presente articolo), bensì a usarle per contestare le ortodossie apprese e generare domande che poi possano essere indirizzate alle nuove serie di prove documentarie esistenti.
Ciononostante, scrivere la storia di luoghi dove gli Stati e le gerarchie sono assenti o minimi si scontra con problematiche di prove e interpretazione. Dove non arriva il potere centralizzato, è meno facile che le vite delle persone lascino tracce documentarie, rendendoci così necessario l’utilizzo dei registri di Stato contrariamente ai suoi stessi fini. È un lavoro in cui gli storici medievalisti sono già esperti, avendo utilizzato registri governativi e legali per studiare ogni genere di sovversione, «devianza» e stile di vita minoritario, ma la sfida cresce a mano a mano che ci allontaniamo dai territori centrali dei sistemi politici medievali[24]. Qualche possibilità la offre l’utilizzo degli archivi privati dei commercianti medievali quali testimonianze del carattere delle regioni non governate, e la scrittura storica e di viaggio, specialmente all’interno della tradizione islamica di Ibn Fadlan e Ibn Khaldun, potrebbero offrire altro ancora. Ma le testimonianze scritte hanno i loro limiti[25]: i resoconti di commercianti e viaggiatori degli spazi non governati ritraggono in modo spiccato un «altro» immaginato su cui si edifica la visione della loro stessa civiltà[26].
Utilizzare le testimonianze archeologiche, con cui devono familiarizzare gli storici degli spazi non statali se vogliamo lasciarci alle spalle gli archivi istituzionali, può essere nondimeno problematico. Per esempio, uno degli elementi che secondo Thonemann dimostra il ritiro del potere statale nell’antica Frigia è la scomparsa dell’architettura monumentale dalla regione all’indomani dell’invasione persiana[27]. Nel caso che descrive l’ipotesi funziona in maniera convincente, laddove il ritiro dello Stato era legato alla deurbanizzazione, ma altrove l’assenza di strutture monumentali si verifica all’interno di fiorenti culture urbane, come si vede chiaramente in Africa occidentale tra l’800 e il 1400 a.C. Qui la prova materiale – lo schema spaziale composto da strutture e insediamenti e dall’assenza di edifici pubblici principali – è stata interpretata da Roderick McIntosh come un paesaggio «autorganizzato» ed eterarchico[28]. Resta solo da vedere quanto possa dimostrarsi utile la tesi di Zomia nei casi di complessi urbani presumibilmente non gerarchici. Nell’ottica di porre domande anziché saltare a conclusioni, dovremmo riconoscere anche altre configurazioni dell’organizzazione e dell’architettura sociali: a un estremo dello spettro, troviamo la cultura senza Stato che produsse gli imponenti broch di pietra della Scozia occidentale, delle Ebridi e delle isole del Nord tra il 150 a.C. e il 150 d.C.; all’altro estremo, abbiamo gli imperi nomadi delle steppe euroasiatiche e delle pianure nordamericane che si avvalevano soprattutto di tende, le quali non lasciano alcuna traccia archeologica in confronto alle dimore fisse[29].
Oltre a problematiche di prove, la tesi di Zomia solleva anche questioni d’interpretazione, che sono di due generi. Anzitutto, le presunzioni di relazioni sociali egualitarie e fuga dello Stato possono sempre essere contestate su basi empiriche: gli studiosi possono proporre prove alternative e interpretazioni alternative delle prove. In secondo luogo, anche se gli storici concordano sull’esistenza di una società egualitaria, ne consegue che tale società si realizzò intenzionalmente, a seguito di sforzi consapevoli per resistere alla comparsa della gerarchia e allo sconfinamento del potere governante?
Tuttavia, nel riconoscere questa contestazione metodologica dovremmo mantenere il senso della prospettiva, tenendo a mente che lo studio del potere statale verticale è saturo esattamente dello stesso tipo di funzionalismo normativo: l’ordine si realizza perché era presumibilmente intenzione dei governanti. Gli storici medievalisti potrebbero anche provare a formulare nuove interpretazioni di prove note, come le frequenti denunce comunitarie ai tribunali ecclesiastici nei confronti dei vicini che lavoravano di domenica, generalmente considerate prove del fatto che i contadini medievali avessero interiorizzato il tempo ecclesiastico. Dato che tali denunce a volte sono accompagnate da osservazioni pungenti sul profitto materiale e sull’arricchimento personale, in realtà potrebbero essere interpretate come uno strumento di prevenzione della comparsa di dannose gerarchie patrimoniali[30]. La disuguaglianza potrebbe essere stata gestita in tal modo perché, come ha suggerito il sociologo Richard Sosis, i comportamenti religiosi sono «più convenienti da monitorare rispetto ad altre attività» che si svolgono in spazi delimitati in momenti specifici[31].
Un certo grado di familiarità, o almeno di somiglianza familiare, potrebbe disporre favorevolmente i medievalisti a servirsi della tesi di Zomia formulata da Scott. Per molti aspetti si basa sulla famosa caratterizzazione di Fernand Braudel dell’autorità feudale, che «ha lasciato fuori dalle sue maglie la maggior parte delle zone montane», un’idea che ha già stimolato parecchie ricerche[32]. Se Braudel e Scott si sono concentrati sulle montagne, senza dubbio gli storici troverebbero interessante esplorare l’esistenza e il carattere degli spazi non governati sulle isole, nei deserti, nelle steppe e nelle aree paludose, o persino in piccole sacche all’interno di paesaggi insediati e governati molto più intensamente[33]. Sarebbe comunque importante non erigere un modello troppo deterministico che collega territori specifici a certe forme di organizzazione sociale. Un approccio storico comparativo rispetto alle zomie dovrebbe poter contenere e spiegare le foreste e le paludi dove gli Stati erano in grado d’intervenire, e forse anche le pianure coltivabili dove non arrivavano. Sarebbe essenziale mantenere uno sguardo aperto e un modello flessibile. Questa potenziale varietà, infatti, si accompagnerebbe meglio al concetto di «regimi socio-ecologici» dei geografi, secondo cui gli esseri umani (e potenzialmente la loro storia) partecipano a un ecosistema, anziché reagirvi semplicemente[34]; una terminologia e un approccio integrato che di fatto sono stati introdotti dallo storico economico medievale Bruce Campbell[35].
Dominio e disuguaglianza
Oltre che alla storia degli spazi non governati, l’anarchismo offre moltissimo anche agli storici della disuguaglianza nel Medioevo. Lo studio dei gruppi non elitari nell’Europa medievale è stato condotto per lo più da storici sociali ed economici, producendo approfondimenti straordinari degli stili di vita e della mentalità locali, tra cui le pratiche diffuse di reciprocità, ma i meccanismi del potere e della subordinazione non hanno ricevuto l’accurata attenzione che meritano. Questa situazione è in parte il risultato di una specializzazione eccessiva che porta storici sociali/economici e politici a pensare di fare due cose completamente differenti, ma è anche influenzata – a mio avviso – dall’incapacità collettiva dei medievalisti di porre domande su alcuni dei più importanti elementi della vita all’epoca, vale a dire la classe e, in minor misura, le disuguaglianze di genere, la subordinazione e il dominio. Nonostante il gran lavoro di ricerca sulla struttura delle società contadine, gli storici medievalisti le hanno tendenzialmente considerate solo in quanto tali – come cornici strutturali –, dandole per scontate e non sottoponendo all’analisi la loro genesi e il loro sviluppo con la sistematicità che meritano.
Noi medievalisti abbiamo bisogno di modificare la nostra percezione della rilevanza, prendendo ispirazione da altri movimenti per cambiare l’oggetto della storia. La tradizione anarchica fornisce dei modi freschi e rigeneranti di pensare alla rilevanza nella storia, grazie al suo punto di vista politico e morale. La politica anarchica del cambiamento rivoluzionario offre agli storici una prospettiva utile della rilevanza politica: al contrario del marxismo, che rinvia un cambiamento sociale significativo a un tempo futuro a seguito di una rivoluzione violenta in cui sono sacrificabili vittime collaterali in nome del destino storico, molti anarchici vedono la rivoluzione come una politica di trasformazione personale e sociale immediata, ridefinendo gli schemi dell’interazione sociale ora, anziché nel futuro. Questa «politica prefigurativa» deriva da e incoraggia valori partecipativi e non gerarchici, un forte senso di eguaglianza, e la convergenza della resistenza femminista, antirazzista e LGBTQ+ all’interno dell’odierno movimento «post-anarchico». Ciò che unisce questa libera confederazione di attivisti e pensatori è l’individuazione di forme di dominio molteplici e interconnesse[36]. Riprendendo e criticando le teorie liberali di «intersezionalità», gli anarchici cercano di creare collegamenti tra forme di dominio che spesso sono considerate – nelle società liberali e nella scrittura storica – funzionanti in maniera distinta, e che vengono affrontate in modi che ostacolano la nascita di un vero radicalismo (nel senso di affrontare la radice dei problemi, tanto nella politica sociale quanto nella scrittura storica)[37]. Nell’opposizione a tale separazione d’interessi tra oppressi, l’anarchismo apre uno spazio in cui il sistema e le esperienze personali di dominio e disuguaglianza possano essere studiati in maniera olistica, e in cui sia possibile fare una valutazione critica del ruolo dello Stato nel fomentare la discriminazione e la disuguaglianza; qualcosa mai visto nell’intersezionalità liberale. In questo contesto, potremmo dire che la rilevanza storica sia il bene inalienabile di ogni persona, non una prerogativa della presenza più visibile o della voce più sonora nella stanza o nell’archivio.
A ogni modo, non disponendo ancora di un approccio anarchico alla storia perfettamente sviluppato, dobbiamo rivolgerci ad altri movimenti più esperti nell’analisi storica, per vedere cosa potrebbe significare. Come già detto, il femminismo è tra i primi di questi movimenti. Gerda Lerner scrisse nel 1979: «Solo una storia che si basa sul riconoscimento della costante imprescindibilità delle donne nello svolgimento della storia, e sul fatto che uomini e donne sono la misura della rilevanza, sarà una storia veramente universale»[38]. L’interesse a mettere in discussione la «misura della rilevanza» da un punto di vista radicale era inizialmente condiviso da femminismo e anarchismo, sebbene esista un’estesa storiografia femminista che realizza tale desiderio e pochissima letteratura anarchica che possa vantare una simile conquista[39]. Ciononostante, sarebbe proficuo stabilire un approccio anarchico alla storia basato sulle conquiste del femminismo e porsi la domanda radicale: chi o che cosa costituisce la misura della rilevanza nell’indagine storica?
È possibile che una confluenza di approcci femministi e (presunti) anarchici alla storia medievale crei più collegamenti tra i sottocampi piuttosto atomizzati in cui operano gli storici sociali, amplifichi l’attenzione storica rivolta alle persone subalterne, e insieme abbia un maggiore impatto sulla scrittura storica convenzionale. Benché sia vero che le femministe abbiano esplorato le variazioni dei presupposti del patriarcato in molti modi dettagliati, e che esistano numerosi studi incentrati sulla rivelazione e spiegazione delle esperienze di figli abusati, prostitute, mendicanti e altri gruppi molto marginali, due elementi hanno smorzato l’impatto di questo campo di studi umano compatibile con l’anarchismo[40]. Anzitutto, la storia delle donne medievali tende in generale a tornare sulle donne di cui abbiamo maggiori testimonianze, vale a dire quelle appartenenti all’alto ceto contadino, al ceto medio cittadino e alle élite nobiliari. Quali siano le donne a rappresentare la misura della rilevanza è una questione data troppo per scontato. In secondo luogo, per la maggioranza degli storici sociali ed economici che studiano prevalentemente gli uomini, la storia delle donne è una componente aggiuntiva separata e opzionale, e la misura della rilevanza spesso rimane ostinatamente maschile.
Un approccio anarchico al dominio e alla disuguaglianza nel Medioevo offre la possibilità di ricalibrare la misura della rilevanza su vasta scala. Sempre prendendo spunto dal femminismo, i medievalisti anarchici farebbero bene a trovare un compromesso umano e consapevole tra il riconoscere la molteplicità dei valori con cui donne e uomini hanno vissuto nelle società passate, e il dare per scontato che determinate condizioni – come la povertà, la schiavitù, l’agentività subordinata, l’abuso sessuale, la violenza e via dicendo – siano a priori condizioni di esistenza indesiderabili che richiedono una spiegazione storica. Non importa che nel Medioevo certi potenti discorsi di subordinazione e dominio fossero generalmente considerati naturali, persino da alcune delle loro vittime; gli storici dovrebbero cercare di comprendere e spiegare le esperienze dei dominati, anche se questo comporta posizionarci laddove l’archivio tace. Se davvero vogliamo uniformare la «misura della rilevanza», dobbiamo affrontare argomenti che i nostri archivi tendono a nascondere piuttosto che documentare. Adottare una tale prospettiva critica anarchica è necessario per non sentirci mai convinti troppo facilmente di essere riusciti a comprendere le cause e il significato sociale del dominio.
Come potrebbe essere in pratica? Prendiamo, per esempio, la storiografia della ribellione e della rivolta che ha avuto uno sviluppo florido grazie all’identificazione degli storici con i ribelli, offrendo una prospettiva della storia in cui la misura della rilevanza è effettivamente ampia. I principali storici (specificamente uomini) – come Rodney Hilton in merito alla rivolta contadina inglese del 1381, Eric Hobsbawm in merito ai «banditi sociali» del diciannovesimo e ventesimo secolo in Italia, Boris Porshnev in merito alle rivolte francesi del diciassettesimo secolo, e Edward Thompson in merito alle agitazioni della classe operaia nell’Inghilterra industriale – scrissero tutti da marxisti, mettendo sul palco della storia attori con cui, in un modo o nell’altro, s’indentificarono[41]; eppure, le loro visioni della storia avevano limiti significativi. Le rivolte erano spesso guidate dalle élite locali che mantenevano la disciplina con la violenza. La rivolta contadina del 1381 è un esempio calzante: i capi dei ribelli vengono mostrati come dignitari del villaggio e datori di lavoro da quattro soldi in cerca di successo[42]. Questo sapere, tuttavia, non si è tradotto in un lavoro storico sulla violenza e sul dominio all’interno della ribellione, lasciando che la «storia dal basso» di Hilton privilegiasse l’agentività delle persone che – a dire il vero – erano le élite patriarcali della loro piccola patria. Che ne è stato dei servi, dei giovani e delle giovani non sposati, dei poveri senza terra, degli infermi e così via, la cui partecipazione alla ribellione è stata eclissata dai ribelli di cui abbiamo maggiori testimonianze? Va detto che gli storici della ribellione hanno fatto un gran lavoro disponendo di fonti difficili, ma la loro idea di ciò che è rilevante troppo spesso è ricaduta su uno standard di mascolinità normodotata e potere locale. Per chi non si immerge nella lettura della storia sociale ed economica medievale, a questo punto vale la pena osservare che per quanto le fonti tramite cui possiamo conoscere queste persone emarginate siano fastidiosamente taciturne, esse esistono (in particolare, tra registri giudiziari e dati archeologici): gli storici non possono biasimare le fonti che hanno a disposizione a causa della propria incapacità di porre determinate domande.
Il movimento anarchico ha avuto i suoi problemi con il predominio maschile (così come con il privilegio bianco)[43], ma l’attenzione verso le molteplici forme di dominio ricorda bene agli storici che il potere non è mai singolare o unidirezionale, in qualsiasi contesto storico e chiunque sia scelto come agente storico. Inoltre, gli storici delle rivolte potrebbero trarre molto beneficio dalla teorizzazione e dalla pratica anarchica delle sue lotte politiche moderne, in cui prevale l’importanza di obiettivi e strumenti diversi[44]. Le ribellioni medievali europee – quantomeno quelle di cui abbiamo maggiori testimonianze – rivelano un mondo della politica popolare in cui la pletora di idee radicali e a volte contraddittorie vorticava attorno alla mobilitazione di massa dei contestatori. Nell’Inghilterra del 1381, per esempio, l’opposizione alla tassazione, le invocazioni della fine di ogni egemonia (salvo quella del re) e di ogni potere ecclesiastico (eccetto quello dell’arcivescovo di Canterbury), l’abolizione della servitù della gleba, mormorii ereticali, e le esecuzioni di avvocati e pubblici ufficiali emersero insieme a massacri xenofobi, appelli di conformismo religioso, violenza estrema contro chi resisteva alle requisizioni dei rivoltosi, e azioni di retroguardia da parte di élite contadine che si opponevano ad aspetti del potere governativo ma che volevano fortemente proteggere la propria insignificante autorità[45]. Gli approcci anarchici rispetto all’organizzazione priva di comando potrebbero anche porre domande provocatorie agli storici interessati alla crescita e alla diffusione dei movimenti sociali premoderni.
Stato/Istituzioni
È piuttosto evidente quale sia il valore di una prospettiva anarchica per gli storici degli spazi non governati, del dominio o delle ribellioni, ma forse è meno chiaro cosa potrebbe offrire tale prospettiva alla storia dello Stato e delle istituzioni del periodo medievale; tuttavia, credo che un approccio anarchico sia essenziale per comprendere l’argomento. Nella mia personale ricerca in storia sociale delle istituzioni politiche e religiose, principalmente nell’Inghilterra tardo-medievale, trovo necessario oppormi attivamente all’ostinato presupposto di molti storici secondo cui l’espansione degli Stati centralizzati e delle istituzioni sia un fenomeno positivo; in questo, l’anarchismo aiuta. Non intendo dire che gli storici facciano aperte dichiarazioni a sostegno del ruolo del potere statale, o che addirittura – forse – lo riconoscano intenzionalmente, ma la tacita convinzione della giustezza e della naturalezza degli Stati è un elemento pressocché indelebile in gran parte della scrittura storica. È un presupposto che si deve riconoscere e nominare prima di poterlo svelare e contrastare, un’idea originata dalla lunga tradizione storiografica secondo cui la spiegazione del potere statale («storia costituzionale») rappresenta la giusta occupazione degli storici.
Nonostante le numerose criticità e revisioni della storia costituzionale, gli storici della politica continuano a lavorare alla sua ombra. È un modo di scrivere dello Stato altamente teleologico e ottuso: l’espansione dello Stato è trattata come un «bene» che non giustifica una valutazione critica, poiché in buona parte della storiografia liberale e delle scienze sociali gli Stati moderni sono considerati – tutto sommato – positivi, o migliori delle alternative, per quante ingiustizie possano commettere. Questa idea è stata contestata da molti scrittori anarchici, tra cui Rocker, il quale scrisse che «chi crede di non poter esistere senza la forza organizzata impersonificata dallo Stato, deve essere pronto ad accettare tutte le conseguenze di questa credenza superstiziosa»; sentimento condiviso dalla recente osservazione del filosofo Jan Philip Reemtsa, secondo cui una “persistente fiducia nella modernità continua nonostante la nostra consapevolezza che non sia quanto presumessimo” con la sua violenza sistematica e il suo assegnamento al dominio[46]. Le teleologie statuali raramente sono indagini della capacità di sorveglianza, normalizzazione o genocidio, anche se le storie di eresia e degli ebrei nell’Europa medievale si sono mostrate interessate a tali argomenti[47].
Gli storici delle istituzioni e dello Stato sono particolarmente abili in questa sorta di autoinganno o di omissione acritica. Spesso lasciamo che la nostra attenzione venga catturata dalle azioni e dalle testimonianze dei potenti, escludendo altre prospettive. Come ha scritto Scott, «la condensazione della storia, il nostro desiderio di narrazioni pulite, e il bisogno delle élite e delle organizzazioni di proiettare un’immagine di controllo e risolutezza, tutto cospira per veicolare una falsa immagine della causalità storica»[48]. Lo vediamo nel linguaggio utilizzato per descrive i cambiamenti nella storia del potere statale: i verbi «espandersi» e «decadere» definiscono lo schema binario positivo/negativo in un’infinità di libri storici accademici e non, mentre i sostantivi astratti come «consolidamento» e «frammentazione» e aggettivi come «forte» e «debole» si aggiungono al discorso normativo in cui viene abitualmente scritta la storia politica. Occorre una visione anarchica del mondo per opporsi al peso di una tale tradizione acquisita.
La fondamentale intuizione anarchica sulla natura dello Stato comporta un giudizio di valore e un percorso di analisi. Il giudizio di valore è che un governo è una forza negativa all’interno della società umana, e che l’espansione degli Stati ha bloccato altre traiettorie con esiti potenziali più desiderabili. Il percorso di analisi nasce dall’apertura e dall’attenzione anarchica rivolta ad altre forme di organizzazione sociale e politica, le eterarchie studiate dagli archeologi, il sindacalismo del diciannovesimo e ventesimo secolo. Gli anarchici sanno che l’ordine e addirittura un sistema organizzativo possono esistere senza governo, e sono altamente sensibili alle predazioni del potere governante nei confronti di individui, classi e comunità.
Se gli storici medievalisti si preparassero a resistere alle tradizioni acquisite dalla storia costituzionale, in maniera più consapevole e da una prospettiva anarchica, sarebbero più propensi ad aprire alla ricerca storica uno spettro più ampio di esperienze passate, principalmente le esperienze di coloro che subirono le conseguenze della formazione dello Stato e delle istituzioni. Con ciò sto esortando un cambiamento dei presupposti più radicale rispetto a quello ottenuto dalle revisioni marxiste e liberal-democratiche della narrazione costituzionale dominante. Nella gran parte della storia politica e istituzionale tradizionale le persone appartenenti a gruppi non elitari sono coloro che subiscono, il mondo passivo che i potenti plasmano e governano. In reazione a tutto questo si formò l’interesse degli storici marxisti – tra cui quelli sopracitati – per gli straordinari momenti rivoluzionari in cui «il popolo» diede l’idea di salire sul palco della storia (solo per abbandonarlo rapidamente, in molti casi); mentre un’altra reazione giunse dagli storici liberal-democratici, che inserirono le persone comuni nella storia di creazione dello Stato «dal basso». Contrariamente alla scrittura marxista sulle rivoluzioni, storici come Peter Blickle e James Masschaele hanno visto «il popolo» come una presenza più costante nella storia politica (rispetto a quella economica e sociale), che svolgeva funzioni statali minori legate alla tassazione e al disciplinamento normativo e sociale[49]. La loro è stata un’innovazione ben accolta, ma insufficiente a problematizzare il fatto che la creazione dello Stato e la ricerca del potere costituiscono la giusta e indiscussa occupazione degli storici. Il ruolo svolto dalle persone comuni nella creazione dello Stato – e implicitamente nello Stato stesso – fu celebrato come una grande conquista per l’umanità: la loro rilevanza storica coincise con il contributo che diedero all’espansione dello Stato.
Una simile attitudine non lascia spazio all’indagine storica degli effetti dell’espansione dello Stato, sia sui membri delle classi inferiori che vi contribuirono, sia su coloro che ne subirono l’impatto diretto e indiretto. Una prospettiva anarchica che metta in risalto gli effetti negativi del governo è enormemente utile per ricordare di porre domande più critiche, tra le quali potrebbe esserci una rivalutazione del ruolo storico svolto da alcune delle persone che effettivamente contribuirono alla formazione dello Stato e delle istituzioni. Per esempio, osservando i limiti e il potenziale dell’approccio orientato alla «creazione dello Stato dal basso», di recente ho scritto del ruolo svolto dalle élite contadine nella formazione della chiesa istituzionale nel Medioevo: esse furono necessarie alla chiesa e maturarono capitale sociale facendo da intermediari locali, creando così un legame simbiotico con il potere. Ma insieme a questi vantaggi collettivi, i singoli membri dell’élite contadina scoprirono che le loro vite non erano mai state così controllate, i loro comportamenti sessuali così monitorati e giudicati, e le loro idee anomale bollate come eretiche. Inoltre, l’individuazione d’informatori e tutori dell’ordine «affidabili» nell’élite di un piccolo villaggio si basava su e inaspriva le innumerevoli disuguaglianze dell’epoca tra il tredicesimo e il quindicesimo secolo, in particolare l’esclusione delle donne da una sfera pubblica in evoluzione[50]. La creazione delle istituzioni coincise chiaramente con la promozione delle disuguaglianze.
Abbiamo bisogno di più storie femministe e anarchiche del potere e delle istituzioni. Una prospettiva anarchica che rifiuti completamente l’idea che l’accentramento del potere politico sia intrinsecamente desiderabile offre un’alternativa talmente radicale ai presupposti, spesso inarticolati, della storia politica che gli storici che l’adottano potrebbero chiedersi con più facilità cosa stanno studiano e perché. Come sostenuto di recente dall’archeologo Stuart Rathbone, «i valori capovolti dell’anarchismo costringono una rivalutazione radicale di molti presupposti fondamentali sulla società umana»[51]. Per tutti coloro che studiano il passato umano, identificare ciò che cerchiamo di spiegare è – inevitabilmente – una scelta politica e morale. Il privilegiare determinate tematiche e domande rispetto ad altre ha conseguenze politiche, persino se nasce semplicemente da un presupposto non analizzato sul legittimo oggetto d’indagine storica. L’anarchismo abbatte i taciti giudizi di valore che favoriscono il potere statale come oggetto d’indagine della storia, e ci invita a ripensare alle nostre misure della rilevanza. Per esempio, gli storici medievalisti potrebbero prendere nota delle archeologie anarchiche e degli sviluppi nella scienza della complessità, in cui l’esistenza di rapporti orizzontali egualitari è considerata un’iniziativa umana naturale o positiva, mentre la loro sostituzione con gerarchie di potere è considerata un fallimento sociale e una regressione a elementari forme di dominio[52]. È un rovesciamento di quel sistema di giudizi di valore che limita la narrazione tradizionale di storia politica, nonché una base entusiasmante da cui formulare nuove domande.
Cosa succederebbe se lo studio delle istituzioni medievali di governo si fondasse su una riformulazione radicale di ciò che si deve spiegare? Cosa succederebbe se gli strumenti attraverso i quali le popolazioni furono dominate, e gli effetti del dominio su di esse, rappresentassero le questioni salienti? Non struttureremmo la nostra analisi di Edoardo I d’Inghilterra su come creò lo Stato, aumentò le tasse e fece guerra alla Scozia (anche se continueremmo a rispondere a queste domande tradizionali, seppure in maniera più interessante), ma su come cambiarono durante il suo regno le esperienze delle persone che si servirono dei tribunali, pagarono le tasse e si ritrovarono coinvolte in guerra, spiegando anche la capacità di alcune regioni di opporsi a uno o più elementi costitutivi del processo di creazione del suo Stato. Lo faremmo perché queste sono le domande più rilevanti sul consolidamento del suo potere statale, e perché non porle al centro della nostra analisi significa non riuscire a fare le giuste domande su quei meccanismi di potere. Una prospettiva anarchica considererebbe molto più rilevante la perdita di autonomia comunitaria, in relazione alla crescita del potere governante nel tardo tredicesimo secolo, rispetto alle conquiste raggiunte dal «consolidamento» del governo[53]. Come scrive James Flexner sullo studio del passato, «forse è tempo d’iniziare a cimentarsi con quadri di riferimento che non siano quelli del modello ortodosso»[54].
In che modo gli anarchici potrebbero beneficiare di una lettura più estesa della storia medievale?
I modi in cui gli anarchici potrebbero beneficiare di una lettura più estesa della storia (medievale) sono il riflesso di ciò che potrebbero acquisire i medievalisti servendosi più spesso dell’anarchismo nelle loro riflessioni. Lo scambio tra i due campi di studio dovrebbe essere sempre a doppio senso: gli storici medievalisti potrebbero imparare molto dalla teoria e dagli approcci anarchici, ma hanno altrettanto da offrire che arricchirebbe gli anarchist studies. Il titolo dell’articolo ora dovrebbe essere abbastanza chiaro: l’anarchismo è potenzialmente un progetto analitico molto più potente di quanto sia al momento, e un approccio anarchico alla storia potrebbe costituire un elemento fondamentale. La storia costituisce uno dei metodi principali con cui figurarsi il potenziale umano, nonché un elemento centrale di buona parte dell’educazione formale e informale; eppure, la storia anarchica oggi si limita principalmente alla storia dell’anarchismo. Questo impone inutilmente rigide limitazioni all’influenza dell’anarchismo: se vuole dare forma al modo in cui si osserva il mondo – e quindi al modo in cui possono essere immaginati futuri alternativi –, l’anarchismo dovrebbe confrontarsi di più con la maniera in cui si scrive la storia. Il proliferare di approcci anarchici alla storia condurrebbe a nuove intuizioni teoriche, e produrrebbe forme di conoscenza del corso della storia in cui i principi anarchici svolgerebbero un ruolo cruciale.
Se gli anarchici volessero iniziare a leggere più storia medievale, nello specifico, troverebbero la porta socchiusa, se non addirittura spalancata, ai loro interessi e alle loro attitudini. Senza essere anarchici, molti storici medievalisti già adottano posizioni di ostilità o scetticismo nei confronti del potere come base delle loro analisi. Per esempio, il rispettato storico di Harvard Tom Bisson, nel suo libro sulle «origini del governo europeo» nel dodicesimo secolo, evoca l’immagine dei sovrani che «banchettavano sulla violenza che i loro popoli subivano» per mano dei signori feudali per spiegare come agiva l’estensione del potere governativo[55]. Per quanto sia piuttosto certo che Bisson non si definirebbe anarchico, il suo approccio al potere è sintomatico di una tendenza che suggerisce potenzialità di dialogo tra medievalisti e anarchici. A tratti parliamo già la stessa lingua. Gran parte di questo discorso condiviso deriva dalle varie forme di storia radicale – femminismo, postcolonialismo, storia profonda e altre ancora – diventate più comuni nel momento in cui gli storici accademici si sono trovati meno a loro agio con l’identità piuttosto recente della disciplina quale campo di formazione per i funzionari pubblici. Questi cambiamenti hanno assistito all’adozione di prospettive molto più in sintonia con le questioni d’interesse anarchico da parte degli storici medievalisti.
Al di là del recente fiorire di forme di storia che sarebbero di grande interesse per i lettori anarchici, gli storici medievalisti sono, per formazione e lunga esperienza, ben consci del fatto che la storia del mondo abbia proposto molte alternative alle narrazioni desolanti e inibitorie della modernizzazione. Oltretutto, alcuni si stanno sempre più posizionando come portatori di un’esplicita critica della modernità, fornendo le basi empiriche per un rifiuto del mantra «nessuna alternativa» alla globalizzazione e al neoliberismo[56]. Ciò sta diventando – o ha il potenziale per diventare – parte integrante di una storia medievale globale critica che attacca la celebrazione dell’integrazione transnazionale sulle basi dell’accumulo e dello sfruttamento di capitale, vale a dire la posizione etica predefinita di gran parte della scrittura di storia moderna globale. Dato che i medievalisti spesso occupano una posizione esterna, sia all’interno della professione storica sia rispetto al paradigma della «modernità», tendono a essere più scettici e critici a riguardo del miope presentismo della globalizzazione[57]. Questo movimento è ai suoi inizi, dunque esistono buone possibilità per un dialogo costruttivo con le idee anarchiche, insieme a quelle dei movimenti indigeni e della politica postcoloniale, che offra nuovi strumenti per studiare come e quando le persone sono state e non sono state trascinate all’interno di strutture politiche di dominio e relazioni sociali di disuguaglianza.
Dal momento che le tipologie di società che i medievalisti generalmente studiano presentano un potere statale debole ma ambizioso, insieme a gradi estremamente variabili di autonomia locale e resistenza alla gerarchia, potrebbero fornire i materiali utili a colmare il divario epistemologico che esiste tra lo studio delle società egualitarie complesse, condotto da archeologici come Flexner, Sanger e Borck, e la critica del potere statale moderno industriale all’interno della tradizione anarchica classica. La scrittura anarchica, essendosi concentrata sullo Stato moderno militare-industriale, può – in qualche modo controintuitivamente – far sembrare il potere statale più imponente di quanto fosse davvero per gran parte della storia. La storia medievale, dunque, offre un buon canale attraverso cui si potrebbe inserire una concezione dello Stato più edotta a livello storico all’interno del dibattito anarchico, incoraggiando così una speranza in possibili alternative future fondata su basi empiriche.
Né gli storici né gli anarchici possono permettersi il lusso di non riuscire a spiegare la varietà delle esperienze dello Stato, e gli anarchici non dovrebbero accettare le visioni romantiche del Medioevo come «grande epoca del federalismo»[58], né tantomeno restringere la loro analisi agli spazi «non statali», come la Zomia di Scott o gli odierni tentativi di creare comunità autonome. Per gli storici, in realtà, il principale svantaggio del modello di Zomia di Scott è che concepisce le regioni statali e non statali all’interno di un «binarismo puro» senza alcuna sfumatura tra gli estremi, laddove invece studiare le società medievali significa ritrovarsi a riflettere sulle persone che avevano legami vari e complessi con lo Stato[59]. L’approccio di Scott riflette la tendenza del pensiero anarchico a reificare «lo Stato» nel tempo e nello spazio, in cerca dei momenti in cui le società non statali sono diventate Stati, in una specie di gioco irrealistico a somma zero. Anche questo modello tende a concepire gli Stati come entità ideate e imposte, al contrario delle società non statali che sono presentate come entità organiche e naturali. Si tratta di un altro strascico del pensiero storico costituzionale tradizionale, nonché della prima scrittura storica anarchica, come quella di Kropotkin e Rocker, che tendevano a condividere la visione liberale costituzionale degli Stati ideati e creati dalle élite. Alcuni anarchici devono ancora respingere tale visione, sebbene – come detto prima – altri studiosi anarchici abbiano riflettuto attentamente sui processi sociali attivi che sostengono l’eguaglianza. Una comprensione più ampia dell’espansione dello Stato richiede una maggiore considerazione dei processi organici, spesso simbiotici, attraverso i quali essa avvenne, integrando al contempo idee sulla repressione della gerarchia.
Ci servono storie complesse di persone che vivono a fianco di e in combutta con lo Stato, che negoziano la loro agentività rispetto al suo potere, tenendolo lontano e allo stesso tempo sfruttandone le opportunità, e sopravvivendo tra le crepe della competizione tra aspiranti collaboratori dello Stato: le persone che «stanno a contatto con il problema», per dirla con la risoluta frase di Donna Haraway[60]. Proprio come ha scritto Sanger degli archeologi che dovrebbero evitare di omogeneizzare le società «semplici», gli storici medievalisti non sono inclini a omogeneizzare l’esperienza delle persone che vissero in epoche e in luoghi in cui il crescente potere istituzionale centrale si scontrò con forti istituzioni locali. Gli anarchici hanno quindi la possibilità, in dialogo con archeologi e medievalisti, di sviluppare e criticare la tesi di «Zomia» in relazione a un più ampio ventaglio di esperienze storiche. Il rischio di utilizzare una «euristica anarchica» per normalizzare i concetti liberali dello Stato nazione (come benevolo, distante e appena percepibile)[61] non si presenta fintantoché lo scopo del dialogo sia capire più a fondo come gli Stati abbiano condizionato le vite delle persone, nonché il complesso processo attraverso cui il potere statale aumenta e diminuisce.
Infine, non confrontandosi con la ricerca nella storia premoderna, gli anarchici rischiano di romanticizzare la vita quotidiana nelle società non governate dallo Stato o meno sottoposte al suo controllo. L’ombra gettata dall’errata concezione di Kropotkin delle assemblee popolari nel Medioevo è davvero ampia, oscurando ciò che oggi gli anarchici potrebbero realmente apprendere dal gioco ben più complesso della politica in un’epoca in cui «comunità» significava gerarchia e dominio insieme a un certo margine di autonomia e cooperazione. Esistono numerose ricerche sulle disuguaglianze, soprattutto quelle di genere, all’interno delle istituzioni comunitarie e dei gruppi più o meno autonomi esistenti nel Medioevo; proprio come antropologi e archeologi da tempo evidenziano la violenza e il dominio all’interno di numerose società autonome cosiddette egualitarie. Se un maggior numero di accademici anarchici volesse confrontarsi apertamente e criticamente con questa ricerca storica, di certo emergerebbe una concezione più sofisticata dell’autonomia realmente esistita.
Una possibile agenda per una storia anarchica
Sono alquanto affezionato alla citazione di un verso del filosofo liberale Bernard Williams – «a un certo punto la filosofia necessita di lasciare spazio alla storia»[62] – e per gli anarchici non esiste momento migliore del presente: potrebbe essere liberatorio passare dalla teoria politica alla storia vissuta. Riflettere attraverso le testimonianze di realtà vissute in passato è non solo emancipatorio – consente a storici o archeologi di sperimentare sia in senso scientifico, sia in senso beatamente curioso – ma anche necessario. L’esperienza passata offre intuizioni e lezioni che non possono essere facilmente respinte a favore della coerenza logica della teoria, o del desiderio di tracciare lo sviluppo di un’idea incorporea senza contesto attraverso epoche storiche diverse. Gli storici credono che il contesto sia importante, quindi le domande che gli storici anarchici potrebbero sollevare dovrebbero essere empiriche, ma mai in maniera semplificata. Le risposte a ognuna delle seguenti domande potrebbero essere argomentate a lungo. Gli storici non forniscono risposte fattuali, ma effettivamente si occupano della realtà dell’esperienza vissuta anziché sovrapporre teorie su teorie, poiché il loro empirismo giace nella ricerca della conoscenza di come stavano davvero le cose, piuttosto che nella malriposta certezza della finalità di tale conoscenza.
- Quando e come aumenta la capacità di dominio o s’intensificano i suoi effetti?
- Quali congiunture tra potere di attrarre l’élite, cooptazione dei rappresentanti locali, fluttuazioni economiche, stratificazione sociale, e cambiamento ideologico o culturale sono associate ad aumenti e diminuzioni dei livelli di dominio in una società?
- Quali sono le linee di causazione associate a tali congiunture?
- Come hanno contribuito Stati e istituzioni all’aumento della disuguaglianza e alla perdita di libertà?
- In quali archi di tempo tali congiunture hanno prodotto un cambiamento dei livelli di dominio, autonomia e cooperazione?
- Qual è il ventaglio di esperienze di autonomia e cooperazione, e quali sono le circostanze in cui prosperarono?
- Quali sono i processi, le idee e le attitudini sociali che hanno efficacemente represso gerarchia e disuguaglianza? Quanto consapevolmente sono stati impiegati a tale scopo?
- Cooperazione e autonomia sono sempre state raggiunte limitandone i vantaggi a un gruppo definito? Sotto quali forme di dominio, ove presenti, prosperò tale autonomia ristretta? Considerando che autonomia e dominio non sono le uniche alternative in un gioco a somma zero, l’autonomia di chi si è storicamente legata al dominio di chi?
- Qual è stata la relazione tra l’«espansione statale» e gli sforzi coscienti da parte delle persone comuni sia per contribuire ai suoi poteri, sia per ridurli (vale a dire, collaborazione volontaria e resistenza consapevole)?
- Quando e perché le persone sono migrate all’interno e all’esterno dell’orbita del potere statale?
Queste domande sono solo spunti, intesi a stimolare un dibattito. Considerando le tante altre prospettive che hanno storici e anarchici, vi sono ampie potenzialità di dialogo costruttivo. Gli storici medievalisti disposti a partecipare al dialogo scopriranno che le prospettive anarchiche sono declinazioni radicali di alcune idee già presenti nel loro campo di studi, mentre gli anarchici scopriranno che gli storici, in generale, sono persone per inclinazione disinvolte nel loro utilizzo della teoria, nonché disposte a cimentarsi con idee che producono risultati interessanti. La storia non è scienze politiche: gli storici sono avversi alle generalizzazioni appiattenti e a loro agio con la moltiplicazione della varietà e della differenza; i medievalisti più di chiunque altro. Molti sono abituati a concepire la storia in una dimensione umana, ed esistono lunghe tradizioni di scrittura storica femminista e marxista che cercano di recuperare le esperienze di chi non rientra facilmente nella grande narrazione della creazione dello Stato, della modernizzazione e della globalizzazione. A me sembra che queste caratteristiche per molti versi combacino perfettamente con le pulsioni anarchiche, e possano garantire una collaborazione forse felice, se entrambi anarchici e medievalisti volessero coltivare il desiderio di apprendere da altri modi di concepire il mondo.
[1] Pëtr Kropotkin, Mutual Aid: A Factor of Evolution, London, 1902 [trad. it. Il mutuo appoggio. un fattore dell’evoluzione, elèuthera, Milano, 2020]; Rudolf Rocker, Nationalism and Culture, St. Paul, 1978.
[2] George Woodcock, Anarchism, Harmondsworth, 1962, pp. 38-40 [trad. it. L’anarchia: storie delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli, Milano, 1973, pp. 34-36]; Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, London, 1992, pp. 88-95.
[3] Peter Gelderloos, Worshipping Power: An Anarchist View of Early State Formation, Chico, 2016; David Graeber, Debt: The First 5000 Years, New York, 2011 [trad. it. Debito: I primi 5000 anni, il Saggiatore, Milano, 2012].
[4] Matthew S. Adams, The Possibilities of Anarchist History: Rethinking the Canon and Writing History, in Ruth Kinna e Süreyya Evren (a cura di), «Blasting the Canon», Anarchist Developments in Cultural Studies, n. 1, 2013, pp. 33-63; Sho Konishi, Anarchist Modernity: Cooperatism and Japanese-Russian Intellectual Relations in Modern Japan, Cambridge, 2013; Ruth Kinna, Kropotkin: Reviewing the Classical Anarchist Tradition, Edinburgh, 2016.
[5] Per le discussioni recenti sulle tendenze di scrittura storica marxista e femminista, si veda Chris Wickham (a cura di), Marxist History Writing for the Twenty-First Century, Oxford, 2017, e Judith Bennett, History Matters: Patriarchy and the Challenge of Feminism, Manchester, 2006; Bennett in realtà incoraggia le femministe a riavvicinarsi agli studi storici, notando uno slittamento dal femminismo dotato di prospettiva storica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso a una teoria e un attivismo più focalizzati sul presente degli anni Duemila.
[6] Bennett, History Matters, cit., p. 60.
[7] David Graeber, Direct Action: An Ethnography, Oakland, 2009, p. 211 [trad. it. parziale Rivoluzione: Istruzioni per l’uso, BUR, Milano, 2012, p. 35].
[8] Lewis Borck e Matthew C. Sanger, An Introduction to Anarchism in Archaeology, «Society for American Archaeology: Archaeological Record», n. 17, 2017, p. 9.
[9] Alan Carter, Analytical Anarchism: Some Conceptual Foundations, «Political Theory», n. 28, 2/2001; per un dibattito sul tema, si veda Stuart Ingham, Analytical Anarchism? A Critique of Alan Carter’s Anarchist Theory of History, «Class and Capital», n. 40, 1/2016.
[10] James C. Scott, The Art of Not Being Governed: An Anarchist History of Upland Southeast Asia, New Haven, 2009 [trad. it. L’arte di non essere governati: una storia anarchica degli altopiani del Sud-est asiatico, Einaudi, Torino, 2020]; Pierre Clastres, Society Against the State: Essays in Political Anthropology, New York, 1989 [trad. it. La società contro lo Stato, elèuthera, Milano, 2022]; Willem van Schendel, Geographies of Knowing, Geographies of Ignorance: Jumping Scale in Southeast Asia, «Environment and Planning D: Society and Space», n. 20, 2002, pp. 647-668.
[11] William G. Clarence-Smith, Editorial Note – Zomia and Beyond, «Journal of Global History», n. 5, 2010, p. 185.
[12] James C. Scott, Weapons of the Week: Everyday Forms of Peasant Resistance, New Haven, 1985, e Id., Domination and the Arts of Resistance: Hidden Transcripts, New Haven, 1990 [trad. it. Il dominio e l’arte della resistenza, elèuthera, Milano, 2021]. Questi due libri hanno avuto un’influenza considerevolmente ampia sugli studi medievali: per esempio, sui «verbali segreti» di Scott si veda Peter L. Larson, Conflict and Compromise in the Late-Medieval Countryside: Lords and Peasants in Durham, 1349-1400, New York, 2006, p. 45, e Patricia Ewick e Susan S. Silbey, Conformity, Contestation, and Resistance: An Account of Legal Consciousness, «New England Law Review», n. 26, 1992; sulle «armi dei deboli» si veda James Given, Inquisition and Medical Society: Power, Discipline and Resistance in Languedoc, Ithaca, 1997, p. 109, riguardo alla possibilità di comprendere la resistenza all’inquisizione all’interno di questa cornice, e Carol Lansing, Conflicts over Gender in Civic Courts, in Judith Bennett e Ruth Karras (a cura di), The Oxford Handbook of Women and Gender in Medieval Europe, Oxford, 2015, pp. 123-124, che applica il modello di Scott alle reazioni delle vittime di stupro.
[13] Un recente laboratorio che ha coinvolto storici medievalisti e archeologi dall’Europa al Giappone ha indagato la praticabilità di Medieval Zomias: Stateless Spaces in the Global Middle Ages come oggetto di ricerca: <https://global.history.ox.ac.uk/event/conference-medieval-zomias-stateless-spaces-global-middle-ages>.
[14] Graeber, Debt: The First 5000 Years; un resoconto della conferenza Debt: 5000 Years and Counting è disponibile in Ilya Afanasyev, Nicholas Evans e Nicholas Matheou, Doing conferences differently, «versobooks.com», 14 settembre 2018, https://www.versobooks.com/en-gb/blogs/news/4028-doing-conferences-differently.
[15] David Graeber, Fragments of an Anarchist Anthropology, Chicago, 2004 [trad. it. Frammenti di antropologia anarchica, elèuthera, Milano, 2020].
[16] Graeber, Debito, cit., p. 379.
[17] The Black Trowel Collective, Foundations of an Anarchist Archaeology: A Community Manifesto, «savageminds.org», 31 ottobre 2016, https://savageminds.org/2016/10/31/foundations-of-an-anarchist-archaeology-a-community-manifesto/.
[18] James L. Flexner, The Historical Archaeology of States and Non-States: Anarchist Perspectives from Hawai’i and Vanuatu, «Journal of Pacific Archaeology», n. 5, 2014, pp. 83-84, sostiene che gli storici siano irrimediabilmente prigionieri della documentazione storica istituzionale di cui si servono, che sebbene sia eccessivamente ostile ha un fondo di verità.
[19] Matthew Sanger, Anarchic Theory and the Study of Hunter-Gatherers, «SAA Archaeological Record», n. 17, 2017, pp. 39-44; Flexner, The Historical Archaeology of States and Non-States, cit.; Graeber, Frammenti, cit., pp. 33-36.
[20] Theresa Kintz, An Anarchist Archaeology for the Anthropocene: A Manifesto, «SAA Archaeological Record», n. 17, 2017, pp. 33-38; Amanda Power, Medieval Histories of the Anthropocene, articolo inedito diffuso presso il German Historical Institute, London, 29 maggio 2018.
[21] Peter Thonemann, Phrygia: An Anarchist History, 950BCE-100CE, in Peter Thonemann (a cura di), Roman Phrygia: Culture and Society, Cambridge, 2013, p. 3.
[22] Thonemann, Phrygia: An Anarchist History, cit., p. 15, osserva che i Frigi da un lato si esentarono dalla raccolta dei tributi persiani, ma dall’altro divennero più esposti alle razzie di schiavi da parte di entità statuali più potenti del Mediterraneo orientale.
[23] Sull’eterarchia, si veda Carole L. Crumley, Heterarchy and the Analysis of Complex Societies, «Archaeological Papers of the American Anthropological Association», n. 6, 1995, pp. 1-15; sulle comunità acefale, si veda Harold Barclay, Segmental Acephalous Network Systems: Alternatives to Centralised Bureaucracy, «The Raven», n. 7, 1989, pp. 2017-2024; sul contropotere, si veda Graeber, Frammenti, cit., pp. 33-49, e Clastres, La società contro lo Stato, cit.; sul consenso, si veda Uri Gordon, Anarchy Alive! Anti-Authoritarian Politics from Practice and Theory, London, 2008, pp. 65-71.
[24] Per esempio, John H. Arnold, The Historian as Inquisitor: The Ethics of Interrogating Subaltern Voices, «Rethinking History», n. 2, 1998, pp. 379-386.
[25] Paul Lunde e Caroline Stone (a cura di), Ibn Fadlan and the Land of Darkness: Arab Travellers in the Far North, London, 2012; Ibn Khaldun, The Muqaddimah: An Introduction to History, Princeton, 1967.
[26] Per una discussione generale, si veda Geraldine Heng, The Invention of Race in the European Middle Ages, Cambridge, 2018.
[27] Thonemann, Phrygia: An Anarchist History, cit., pp. 11-14.
[28] Roderick J. McIntosh, Ancient Middle Niger: Urbanism and the Self-Organizing Landscape, Cambridge, 2005.
[29] Mike Pearson, Nill Sharples e Jacquie Mulville, Brochs and Iron Age Society: A Reppraisal, «Antiquity», n. 70, 1996, pp. 57-67; su tende e archeologia, si veda Timothy Insoll, The Archaeology of Islam, Oxford, 1999, pp. 72-74.
[30] Per una serie di esempi tra tanti, si veda T. C. B. Timmins (a cura di), The Register of John Waltham Bishop of Salisbury 1388-1395, Woodbridge, 1994, pp. 212-213, in cui si dice chiaramente che le persone non presenti in chiesa stavano partecipando ai mercati.
[31] Richard Sosis, Does Religion Promote Trust? The Role of Signalling, Reputation, and Punishment, «Interdisciplinary Journal of Research on Religion», n. 1, 2005, pp. 1-30, a p. 16.
[32] Fernand Braudel, The Mediterranean and the Mediterranean World in the Age of Philip II, 2 voll., London, 1972, I, p. 38 [trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino, 1976, I, p. 23]; per una discussione, si veda Benoît Cursente, Les montagnes des médiévistes, «Montagnes médiévales», Paris, 2004, pp. 419-421.
[33] Ian Forrest, Trustworhty Men: How Inequality and Faith Made the Medieval Church, Princeton, 2018, pp. 209-213, analizza come l’altopiano, la brughiera e i paesaggi da pascolo a bosco nell’Inghilterra tardo-medievale furono meno assoggettabili al potere ecclesiastico rispetto alle regioni delle pianure vicine.
[34] Carole L. Crumley e Alf Hornberg (a cura di), The World System and the Earth System: Global Socioenvironmental Change and Sustainability since the Neolithic, Walnut Creek, 2007.
[35] Bruce M. S. Campbell, The Great Transition: Climate, Disease and Society in the Late Medieval World, Cambridge, 2016.
[36] Gordon, Anarchy Alive!, cit., pp. 31-34.
[37] Sull’intersezionalità, si veda Kimberlé Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «The University of Chicago Legal Forum», n. 140, 1989, pp. 139-167; per una critica anarchica, si veda Angry Workers World, Class, Racism and Women’s Oppression: Critical Thoughts on Intersectionality Theory, «libcom.org», 19 giugno 2019, https://libcom.org/article/class-racism-and-womens-oppression-critical-thoughts-intersectionality-theory.
[38] Gerda Lerner, The Majority Finds Its Past: Placing Women in History, New York, 1979, p. 180.
[39] Bennett, History Matters, cit., p. 28.
[40] Si veda per esempio P. J. P. Goldberg, Communal Discord, Child Abduction and Rape in the Later Middle Ages, Basingstoke, 2008; Ruth M. Karras, Common Women: Prostitution and Sexuality in Medieval England, Oxford, 1996; Sharon Farmer, The Beggar’s Body: Intersections of Gender and Status in High Medieval Paris, in Sharon Farmer e Barbara Rosenwein (a cura di), Monks and Nuns, Saints and Outcasts, Ithaca, 2000, pp. 153-171.
[41] Rodney Hilton, Bond Men Made Free: Medieval Peasant Movements and the English Rising of 1381, London, 1973; Eric Hobsbawm, Primitive Rebels: Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th and 20th Centuries, Manchester, 1959 [trad. it. I ribelli. Forme primitive di rivolte sociali, Einaudi, Torino, 1980]; Boris Porchnev, Les soulèvements pupulaires en France de 1623 á 1648, Paris, 1963; Edward P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, 1963 [trad. it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, il Saggiatore, Milano, 1969].
[42] Chris Dyer, The rising of 1381 in Suffolk: Its Origins and Participants, in T. H. Aston e R. H. Hilton (a cura di), The English Rising of 1381, Cambridge, 1984.
[43] Gordon, op. cit., p. 55; Graeber, Rivoluzione, cit., p. 73; la recensione di Victor Liebermann di The Art of Not Being Governed sostiene similmente che Scott «nella sua fissazione per il dominio statale […] confonde le imposizioni ufficiali con i conflitti popolari»: A Zone of Refuge in Southeast Asia? Reconceptualizing Interior Spaces, «Journal of Global History», n. 5, 2010, p. 341.
[44] Gordon, Anarchy Alive!, cit., pp. 40-43.
[45] Steven Justice, Religious Dissent, Social Revolt and ‘Ideology’, in Christopher Dyer et al. (a cura di), Rodney Hilton’s Middle Ages, Oxford, 2007.
[46] Rocker, Nationalism and Culture, cit., p. 39; Jan Philipp Reemtsma, Trust and Violence: An Essay on a Modern Relationship, Princeton, 2012, p. 8.
[47] La letteratura è estesa, ma su eresia e inquisizione si veda in particolare Given, Inquisition and Medieval Society, cit.; sull’intervento degli Stati contro gli ebrei, si veda Robin R. Mundhill, England’s Jewish Solution, 1262-1290: Experiment and Expulsion, Cambridge, 1998.
[48] James C. Scott, Two Cheers for Anarchism: Six Easy Pieces on Autonomy, Dignity, and Meaningful Work and Play, Princeton, 2012, p. 141 [trad. it. Elogio dell’anarchismo, eleuthera, Milano, 2022].
[49] Peter Blickle, From the Communal Reformation to the Revolution of the Common Man, Leiden, 1998; James Masschaele, Jury, State, and Society in Medieval England, New York, 2008.
[50] Forrest, Trustworthy Men, cit.
[51] Stuart Rathbone, Anarchist Literature and the Development of Anarchist Counter-Archaeologies, «World Archaeology», n. 49, 2017, p. 299.
[52] Sanger, Anarchic Theory and the Study of Hunter-Gatherers, cit.; Lewis Brock e Erik Simpson, Identity is an Infinite Now: Being Instead of Becoming Gallina, «KIVA: Journal of Southwestern Anthropology and History», n. 83, 2017; Carlos Maldonado e Nathalie Mezza-Garcia, Anarchy and Complexity, «Emergence: Complexity and Organisation», 2016, confrontano i processi sociali anarchici con la teoria della complessità di scienze fisiche e naturali, osservando che «le istituzioni in generale limitano artificiosamente la tendenza naturale all’autorganizzazione e all’autocontrollo che i sistemi umani naturali presenterebbero in assenza di tali istituzioni coercitive» (enfasi aggiunta).
[53] Ian Forrest, Power and the People in Thirteenth-Century England, in Janet Burton, Phillipp Schofield e Björn Weiler (a cura di), Authority and Resistance in the Age of Magna Carta, Woodbridge, 2015.
[54] Flexner, The Historical Archaeology of States and Non-States, cit., p. 83.
[55] Tom Bisson, The Crisis of the Twelfth Century: Power, Lordship, and the Origins of European Government, Princeton, 2009, pp. 321-369.
[56] Carol Symes, When We Talk About Modernity, «American Historical Review», n. 116, 2011.
[57] Catherine Holmes e Naomi Standen, Introduction, in Id. (a cura di), The Global Middle Ages, «Past and Present», 2018.
[58] Rocker, Nationalism and Culture, cit., p. 91.
[59] Shalini Randeria, Opting for Statelessness, «European Journal of Sociology», n. 51, 2010, p. 466.
[60] Donna Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Cthulucene, Duke University Press, 2016 [trad. it. Cthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019].
[61] Shelagh Roxburgh, Against Soft Anarchism: Challenging Liberal Cooptations of Anarchism in International Relations Theory, «Anarchist Studies», n. 26, 2018.
[62] Bernard Williams, Truth and Truthfulness: An Essay in Genealogy, Princeton, 2002, p. 93 [trad. it. Genealogia della verità: storia e virtù del dire il vero, Fazi, Roma, 2005, p. 90].
Ian Forrest, professore di Storia sociale e religiosa all’Università di Oxford e membro del collettivo Anarchist Approaches to the Middle Ages, è autore di The Detection of Heresy in Late Medieval England (2005) e Trustworthy Men: How Inequality and Faith Made the Medieval Church (2018).
[fonte: «Anarchist Studies», vol. 28, n. 1, 2020, traduzione di Gilda Dina]