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Pinelli una storia Venezia 1984 Crocenera anarchica

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Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta - Albert Camus

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La speranza di Monte Verità

La speranza di Monte Verità
intervista a Harald Szeeman a cura di Franco Bunçuga

E’ possibile uscire dal triangolo studio-mercante-museo? Ci sono spiragli nell'arte contemporanea che permettano di intravedere una direzione in senso libertario? L’intervistato ha un progetto: ridare vita al centro che sorge su Monte Verità nei pressi di Ascona (vicino alla Baronata di Carlo Cafiero e Michail  Bakunin) sulla quale soggiornarono dal 1870 artisti, letterati, poeti e vari rivoluzionari tra i quali Pëtr Kropotkin e Max Nettlau. Su questa collina si sono sperimentate forme di comunismo anarchico e comunità naturiste e vegetariane. Szeeman è storico dell’arte, saggista e curatore di mostre ed esposizioni tra le quali Documenta 5 a Kassel e La Biennale di Venezia per la  quale ha creato la sezione Aperto. Fondatore dell'Agenzia per il lavoro spirituale all’estero, ha pubblicato tra l'altro: Museum der Obsessionen (1981) e Individuelle Mythologien (1985) oltre a saggi e poesie.
 

Dopo aver passeggiato su Monte Verità e aver visto la ricca documentazione di Casa Anatta sull’invasione nordica dell’utopia, attraverso le sezioni della mostra: anarchia, utopia sociale, riforma dell’anima, riforma della vita, riforma dello spirito, riforma del corpo, psicologia, mitologia, danza, musica, letteratura, non si può non riflettere sugli stretti rapporti che ci sono stati a cavallo dell’Ottocento e Novecento, tra le avanguardie artistiche e i movimenti sociali più innovativi e soprattutto il movimento anarchico nelle sue svariate componenti. Cosa pensi che rimanga oggi di questo rapporto?
 

Penso che in ogni artista ci sia un anarchico, almeno all’inizio della sua attività. Poi dipende se accetta di fare parte del sistema o se mantiene una sua indipendenza pur lavorando nel sistema. Perché comunque deve passare attraverso un circuito mercantile, ben in rodaggio da tempo. La concorrenza spinge ad avere i migliori musei, le migliori gallerie, e questo meccanismo assorbe molte energie agli artisti, perché se non si impongono anche attraverso l’immagine di se stessi in poco tempo vengono dimenticati. Ma il vero problema è che l’arte è una cosa strana: se si abbandonano alcune regole fondamentali e ci si muove solo per sentimento o in una direzione politica, non si produce arte. L’arte è una disciplina che allo stesso tempo dà grandi libertà, ma quando le si vuole dare uno scopo diretto, non è più arte, diventa propaganda.
 

Quali sono i percorsi oggi degli artisti o dei gruppi che ritieni più vicini a tematiche libertarie? Quali vorresti che lasciassero o avessero lasciato tracce qui a Monte Verità?
 

Devo fare una premessa. Penso che una cosa veramente importante nell’arte degli anni Sessanta sia stata l'elimina­zione del basamento nella scultura e concepirla direttamen­te sul suolo. Questo vuol dire far cadere una vecchia nozione di monumento. In questo atteggiamento c’è una nuova dimensione di vivere anche le cose attraverso il pavimento, non solo contemplando un’immagine davanti a sé. Per quan­to riguarda gli artisti che mi interessano, posso fare soltanto qualche esempio: l'arte povera a Torino, è stato un avveni­mento importante, e lo è ancora. Un altro artista molto importante è stato Piero Manzoni. E va ricordato il gruppo Fluxus degli anni Cinquanta. Mario Mertz dopo aver visto la mostra del Monte Verità, con le mammelle dell’anarchia, della teosofia, della riforma della vita, dell’università per la liberazione dell'uomo attraverso il ritorno al comunismo, in un paradiso comunista matriarcale, ha detto che questo casino è proprio la visualizzazione di tutto quello che lui ha nella testa. E’ chiaro che se si fa veramente un programma di sculture su Monte Verità, e ne discutiamo da tre anni, lui ci sarà con il suo Igloo. Artisti come quelli ricordati, dovreb­bero essere inseriti a Monte Verità. Il circuito museale è fatto e se io mi immagino ciò che potrebbe trovare posto su questa collina, penso ad autori di questo tipo. Rifare, però, un centro con le stesse caratteristiche di allora non è possi­bile, perché la proprietà è del cantone e averne il permesso non sarebbe molto facile. Dieci anni fa c’era il movimento verde presente qui nelle colline: duemila persone in tende, c’erano i “fellaghas", c’erano i gruppi per una agricoltura alternativa, c’erano i musicisti. Ed era tutta gente venuta per la mostra. La mostra ha attirato l’attenzione su questo posto. Ma oggi non vedo più la possibilità di queste grandi riunioni. Anche l’albergo di Monte Verità è una realtà, c’è una clientela, e non è certo una clientela molto avventurosa. Io vedo come unica possibilità di continuare in questo spirito, quello di agire attraverso le opere. Tra l’altro in Svizzera non esiste un giardino di sculture, potrebbe diventare una novità e nello stesso momento garantire un carattere inter­nazionale a questa collina. Perché, anche se non è rimasto molto, qui sono passati tutti gli artisti di questo secolo. Ci sono stati tutti i componenti del Bauhaus, c'è stato Vasilij Kandisky, Paul Klee, i quattro del Blaue Reiter, tutti dadai­sti. Certo, non c’è mai stata una continuità in queste presen­ze. Bisogna anche considerare il fatto che Ascona è diventata alla moda e quindi la vita è diventata cara, il terreno costa caro: questo è avvenuto proprio per la sua storia. E allora i nuovi arrivati sono andati a vivere nelle valli dove si poteva vivere ancora a buon mercato. Gunter Grass, ad esempio, è andato nella valle Maggia, come tanti altri.
 

Secondo te, è riproponibile un’esperienza di questo genere? Monte Verità può essere proposta come un esempio, oppure si tratta di un discorso troppo speci­fico nato da una storia particolare?
 

Io penso che i fautori di questa esperienza volessero veramente cambiare la vita. Ci sono sempre due vie: una è di separarsi dalla società e dare un modello lontano, l’altra è agire nella città. E quando ho fatto la mostra alla fine degli anni Settanta, è stato chiaro che la volontà di cambiare i rapporti sociali e politici, non era più rintracciabile nella campagna, ma era della città. In ogni quartiere c’era attivi­tà, c’erano riunioni spontanee dei cittadini. Adesso di nuovo tutto si è addormentato. Però io penso sempre che su Monte Verità sia possibile ricreare un luogo attivo di memorie. Anche questa collina ha dormito. E’ soprattutto il fatto della proprietà statale che impedisce di fare qualcosa. Adesso corre voce che si voglia cambiare la struttura in fondazione, certo, sarebbe un’altra cosa. Naturalmente per me è cambia­to molto dopo l’esperienza di Monte Verità. Intanto, sono riuscito a creare un'alternativa al museo. E’ come se avessi fatto un salto di qualità nelle mie esigenze. E’ una cosa difficilmente spiegabile. Devo anche dire che mi fa molto piacere che in questo periodo si cominci ad apprezzare maggiormente la scultura. Dopo questa inondazione di quadri, subito usati e dimenticati in un mercato anonimo. La scultura, infatti, non la si muove facilmente, e allo stesso tempo il lavoro è più pesante. Inoltre la scultura è più difficilmente commerciabile. Negli anni Sessanta pensavo che si potesse far esplodere il triangolo: studio, galleria, museo. Oggi non vedo come ciò sia possibile; ma ci penso sempre e spero che ci si arrivi. Per quanto mi riguarda, in un certo modo l’ho fatto, ma non basta un'esperienza individua­le. Comunque non perdo la speranza.
 

[fonte: «Volontà» 1988, n.4]

 

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