Tra il cielo e l’inferno dei nostri desideri e dei nostri dolori, collegando ciò che esiste e ciò che può esistere, si estende il vasto campo dell’indeterminato, di ciò che non sarà mai, di ciò che è stato sognato per non essere realizzato, ed anche della fecondità, suolo fertile in cui preme la vita di domani. Qui aleggiano le utopie come tanti sogni fatti di materiali della nostra immaginazione e della nostra realtà, della nostra grammatica e della nostra storia.
Così potremmo definire l’utopia come un orizzonte che si allunga e si allarga mano a mano che si ampliano le conoscenze e la storia umana, irraggiungibile ma contemporaneamente continuamente superato.
Pretendere di realizzare un’utopia è credere che un’isola possa essere l’universo e che l’uomo possa essere dio: ciò non accadrà mai. L’Utopia presa come fine in sé, come un luogo realizzabile e accessibile è evidentemente una contraddizione ed è proprio qui che si arrestano la maggior parte dei suoi detrattori che ne vogliono vedere solo il carattere assoluto e totalitario.
L’utopia, piuttosto, per essere esatti, essendo rottura con il tempo, la storia, lo spazio, permette di vedere la realtà e i suoi limiti, il mondo e il suo rovescio. In questo modo l’hanno compresa gli anarchici che sono stati più spesso distruttori dell'ordine delle cose che non costruttori di città ideali.