[dal Bollettino 61]
Dentro la guerra ma contro la guerra. Uso della forza ed etica anarchica
a cura del collettivo redazionale
Le critiche – dure – che Simone Weil rivolge ai miliziani anarchici non possono non essere prese sul serio proprio per la statura morale, umana e intellettuale di questa originale pensatrice, molto vicina alla sensibilità libertaria (pur se venata di un peculiare afflato religioso). Nondimeno la lettura complessiva dei documenti qui pubblicati – e di altri non presenti come la ricerca condotta da Phil Casoar – ci inducono a ritenere più convincenti e condivisibili le posizioni assunte dagli anarchici che intervengono nel dibattito, a partire da quelle di Louis Mercier Vega. Al di là di alcuni aspetti paradigmatici, non crediamo che il nostro compito sia di entrare nel dettaglio della vicenda riportata (quella del giovane falangista, la cui ricostruzione comporta, come dimostra il lavoro dei Giménologues, un pazienze lavoro di confronto tra le fonti), quanto di considerarla nel suo complesso per trarne alcune considerazioni sulla guerra, l’uso della forza e l’etica anarchica.
La prima considerazione che vogliamo fare riguarda proprio l’istituzione “guerra”, che è del tutto ovviamente un modus operandi eminentemente statuale (certo, la guerra non è stata inventata dallo Stato, ma la guerra moderna sì). Non è dunque un’istituzione compatibile con la pratica anarchica, anche se, volenti o nolenti, gli anarchici si sono storicamente trovati ad agire in situazioni di guerra, ovvero in contesti che negano radicalmente i loro principi etici. Ed è qui che si configura quella “terra di nessuno” in cui gli anarchici devono trovare – nelle azioni e non nei principi – quella coerenza tra mezzi e fini che è uno degli assiomi fondanti della loro etica. Dentro la guerra ma contro la guerra, dunque. Non è certo una posizione facile. E a tal proposito non è mancato il dibattito: ci sono stati anarchici che si sono rifiutati di andare in guerra, anarchici che ci sono andati ma senza impugnare le armi, anarchici che ci sono andati con le milizie ma poi hanno rifiutato la militarizzazione e anarchici, soprattutto spagnoli, che hanno combattuto fino alla fine perché la sconfitta del fascismo era per loro prioritaria. Poco sorprendentemente, non c’è stata una risposta unica. Proprio per questo le generalizzazioni che fa Simone Weil nel suo atto di accusa sono il primo punto debole che rileviamo nella sua critica.
Assodato che la guerra, strutturalmente estranea all’agire anarchico, è tra gli scenari peggiori, sono esattamente quelle le circostanze storiche in cui gli anarchici si sono trovati a operare in Spagna: una guerra oltretutto civile che sin dall’inizio si è rivelata spietata (come testimoniano gli 800.000 morti), una guerra in cui dichiaratamente, come ben sapeva la Weil, non si facevano prigionieri e in cui i massacri erano all’ordine del giorno. Nel giro di pochissimo tempo gli anarchici si sono dunque trovati intrappolati nella logica bellica (e nelle sue regole), ovvero nello scenario consapevolmente scelto dal nemico proprio perché è il modus operandi a lui più congeniale. Infatti ha vinto. E non ci sono guerre con i guanti bianchi, come talvolta sembra credere la Weil. La guerra non è una “bella contesa” tra cavalieri senza macchia e senza paura, è morte e distruzione. Se la fai, ti insanguini le mani. Se non la fai, hai le mani pulite ma lasci che il nemico (nella fattispecie il fascismo) prevalga. Non è un dilemma semplice. Cosa deve fare un anarchico in una situazione strutturalmente crudele come quella? Deve porgere l’altra guancia (e ironia della sorte i cattolici in quel caso erano esattamente sul fronte opposto, ragazzino compreso) o può e deve rispondere – anche solo per banale autodifesa – con la forza? E quanta forza?
Soffermiamoci ora sull’episodio principale raccontato dalla Weil, preso come caso emblematico per condannare la violenza dei “giusti”. Quel giovane falangista – il suo nome era Ángel Caro Andrés – non è stato catturato in casa o all’oratorio ma in combattimento con le armi in pugno. Lungi dall’essere stato arruolato a forza, come erroneamente riporta la Weil, è lì per sua libera scelta, e con la benedizione di mamma e papà che lo hanno mandato al fronte – a sedici anni – raccomandandogli di vendere cara la pelle per la maggior gloria di Dio e della Patria (vedi a tal proposito i rivelatori documenti di parte franchista trovati dai Giménologues).
Questo autorizza a fucilare un ragazzo di sedici anni? No. E infatti le due persone che riferiscono i fatti alla Weil ricoverata in ospedale – Charles Ridel (alias Mercier Vega) e Charles Carpentier – raccontano con indignazione l’episodio. Non solo, ma se si leggono le carte del tempo, i miliziani del Gruppo Internazionale erano in genere molto critici verso la maggiore propensione alla violenza mostrata dai miliziani spagnoli. O meglio, da alcuni di loro. Come spiegare questa maggiore violenza? Semplice, con la crudeltà di una guerra civile che proprio nello stesso periodo in cui quel “piccolo eroe” (come lo chiama la Weil) veniva fucilato massacrava migliaia di persone. In Andalusia, i falangisti avevano appena sterminato nell’arena di Badajoz centinaia di prigionieri repubblicani facendo poi un gran falò con i loro corpi. A Saragozza, dopo che i franchisti avevano fermato l’avanzata della Colonna Durruti, migliaia di anarco-sindacalisti e di militanti di sinistra venivano uccisi da una repressione a dir poco feroce. E francamente non sappiamo se queste migliaia di militanti avessero tutti l’età giusta per morire.
È ovvio che in un contesto come questo “la pietà l’è morta”. Ma è appunto qui che c’è la maggiore sfida per l’etica anarchica. Weil ritiene che il contesto storico abbia spazzato via i principi etici anarchici e che quella sia diventata una guerra come tante, come tutte. In parte è vero, tanto che molti miliziani internazionali a un certo punto decidono di andarsene (come scrive Mercier: “Quando la guerra dei poveri contro i ricchi si trasformò in una guerra fra potenze totalitarie, molti rivoluzionari decisero di non prendervi più parte”). Ma davvero esiste una guerra “umana”? Una guerra in cui la pietà sopravvive da una parte anche se viene immolata dall’altra? E per tornare al nostro caso: come ti comporti con un sedicenne che ti sta sparando? Gli dai uno scappellotto e gli dici di tornare a casa? Lo mandi in un “campo di rieducazione” di polpottiana memoria? Insomma, quando sei in un territorio a te ostile come la guerra, dove “tracci la linea” tra quello che vuoi fare e quello che ti tocca fare in una situazione che è largamente eteronoma?
A volte sembra che per Weil l’anarchico buono sia l’anarchico morto. Quello che per non abiurare ai suoi principi si lascia ammazzare. Ma questa posizione così rigorosa appare più una vocazione al martirio di stampo religioso che una pratica anarchica in grado di dare corpo a valori che peraltro esistono solo se si incarnano. E quando un valore, un’idea, si incarna, è inevitabile che la sua purezza si diluisca, che le circostanze ne definiscano i contorni. Discorso pericoloso, certo. Se le circostanze giustificano tutto, addio principi. Ma il punto sta proprio qui, in questa sfida continua che ci impone di trovare un equilibrio, sempre incerto, tra principi astratti e circostanze concrete, tra ciò che siamo e vogliamo e la realtà in cui ci troviamo a operare. E non c’è una regola universale buona per tutti e per tutte le occasioni, ma ogni singolo anarchico deve costantemente trovare il suo punto di equilibrio. Cadendo talvolta.
Ed è proprio per questo che, al contrario di Simone Weil, ci è difficile condannare in modo così inappellabile i miliziani internazionali e spagnoli e il loro operato. Loro erano lì, su quel campo minato che è la guerra. Noi siamo qui al riparo dalle pallottole e armati del senno di poi, e da questa comoda posizione ci sembra troppo facile sparare sentenze che grondano rigore etico. Ci sono stati errori ed eccessi? Più che probabile (e attenzione: non è che un’insurrezione o una rivoluzione mettano automaticamente al riparo da eccessi ed errori), ma sono avvenuti nel contesto di circostanze estreme, difficili da valutare per chi non le ha vissute. Non ci sentiamo dunque nella posizione di poter condannare o assolvere nessuno. Nondimeno, e per marcare una distanza dal giudizio complessivo di Simone Weil, vogliamo concludere citando le parole finali dell’intervento di Mercier Vega, che in realtà rispondono all’affermazione della Weil in exergo alla sua lettera. Mercier c’era a Pina de Ebro in quell’agosto del 1936, e non nasconde gli errori commessi, ma al contempo mette in guardia dal giudicare un evento storico come quello solo in base agli errori commessi, non solo per il rispetto che prova (e che anche noi proviamo) per “coloro che seppero vivere all’altezza del loro sogno”, ma soprattutto “perché la giustizia non cambia mai di campo”. Soprattutto in Spagna nel 1936.