[estratto dal Bollettino 58]
Dopo un numero di pausa torna la rubrica Storia orale. Questa volta si tratta della trascrizione della testimonianza di Maria Bonvicino, all’anagrafe Maria Simonetti, raccolta in California il 22 dicembre del 1981 da Audrey Goodfriend insieme ad Anita Garey e Nick Townsend. Nel corso dell’intervista interviene anche Menico, ossia Domenico Sallitto. Pur non essendo in questo caso direttamente Claudio Venza l’intervistatore, è sempre a lui che dobbiamo il reperimento e la conservazione dell’intervista originale. Come vedrete non solo Maria è stata protagonista di alcuni momenti cruciali per la storia dell’anarchismo, come il biennio rosso, ma è stata anche testimone diretta dell’esilio di tanti compagni e compagne e di quel legame profondo che, dall’Italia agli Stati Uniti passando per la Francia e il Belgio, ha accomunato i “refrattari” di due continenti, la cui eredità è sopravvissuta fino a oggi tra le pieghe della storia. Un fulgido esempio di internazionalismo anarchico! Nonostante i tanti anni trascorsi negli Stati Uniti, a volte Maria, nel corso dell’intervista, ricorre all’italiano: per mantenere lo stile del parlato abbiamo deciso in questi casi di utilizzare il corsivo.
MB: Maria Bonvicino / AG: Audrey Goodfriend / Menico: Domenico Sallitto / Anita: Anita Garey / Nick: Nick Townsend
MB – Sono nata il 19 settembre del 1895 in una famiglia povera, a quei tempi eravamo in Austria, non era ancora territorio italiano.
AG – In che città?
MB – Trieste.
AG – Trieste! Proprio come pensavo!
MB – Si discuteva tanto. L’Italia voleva Trieste, e l’Austria… In ogni caso la guerra si fece anche per quella città. Comunque abitavo a Trieste. Non andai in una scuola italiana ma in una slava: eravamo di origini slave. Gli anni passavano e l’Italia, l’Austria e anche Trieste cominciarono a prepararsi per la guerra. E io pensavo: “Ma perché diavolo vogliono mandare a morire la gente per una città…”. Trieste a quei tempi era una città industriale davvero importante.
AG – Maria, come ti chiamavi quando sei nata? Qual era il tuo cognome?
MB – Maria Simonetti.
AG – Simonetti era il nome dei tuoi genitori?
MB – Sì, sì, quello dei miei genitori! E anche loro si preparavano per la guerra. Io lavoravo ai cantieri navali, quei grandi cantieri navali…
AG – Dunque eri già grande? Facciamo un passo indietro, all’infanzia, quando eri ancora una bambina.
MB – Cosa vuoi sapere della mia infanzia? Te l’ho già detto, sono cresciuta in una famiglia povera, ho fatto una scuola slava…
AG – Cosa faceva tuo padre per vivere? Che lavoro faceva?
MB – Ah, mio padre era soltanto un manovale, non un commerciante o altro.
AG – Niente commercio, solo un operaio quindi? Un manovale?
MB – Mia madre era [incomprensibile].
AG – Erano credenti?
MB – Avevo anche un fratello e sei sorelle.
AG – Un fratello e ben sei sorelle?
MB – Sei sorelle, esatto.
AG – E tu eri la più vecchia o la più giovane?
MB – No, ero la seconda.
AG – La secondogenita?
MB – Sì.
AG – E la prima era una ragazza anche lei?
MB – Eravamo tutte femmine, solo l’ultimo era un maschio.
AG – L’ultimo nato era maschio.
MB – Dunque… adesso ho perso il filo del discorso.
AG – Adesso lo recuperiamo, non preoccuparti!
MB – [Ride].
AG – I tuoi genitori erano cattolici?
MB – Non praticanti. Non fui mai obbligata ad andare in chiesa. Ci andai fino a quattordici anni, sai, per la gente. E una volta, hai presente… i cattolici andavano a confessarsi, e così anch’io andai a confessarmi e il prete mi chiese se avevo peccato. E io dissi :“Ma certo, quando do di matto, pecco”. E lui cominciò a urlare. Sai, quando entrano in quella specie di cabina, il prete non lo vedi. Mi guardai intorno e per come gridava quel tipo pensai: “Oh mio dio, adesso la gente in chiesa penserà che ho ammazzato qualcuno…”. Così da quella volta non tornai mai più in chiesa per nessun motivo. Mai più. Dissi che erano pazzi, che non credevo in dio e che non ci sarei più andata. Perché mai avrei dovuto raccontare a quello che cosa facevo… E comunque i miei genitori non mi obbligarono mai.
AG – Sapevano leggere e scrivere?
MB – No, nessuno dei due. Né leggere, né scrivere.
AG – Avevano delle idee? Riflettevano sul mondo?
MB – Beh, no. Non saprei davvero dirlo, ma non credo.
AG – Lavoravano e basta?
MB – Lavoravano e basta. Era tutto lì. Cercavano solo di tirare avanti. Molto miseramente, e si limitavano a quello. E mai, dico mai [incomprensibile] per niente. E adesso cosa vuoi che ti racconti?
AG – In ogni caso sei andata a scuola, dunque quantomeno volevano mandare i loro figli a scuola, giusto?
MB – Sì, sono andata a scuola. A Trieste c’erano tre scuole: tedesca, italiana e slava. A me toccò di andare a quella slava.
AG – I tuoi genitori parlavano slavo?
MB – Sì, sì, mio padre fino alla sua morte parlò sempre con un forte accento slavo.
AG – Parlava anche italiano?
MB – Sì certo. Tutti a Trieste, o quasi tutti, parlavano tre lingue, perché capisci c’erano tedeschi, italiani, slavi e così… Era una città cosmopolita, c’era ogni tipo di etnia, di persone… insomma di tutti i tipi. Erano a Trieste perché avevano deciso di andare lì, era il miglior porto sul mare dell’Austria. Le navi andavano e venivano ogni giorno e ogni notte. Era una città davvero industrializzata.
AG – Vivevate ammassati in poco spazio? In un appartamento?
MB – Oh sì. Da piccoli dormivamo tre per letto. Tre persone nello stesso letto. Tre bambini. Uno testa, l’altro piedi, uno qui, uno lì. Certo, poveri e ammassati. L’appartamento era piccolissimo. Un’unica grande stanza, la cucina, e basta.
AG – Quand’eri piccola, Maria, ci pensavi al fatto che alcuni fossero poveri mentre altri erano ricchi?
MB – Sì, eccome se ci pensavo! Fu in quel periodo, credo, che cominciai a prendermela per il fatto di essere così povera. Le altre persone avevano così tante cose, perché anch’io non potevo averle? Capisci? E così diventai un po’ più grande. Non ero nata a Trieste comunque.
AG – Ah, quindi non sei nata a Trieste?
MB – Sono nata a Parenzo, in Istria. [incomprensibile] Non saprei dirti di preciso dove fosse l’Istria.
Menico – È una penisola, una piccolissima penisola.
MB – Ma quando ero piccola ci trasferimmo a Trieste. E lì sono cresciuta. Insomma sono nata in Istria ma sono cresciuta a Trieste.
AG – E i tuoi nonni vivevano in quella cittadina, a Parenzo?
MB – No, non li ho mai conosciuti, non li ho mai visti i miei nonni. Solo papà e mamma, nessun altro parente.
AG – Ok, c’è altro della tua infanzia che merita di essere raccontato?
MB – No, non credo ci sia altro da dire, questo è tutto quel che successe. I ricordi vanno indietro, vanno avanti e indietro. Non credo tu possa tirarci fuori qualcosa… non so.
AG – Beh è interessante.
Menico – Infatti, non preoccuparti.
AG – No, non preoccuparti Maria. Sai, è interessante sentirti parlare dei tuoi ricordi di infanzia…
MB – Va bene, allora ci provo, chiedimi quello che vuoi e io ti racconto tutto. Qualsiasi cosa ti interessi sapere me lo chiedi e io te lo racconto. Dai Anita, prenditi un drink.
Anita – L’ho già preso e ne prenderò un altro. Abbiamo tante domande diverse da farti. Mi ha incuriosito quanto fosse numerosa la tua famiglia e il fatto che tu fossi fra le sorelle più vecchie, la seconda più vecchia. Hai dovuto aiutare molto tua mamma?
MB – Hai una voce flebile, mia cara…
Anita – Lo so… scusa. Hai dovuto aiutare molto tua mamma occupandoti degli altri bambini visto che erano più piccoli di te?
MB – Ero la seconda di sei.
Anita – Esatto, per esempio passavi molto tempo in cucina?
MB – No, non cucinavo.
Anita – Faceva tutto tua mamma?
MB – Mi occupavo dei bambini. Non so come ho fatto a crescere dritta e non con la gobba, avevo sempre un bambino qui [indica il fianco destro] e un altro qua [indica il fianco sinistro]. E proprio in quei momenti pensavo: “Se un giorno mi sposo, non voglio avere figli, assolutamente”. Rimasi legata lì, con i bambini, fino ai quindici anni. Per questo motivo mai e poi mai… insomma è una delle ragioni per cui non ho avuto figli. Non ho avuto figli perché ero molto responsabile e non erano tempi da prendersi anche la responsabilità di fare figli… a quel tempo, intendo, quando i figli li potevo avere. Pensai che avrei potuto averli, ma non li volevo perché, mi dicevo, andrò in prigione, mi uccideranno, un giorno accadrà quel che deve accadere e non voglio abbandonare dei figli, tutto qua.
Nick – E quindi non hai mai avuto figli?
MB – Mai, mai, mai. Non li volevo e non l’ho mai rimpianto. Sono molto felice di non avere la responsabilità di aver messo al mondo qualcuno che avrebbe dovuto soffrire in questa società schifosa, con tutte queste cose orribili… ecco perché non volevo. Questa è la ragione. Dunque, dicevamo, stavo lavorando… Ho cominciato a lavorare nel 1911 presso i grandi cantieri navali e ho lavorato lì fino al 19… [Nello specifico, nel Cantiere San Marco dello Stabilimento Tecnico Triestino che comprendeva anche il Cantiere San Rocco, nelle adiacenze di Muggia].
AG – Ma sei andata a scuola prima giusto?
MB – Sì, certo, a scuola.
AG – Cosa hai imparato a scuola?
MB – Fifth grade, è tutto, non sono andata più in là della quinta. A quei tempi arrivare in quinta voleva dire che eri un professore. Non c’era l’obbligo scolastico. Ci andavi se i genitori volevano mandarti, in caso contrario ti mandavano a lavorare.
Menico – Il Fifth grade corrisponde a finire le elementari.
MB – Sì, ma chi ci arrivava? Non erano in molti ad arrivarci perché, specialmente se eri di famiglia povera, ti mandavano a lavorare. E questo è tutto… nella scuola slava, non in quella italiana. E così diventai un po’ più grande e…
AG – Andasti a lavorare a sedici anni dunque.
MB – Era il 1911, immagina, avevo 16 anni e lavorai fino al 1921. A quei tempi avevamo un gruppo, avevamo un grande edificio a Trieste dove c’erano gli uffici del sindacato, il circolo dei giovani, quello degli anziani, eravamo tutti sovversivi e facevamo un sacco di cose, andavamo a…
Fine anni Novanta-inizio anni Duemila, Audrey Goodfriend nella sua casa di Berkeley, California.
AG – Aspetta, facciamo un passo indietro, all’inizio eri socialista o eri anarchica?
MB – Socialista, sì.
AG – Come venisti a conoscenza del socialismo?
MB – Penso che fosse la cosa migliore che poteva accadere allora, capisci. E poi non c’era molto altro a quel tempo. A quattordici, sedici anni, non sai molte cose, e così… Il gruppo…
AG – Sono stati gli operai a parlartene? Sono stati gli altri lavoratori a parlarti delle idee del socialismo?
MB – Oh sì, certo. Se ne parlava in tutti i cantieri, tutti i giovani ne parlavano.
AG – Tutte le persone che lavoravano nei cantieri?
MB – Sì, sì.
AG – C’erano assemblee? O scioperi?
MB – Assemblee, e proteste quando cominciò la guerra, proteste dappertutto, ogni volta che potevamo fare qualcosa [ride]. [Incomprensibile]. Ed ero sempre sola, la sfortunella. Venivo sempre acchiappata perché stavo sempre davanti, non avevo mai paura, neanche se… Non saprei come spiegarti, ero… [incomprensibile] incauta credo, incosciente, come lo diresti? Nulla mi spaventava. Sono stata arrestata un paio di volte, mi portarono in prigione. Era durante una protesta, uno sciopero della marina mercantile, di tutti i lavoratori marittimi. Insomma era una roba grossa, stavamo protestando e sai com’è da ragazzi, si urla e tutto il resto. E a un certo punto arriva la polizia.
AG – Era una protesta per i salari? Per cosa protestavate?
MB – Sì, per i salari, per un trattamento migliore, sai come funziona con gli scioperi. C’era uno sciopero tutti i giorni per un motivo o per un altro. E quindi arriva la polizia e punta uno del mio gruppo, un ragazzo, e comincia a strattonarlo e spingerlo via. Ma noi eravamo in tanti e così mi sono lanciata cercando di tirar via quel ragazzo, pensando se mi butto poi verranno anche gli altri. E invece non ci aiutò nessuno e ci misero in prigione tutt’e due, il ragazzo e me [ride].
AG – Maria, quando è successo tutto questo, stai parlando del periodo precedente alla prima guerra mondiale, o durante la guerra?
MB – Subito dopo…
AG – Dopo l’armistizio?
MB – No, subito dopo l’inizio della prima guerra mondiale.
AG – Subito dopo l’inizio?
MB – Sì, 1915 o 1916, qualcosa del genere. E così mi buttarono in prigione. Un poliziotto mi chiese: “Che cosa vogliono quelle puttane?”. E io gli risposi: “Non sono puttane, stanno protestando e chiedendo pane per la gente. Tua madre e le tue sorelle può darsi che siano delle puttane, ma non quelle donne”. Mi diede un colpo con il calcio del fucile, proprio qui, e mi gettò sul pavimento. Mi trattennero per quindici giorni e poi mi rilasciarono. Un’altra volta mi arrestarono perché uno dei gruppi che frequentavo… Ora mi viene da dire carnevale, come posso spiegare in americano cos’è il tempo di carnevale.
AG – Lo sappiamo cos’è il tempo di carnevale.
MB – No, non lo sai cos’è.
AG – Beh ecco, abbiamo visto il carnevale nei film.
MB – È tipo Halloween.
AG – In Brasile è prima di pasqua.
Menico – Nel carnevale non c’è alcun tipo di implicazione religiosa, nessuna. Ma per il resto è la stessa cosa, ci si veste con costumi stravaganti.
MB – E insomma con il mio gruppo dovevamo andare in un paesino fuori Trieste. Prima facciamo una festicciola e poi decidiamo di andare un po’ in giro a divertirci. Nella mia città c’era il vento, tutto il mondo sa che da quelle parti arriva anche a 175 km orari. Faceva freddissimo. E praticamente avrei dovuto seguire il mio gruppo dove aveva deciso di andare, ma invece dissi: “No. Fa troppo freddo e c’è il vento. Non ho voglia di venire”. E così non andai. Andarono e poi rientrarono in città intonando canti tipo…
AG – L’Internazionale.
MB – Sì, canti anarchici comunque, non socialisti, qualsiasi cosa fosse. E a un certo punto arriva la polizia e vuole arrestarli. E loro… reagiscono, due poliziotti morti. E uno del mio gruppo con un polmone perforato. Lo portarono in ospedale. La mattina seguente venne il resto del gruppo e disse: “Ascoltate, ieri sera è successo questo, eravamo nel pieno della notte, l’una o le due del mattino. Diciamo che eravamo a casa vostra. Che abbiamo fatto festa qua”. Io dissi: “Va bene”. E così arriva la polizia e mi portano alla stazione di polizia per interrogarmi, e io dico: “No, non sono loro. Loro stavano lì a casa. C’è stata una festa fino a tardi, le sei del mattino”. Mentre io stavo negando e dando la versione alternativa, quello che era ricoverato in ospedale confessò. E così mi presi dieci giorni di carcere per falsa testimonianza.
AG – Vivevi ancora con i tuoi genitori a quel tempo?
MB – Sì, certo. Mio padre e mia madre se io dicevo voglio fare questo, rispondevano: “Di queste cose non vogliamo saperne nulla”. Loro…
AG – Approvavano?
MB – Approvavano, sì, sì. E niente, queste furono le due volte che mi arrestarono.
AG – Senti, ma il gruppo di cui stai parlando era il gruppo anarchico, giusto?
MB – No, sempre socialista. Anche i comunisti c’erano quel giorno: comunismo e socialismo si separarono dopo la guerra. Noi allora passammo con i comunisti, con il Partito comunista, no aspetta non con il Partito, ma con un gruppo giovane che c’era lì. Non andavamo molto d’accordo con i vecchi perché non ci lasciavano fare quel che volevamo fare. Noi volevamo uscire e protestare, fare qualcosa, e loro dicevano: “Poi sappiamo già come va a finire, incolperanno noi per quello che fate voi”. E così non andavamo molto d’accordo con loro. In ogni caso ci davamo da fare in giro… Lavoravo appunto ai cantieri navali e…
AG – Cosa facevi di preciso? Che lavoro svolgevi ai cantieri navali?
MB – Dunque, fammi pensare, se dici “Tecnica”, cosa si intende?
AG – Negli uffici tecnici?
MB – Esatto, lavoravo nell’ufficio tecnico. Dove gli ingegneri e i disegnatori tecnici realizzavano i progetti. E io avevo la mia scrivania in un angolo. Erano circa sessanta fra ingegneri e disegnatori, e io avevo la mia scrivania con il telefono e ogni volta che un ingegnere chiudeva un progetto mi chiamava: “Maria! Vieni, prendi il progetto, vai all’officina, dal direttore o dal padrone dell’officina. Consegna questo al responsabile dell’officina. Dai il progetto a…”. Quando invece un’officina aveva bisogno di un progetto, mi chiamavano e mi dicevano: “Vai a vedere se l’ingegnere ha terminato il progetto”.
AG – Eri la ragazza dei messaggi?
MB – Tipo una messaggera. E tutti i venerdì scendevo e andavo dall’autista, con una grande busta con tutte le cose per la banca, le buste paga… [incomprensibile]. L’ultimo venerdì del mese. Per l’intero reparto di ingegneria c’erano più di 10 mila lavoratori. C’era l’ufficio e tutto il resto, un sacco di roba. Tornavo verso casa dal cantiere con un carico pieno di denaro ma i soldi io non li vedevo mai. Arrivata in banca depositavo le carte e loro prendevano i soldi e li mettevano in una borsa, chiusa, e la caricavano sull’auto. Non ho mai toccato un centesimo. Non li vedevo neanche i soldi in ogni caso. Ecco, questo era il mio lavoro.
AG – Lavoravi cinque o sei giorni a settimana?
MB – Lavoravo sei giorni a settimana. Perché a fine settimana dovevo preparare la busta e le pratiche per la banca e tutto il resto. Solo la busta.
AG – La busta con le paghe.
MB – L’indirizzo, solo quello. E così lavoravo anche di sabato.
AG – Eri iscritta al sindacato? E c’erano i sindacati a quel tempo?
MB – Ma certo, tu li chiami unions, noi li chiamavamo sindacati. Sindacati, così li chiamavamo. Lavoravo anche il sabato, fino alle cinque. E avevo un amico all’ufficio che controllava gli orari. Gli dicevo: “Ho finito alle sei!”. E lui mi rispondeva: “Non ci provare! Hai finito prima”. E io: “Ho finito alle sei, metti alle sei!” [ride]. E questo è tutto. Poi arrivò il giorno in cui bruciarono… ne abbiamo fatte di ogni, capisci.
AG – Che cosa stavi cercando di fare? Sai, nel profondo di te stessa, cosa volevi realizzare?
MB – Un mondo migliore, in cui si potesse vivere meglio, in cui tutto fosse meglio. In cui le persone potessero avere una comprensione migliore delle cose.
AG – Avevi un’idea di come realizzarlo? Come pensavi di farlo?
MB – Beh, anche tu, eri ancora giovane… e stavi protestando da qualche parte. Mi sembra che anche tu l’abbia fatto…
AG – Certo.
MB – Ecco, noi cercavamo di fare la stessa cosa. Che vuoi che ti dica… Capire meglio le cose, avere una paga migliore, un trattamento migliore, gente migliore con cui vivere, tutto qui.
Menico – Detto altrimenti, stavi facendo ciò che dovrebbe essere naturale! [risa]
MB – Non pensavo che sarei riuscita ad abbattere il governo, o a installare al suo posto l’anarchia qui e ora.
AG – Partecipavi a gruppi in cui si discuteva di come sarebbe stato il futuro dell’anarchismo? Quando eri giovane, c’erano gruppi che discutevano di come sarebbe stato il mondo del futuro?
MB – Oooh. C’era di tutto, c’era una militanza molto più intensa di quella di adesso. Riunioni, letture, concerti, pic-nic, di tutto… e in quelle occasioni stavamo sempre a parlare di quelle tematiche.
AG – Dove si tenevano queste attività? In sale, in particolari edifici? Com’erano questi posti?
MB – Ah, all’aperto, in estate all’aperto. Se no c’era l’edificio di cui ti ho parlato prima, dove stava il sindacato con tutti gli uffici. Era un edificio di cinque piani…
AG – A Trieste?
MB – Sì, sempre a Trieste. Sono rimasta a Trieste fino al 1923. Quando arrivarono i fascisti noi eravamo lì, attivi. Andavamo in giro a caccia di fascisti. A caccia per scovarli. E per dargli qualcosa [incomprensibile]. Non hai idea di quanti compagni invece se ne andarono. E così cominciarono a prendere una certa forza, i fascisti dico.
AG – Avevi un compagno in quegli anni?
MB – No, no.
AG – Te ne stavi ancora per i fatti tuoi dunque.
MB – Avevo amici, sai com’è, amici giovani, e avevo un amico speciale, era il 1918. E la cosa era abbastanza stabile, lui diceva che ci saremmo sposati. Voleva sposarsi subito, ma io non volevo e gli dicevo: “C’è ancora la guerra e non mi voglio legare, non voglio fare niente prima che sia finita”. Questo compagno era stato esonerato dalla guerra perché lavorava ai cantieri navali. Poi, per questioni legate alla guerra, ebbe una discussione con il suo supervisore, un disaccordo, e quindi gli levarono l’esonero. Così gli dissero: “Adesso vai a combattere”. Ma lui non andò. Semplicemente non si presentò. Un giorno era lì, e il giorno dopo si stava nascondendo. Come si dice in inglese latitando?
MB – L-a-t-i-t-a-n-d-o in inglese.
Menico – Fugitive.
MB – Ah ecco sì. Fugitive, madonna! Fugitive! Così differente. In ogni caso non si presentò all’esercito. E se ne restò lontano dalla famiglia. Una mattina, era il 2 novembre 1918, rispuntò e mi disse: “La guerra è finita!”. In effetti da due o tre giorni in città non c’era più alcuna autorità, niente.
Menico – Tumulti.
MB – C’era l’esercito. E si sentivano spari qui e lì, perché stavano… [incomprensibile]. Gli austriaci se ne erano andati, si erano ritirati, e gli italiani avevano paura ad avanzare perché temevano fosse una trappola o qualcosa di simile. E così la città era in quella condizione. Questo compagno venne dunque a casa mia e mi disse: “Ehi, la guerra è finita!”. Poi disse: “Ieri stavo lavorando sulla mia barca, sistemando il fondo”, aveva una piccola barca a remi o qualcosa di simile, “e ho mollato lì tutti gli attrezzi. Adesso vanno tutti in giro, a rubare nei magazzini e tutto quello che trovano. Voglio andare a recuperare i miei attrezzi. Dai, andiamo insieme!”. Era abbastanza distante, come da qua a casa di Menico, circa 1,5 km. Stavamo camminando e mia sorella maggiore stava… le avevo detto: “Forza, vieni anche tu!”. E insomma stavamo camminando, a braccetto, lui in mezzo e io e mia sorella ai due lati. Arrivammo in quel posto e sentimmo degli spari qua e là, e questo compagno che era con noi a un tratto cade per terra e si accascia. Pensavo stesse scherzando o qualcosa di simile. Gli dissi: “Dai Mario”, si chiamava Mario. “Dai, forza Mario, alzati, non fare lo stupido”. Morto sparato. Senza capire da dove, chi o perché. Morì lì. Ecco questo era il mio fidanzato. E dopo questo fatto, mi venne il disgusto per tutto e poi… poi fecero irruzione sulla scena i fascisti, spuntarono ovunque, e tutti erano spaventati. Fermavano i camion, tiravano fuori la gente e la uccidevano o le facevano di tutto.
AG – C’erano i fascisti a Trieste nel 1918?
MB – 19… 19… era poco dopo. Bruciarono il nostro edificio.
AG – Puoi raccontarci cosa successe tra il 1918 e il 1921? Hai ricordi di quegli anni? Dopo la guerra e prima che arrivassero i fascisti, che cosa hai fatto in quegli anni?
MB – In quegli anni la Russia si stava battendo per affermare il suo potere e tutte le settimane c’era uno sciopero di un giorno per protestare contro qualcosa o per celebrare qualcos’altro, hai presente. Quando la Russia conquistò Leningrado, o quando conquistava una qualunque città, dal 1918 in poi si celebrava la conquista con un giorno di sciopero. E questo è il motivo per cui, io credo, i fascisti riuscirono ad alimentare l’espansione del fascismo: c’erano troppi disordini, in ogni momento e per qualunque motivo. Lo sciopero a volte era insensato, capisci, e così è successo quel che è successo, proprio in quel periodo.
Titolo dell’articolo sull’incendio al cantiere navale di Trieste uscito su “Il Piccolo della sera” il 1° marzo 1921.
AG – E tu stavi lavorando? Durante tutto quel periodo?
MB – Ho lavorato per tutto quel periodo.
AG – Ai cantieri navali?
MB – Sì, ho lavorato ai cantieri navali per tutto il tempo. Ed ero arrabbiata.
AG – E vivevi ancora con i tuoi genitori?
MB – Sì.
AG – Per tutto questo tempo sei rimasta a vivere con i tuoi genitori?
MB – Certo, sì.
AG – Una giovane donna non se ne andava dalla casa dei genitori?
MB – No! Nooo! Quando finii in prigione piangevo perché non potevo vedere mia madre… Insomma, per farla breve bruciarono la nostra casa, la Casa del lavoro, traduci tu…
AG – Union house.
MB – La bruciarono e io ero arrabbiatissima. Quindi ho cominciato a riflettere. Attivi, bisognava essere più attivi. Dovevamo ripagare occhio per occhio. Non credo che quegli scioperi e quelle proteste, che quelle robe mi interessassero molto… Andai a lavoro il lunedì e scoprii che avevano bruciato la Casa del lavoro nel fine settimana.
AG – Di che anni stiamo parlando? 1922?
MB – Era il 1921. Andai al lavoro e ancor prima di arrivare ai cantieri incontrai un gruppo di persone fuori dalle mura, proprio di fronte ai cancelli. Allora chiesi: “Che cosa ci fate qua?”. Risposero: “Hanno bruciato la Casa del lavoro, non andremo a lavorare oggi”. Al che risposi: “Io invece vado a lavorare”, e aggiunsi: “Non credo starete in sciopero più di uno o due giorni; perderete solo due giorni di lavoro e in cambio non otterrete nulla. Fate piuttosto la stessa cosa che loro hanno fatto alla vostra Casa del lavoro. Se decidete di ricambiare, sono con voi, altrimenti me ne vado a lavorare”. E così entrai e anche loro, uno alla volta, entrarono a lavorare. Quando si fecero le 9.00 circa, un ingegnere venne a dirmi: “Ehi Maria, hai notato questa confusione che serpeggia nel cantiere?”. Dissi: “Davvero? Dove?”. Non sapevo cosa stessero facendo e così mi alzai e andai a vedere cosa stava succedendo. Tutti stavano scendendo per le scale per raggiungere il pianterreno, in mezzo al cortile. Un gruppo di persone che conoscevo mi disse: “Che fai lì? Da quella parte ci pensiamo noi. Tu inizia da questa parte [ad appiccare il fuoco]. Brucia tutto, l’ufficio e chi ci rimane”. Risposi: “Ci sto ma vengo con voi. Altrimenti non lo faccio”. Così andai con loro e cominciammo ad appiccare il fuoco di qua e di là, al magazzino… Il direttore saltò a terra, si ruppe una gamba e lo portarono in ospedale. Dato che cominciarono a scappare via tutti, pure i dipendenti, radunarono alcuni ingegneri che lavoravano nello stesso ufficio e li chiusero lì dentro… [incomprensibile]. Mi avvicinai a loro e mi chiesero: “Hai dei fiammiferi?”. Fumavo a quel tempo e così gli diedi i fiammiferi. Gli ingegneri rimasero lì tutto il giorno e a un certo punto chiesi agli altri: “Beh che pensate di fare? Perché trattenete queste persone?”. I cancelli erano chiusi, barricati, e fuori c’era la royal guard, la guardia regia, una polizia speciale.
Menico – Carabinieri?
MB – No, non erano carabinieri. C’erano urla, frastuono, bing-bung. Ancora adesso tutti gli edifici sono pieni di buchi. Dunque dicevamo, gli ingegneri erano sempre lì e allora chiesi: “Che cosa ne volete fare di questa gente? Non c’entrano niente con tutta questa cosa. Vi identificheranno e finiremo tutti in prigione: lasciateli andare”. Così aprirono la porta per far passare delle sigarette e in cambio fecero uscire gli ingegneri. E così erano tutti fuori, mentre il cantiere bruciava come l’inferno.
AG – Era pericoloso?
MB – Non molto. Perché era tutto di ferro. E così rimanemmo in tre, io e due compagni. Tre giorni dopo un plotone di carabinieri si presentò a casa mia e mi arrestarono. Il giorno prima che arrivassero i carabinieri tornai al lavoro e il guardiano che stava ai cancelli, il portinaio, quello che timbra il cartellino quando entri ed esci, mi disse: “Cosa ci fai qua? Vattene, vattene!. Ti stanno cercando”. “E perché mi stanno cercando? Non ho fatto nulla”. “Stanno cercando proprio te. Non entrare, non entrare”. “Va bene, me ne vado”. E così non andai a lavorare. Ma il giorno dopo sono venuti ad arrestarmi. In prigione eravamo in sei o sette… E lì siamo rimasti. Mi liberarono dopo due mesi. Mi liberarono perché continuai a dire: “Non so niente. Ho solo visto la confusione e sono andata a vedere cos’era successo. Ma non so niente”. E così mi liberarono… Fecero il processo ma furono tutti assolti perché non c’era nessuno che potesse testimoniare è stato quello o quell’altro. Fu tutto il gruppo.
Immagini dei resti carbonizzati del cantiere pubblicate sul “Piccolo” del 6 marzo 1921.
AG – Com’era la prigione? Puoi raccontarci cosa ricordi della prigione? Due mesi sono tanti.
MB – Sì, un sacco di tempo. Cosa vuoi che ti racconti?
AG – Le donne erano rinchiuse nella stessa cella o avevate celle individuali? Quali erano le condizioni?
MB – Le condizioni erano pessime. Forse non sei mai stata in prigione, ma le prigioni sono sempre uguali ovunque tu vada. Cibo scarso, giacigli miseri, tutto misero. Insomma, era una prigione, difficile dire se una prigione è meglio o peggio di un’altra.
AG – Non intendevo chiederti se era bella o brutta. Cosa hai provato a essere rinchiusa in prigione, cos’è stato per te. Avevi degli amici su cui appoggiarti? C’erano altri compagni?
MB – Intendi fuori?
AG – No, in prigione.
MB – No, in prigione no. Le donne lì non erano interessate a queste cose. C’erano ladre e prostitute o cose del genere. E quando c’era qualche lamentela da fare, mi dicevano: “Ehi comunista, ehi anarchica…”, e volevano che fossi sempre io a protestare [incomprensibile]. A portare le loro lamentele. E allora io dicevo: “Va beh, vediamo che si può fare…”. Ma non volevo immischiarmi troppo in quelle cose. Ecco questa era la prigione. E dopo… fu la fine di Trieste.
AG – Per uscire di prigione hai dovuto prendere un avvocato o ti hanno lasciato andare?
MB – No, [prosciolta] in istruttoria.
Menico – È una fase della procedura giudiziaria.
MB – Dissero di non aver trovato prove… Mi chiesero: “Lei è una propagandista?”. E io risposi: “Non sono nulla, non so niente”. E così non sapendo nulla mi lasciarono andare. Poi i fascisti presero il potere molto velocemente e non era più possibile vivere a Trieste, per tutte le cose che succedevano. Il primo che passava ti metteva le mani addosso, insomma era…
AG – Anche tua sorella era militante? Tua sorella maggiore?
MB – Simpatizzava, ma non era attiva. No, non era assolutamente attiva. Così decidemmo di andare in Francia. Me ne andai con il mio primo compagno, vivevamo assieme a quel punto. Dopo che uscii di prigione, divenne il mio primo marito. Avevamo vissuto assieme ma non eravamo sposati perché non credevamo in queste cose. E così emigrammo… fu per – non so se conosci la storia – per Matteotti [incomprensibile]. Successe proprio in quel periodo, e fu molto brutto. Chi era conosciuto, era sempre il primo a essere preso. Quindi decidemmo di andarcene in Francia. Ma lì niente lavoro, non sapevamo la lingua, nessun commercio, niente di niente. Fu molto dura vivere lontano da casa. Alla fine trovammo dei lavoretti qua e là.
AG – Hai imparato il francese?
MB – Oh certo! Lo parlavo anche molto bene. Adesso sono cinquantacinque anni che non ho occasione di parlarlo con qualcuno. Ma sì, lo parlavo molto bene. L’ho imparato. Ero giovane e volevo imparare. Hai presente, se sei giovane è facile.
AG – Vivevi a Parigi, Maria?
MB – Parigi.
AG – So che Dick dice di averti conosciuta a Parigi [Probabilmente Adurey si riferisce a Dick Perry, pseudonimo di Ernesto Bonomini, Pozzolengo 1903 – Miami 1986; il 20 febbraio 1924 a Parigi spara al giornalista Nicola Bonservizi, vecchio collaboratore di Mussolini e capo dei fasci italiani in Francia (che morirà dopo alcune settimane di agonia), atto per il quale viene condannato a otto anni di reclusione. Lascia l’Europa nel 1939 e si stabilisce a New York nel 1940 dopo un soggiorno in Canada. Rimarrà negli Stati Uniti fino alla morte].
MB – No, non credo che mi abbia conosciuto lì. A Parigi era in prigione.
AG – Pensavo avesse detto di averti incontrato lì.
MB – No, non credo. Ti ricordi l’anno in cui Dick finì in prigione? No, non mi ricordo. Dov’è Paolo?
Menico – È andato via. Fa caldo qui.
MB – Credo che Dick… credo di averlo conosciuto a New York quando arrivò qua. So tutta la storia, che era in prigione, ci rimase otto anni. Insomma, ci arrangiavamo così, e mio marito…
AG – Avete incontrato altri compagni francesi?
MB – Bah! No, non molti francesi. Solo alcuni erano francesi, ma avevamo un nostro gruppo.
AG – Gli italiani stavano assieme?
MB – Oh sì, tutti gli italiani insieme. Ed eravamo tutti lì: [Camillo] Berneri, Gigi Damiani, Giovanna [Caleffi] Berneri, Virgilia d’Andrea, [Armando] Borghi.
Caricatura di Gigi Damiani (1876-1953) pubblicata in suo ricordo su “Umanità Nova” nel 1953.
AG – Tutti insieme in un unico gruppo.
MB – Tutti insieme. E c’era sempre un incontro, una riunione… come si dice in inglese conferenza? Lecture! Sto facendo un po’ fatica a trovare le parole giuste…
AG – Stai andando benissimo!
MB – Se l’intervista fosse in italiano in tre-due-uno avremmo finito! [Risa] Tornando a Parigi, lì era molto difficile tirare a campare, e mio marito se ne voleva andare perché lo stavano cercando insieme ad altri. Non li trovarono, ma a un certo punto vennero a casa mia, dove viveva anche mia sorella minore con un bambino piccolo, e quando vennero ci arrestarono tutti e tre e ci portarono in prigione, in Francia, perché continuavamo a dirgli che non sapevano dove si trovassero quelli che cercavano. Stavano lì e dicevano: “Non lo sai? Eh, non lo sai? Non sai dov’è tuo marito?”. E io: “Non lo so. Non so niente”. E così restammo 15 giorni in cella, insieme al bambino che aveva appena due anni.
AG – Anche il bambino? Pure lui in prigione?
MB – Certo. Non sapevano dove altro metterlo. Comunque mia sorella non c’entrava niente, era solo che viveva lì con noi. E in prigione, in Francia, prima del processo ti mandano in cortile a prendere aria, sai com’è, un po’ d’aria fresca. E ti mettono anche un cappuccio. In quell’occasione dissi alla guardia: “Fatemi prendere il bambino così lo porto un po’ fuori”. Lui rispose “No, no, vai a divertirti da sola, senza portare il bambino”. E così non lo fece venire. Ci trattennero circa due settimane e poi ci fecero andare. La prigione era a Versailles e così mio marito mi raggiunse prendendo un battello. Ma poi io e mia sorella eravamo sole solette e abbiamo cercato un lavoro. Sei mai stata a Parigi?
AG – Sì, ci sono stata.
MB – Hai presente la Maison du Café? Sai cos’è? Era un bar dove facevano il caffè con la grossa macchina per fare l’espresso. E io lavoravo lì, stavo in una piccola cabina e allungavo la bottiglia quando qualcuno ordinava un drink passandola dalla mensola al cameriere affinché la portasse a… Questo a grandi linee era il mio lavoro. E dopo tutto questo…
AG – Ma quanto tempo sei rimasta a Parigi?
MB – Dal 1923 al 1929.
AG – Sei anni.
Nick – Tuo marito quando se n’è andato?
MB – Lui se n’è andato nel 1927. Ha lasciato Parigi per venire qua. Mentre io imparavo bene il francese… addirittura non capivano che accento avessi, pensavano venissi dal sud, da Marsiglia o da qualche altro posto del sud. L’accento non era affatto male, proprio come il mio accento inglese, d’altronde. Ora non lo parlo più così bene: se parlo da sola, tra me e me, lo parlo ancora bene, ma se devo rispondere a qualcuno, le parole non mi vengono rapidamente le parole per rispondere, hai presente? Poi Mussolini inviò tutte le sue spie per scovare gli anti-Mussolini. E una volta Filosseri [non identificato]… non sai chi era Filosseri, vero? Non te lo ricordi? Inviarono qualcuno per catturarlo e lo arrestarono per riportarlo in Italia, dove lo misero in carcere per trent’anni o più. Lo espulsero e se lo portarono via. E poi c’era quell’uomo che fece credere a Filosseri di essere suo amico, e invece era una spia. Noi poi abbiamo saputo che era stato lui a denunciarlo e a farlo deportare in Italia. Alcuni amici, tutti compagni, dissero: “In qualche modo gliela faremo pagare”. Questa spia stava in Belgio, così i compagni mi dissero: “Vai! Vai a Bruxelles”. E così andai a casa di Gigi Damiani. Non so se te lo ricordi, era uno scrittore e un propagandista. Arrivai lì e lo cercai per tutta Bruxelles, e questo compagno, Gigi, venne con me a cercarlo. Alla fine lo trovammo. A quel punto feci venire due compagni da Parigi, ma nel frattempo quello si era spostato a Liegi. E così andammo a Liegi, i due compagni lo trovarono e gli spararono. Capito? Ma non morì e appena uscì dall’ospedale fuggì in Italia immediatamente.
Insomma, pochi giorni dopo ero già in Francia e stavo a casa di amici, appena fuori Parigi, perché non avevo una casa dove stare in quel periodo. Vedi mi arrangiavo un po’ di qua e un po’ di là. E una mattina arriva la polizia. C’era anche un bambino piccolo con me. La madre mi aveva detto: “Maria, vado a comprare il latte, prenditi cura del bambino”. Aveva due anni e stava ancora nella sua culla. Insomma arriva la polizia e mi dice: “Sei tu Maria Simonetti?”. E mi sembra risposi: “No, sono Linda” o qualche nome simile, non ricordo quale. “No! Tu sei Maria Simonetti”. “No, no, no! Vi state sbagliando, non sono io”. E proprio in quel momento il bambino mi chiamò: “Maria! Dov’è la mamma? Voglio il latte”. “Ah! Allora non sei Linda, sei Maria!”. E così mi arrestarono. Il governo belga voleva che fossi espulsa per essere riportata in Belgio ed essere processata per tentato omicidio o qualcosa di simile. Infatti dicevano: “Una donna insieme a un uomo è venuta a cercare quell’altro uomo ecc.”. E così mi misero in prigione in attesa di essere espulsa. Ma avevo un buon avvocato e così i francesi non acconsentirono: “Per queste faccende politiche, non espelliamo nessuno. Non estradiamo prigionieri politici”. C’era un prete che veniva tutti i giorni (ero da sola in cella), veniva in prigione ogni volta che era a Parigi e mi parlava. “Ma perché ti interessi di questo e di quello…”. E così stavamo sempre a discutere. Diceva: “Come mai vieni in chiesa?”, e io: “Vengo in chiesa per sentire le suore cantare e per uscire dalla cella e camminare un po’”. Me ne stavo lì in piedi mentre tutti gli altri erano inginocchiati a pregare. Io invece stavo lì dritta in piedi sulla porta e il prete veniva sempre a parlarmi. Così un giorno si avvicinò e mi disse: “Sai, ho visto i giornali e c’era scritto a caratteri cubitali che Maria Simonetti, Gigi Damiani, Mario S. e vari altri sono stati arrestati per questo motivo…”. In realtà molti di loro non avevano niente a che fare con questa cosa, solo Gigi che era venuto con me per cercare quel tipo, capisci. E poi mi disse: “Ho comprato [un giornale]… ma mi sono sbagliato”. Infatti aveva comprato un giornale anarchico, “L’Humanité” [Maria qui si confonde: “L’Humanité” era un giornale socialista fondato da Jean Jaurès nel 1904 poi diventato nel 1920 l’organo ufficiale del Partito comunista francese]. Allora gli dissi: “Perché mai l’hai comprato? Allora ci credi in quelle cose?”. “No, non ci credo”. “E perché no?”. E così ricominciavamo a discutere. Molte volte era più educato di quanto lo fossi io, quando non sapevo come uscirne dicevo: “Sei fortunato perché non so parlare bene in francese, se no te lo spiegavo io il perché”. Insomma, svicolavo per non ammettere che ero stupida. Rimasi lì per più di un mese, poi arrivò il processo e lì mi chiesero: “Lo sapevi che quell’uomo era una spia?”. Risposi “Sapevo che si trattava di una spia. Mussolini lo aveva inviato qua per dare la caccia alle persone che sono contro di lui. È questo il motivo per cui volevamo eliminarlo. E questo è tutto”. Ed è anche la fine della storia, tutto qua.
Nick – Ti lasciarono andare?
MB – Sì, e dopo venni qua. Mio marito aveva mandato qualcuno a recuperarmi a Parigi per portarmi qui, e qui sono. Questa è la mia storia fra mille altre piccole cose accadute qua e là. Se vuoi sapere qualcosa di più chiedimi pure.
Articolo uscito su “L’Adunata dei Refrattari” in occasione dell’arresto di Maria.
Menico – Potrebbe sembrare una storia un po’ movimentata, ma così è la vita.
MB – È la mia vita e ora…
Menico – Non intendevo solo la tua vita, la vita di tutti è movimentata se sei coinvolto in questo e quello.
MB – Sì, c’è una cosa che mi piace nel ricordo di quei giorni, mi piace ricordare che non avevo paura di niente ed ero pronta a tutto, questo è il ricordo a cui tengo di più, tutto qua.
AG – Era insolito per una donna essere così attiva a quei tempi?
MB – Oh! Era molto insolito! Ero l’unica credo. C’erano alcune che partecipavano, ma non alle azioni, non in cose che potevano metterle nei guai. Io invece ero sempre in mezzo ai guai, tutto il tempo, perché ero sempre la prima a partire e a fare, a cercare di fare qualcosa, capisci?
AG – Perché Maria? Avevi un’idea del perché lo facessi?
MB – … Un’idea… cosa facciamo, perché siamo anarchici? Quello che facevo, era per un mondo migliore, per rendere tutto migliore! Non so! Cosa vuoi che ti dica?
AG – Beh niente, non voglio che tu mi dica niente per forza.
MB – Bene, ascoltami. Perché sei anarchica?
AG – Alcune persone mi chiedono perché io sono anarchica mentre altri bambini che sono stati educati come me non sono anarchici, capisci? Perché? Che cos’è che fa la differenza? Mi è stato chiesto questo. Ci sono altri bambini i cui genitori erano anarchici ma che non sono diventati anarchici a loro volta.
MB – Oh certo che non lo sono diventati.
AG – I miei genitori erano anarchici.
MB – Erano religiosi?
AG – No, erano anarchici.
MB – Ah, erano anarchici?
AG – Sì.
MB – Beh, è questa la differenza dalle persone religiose, i loro figli diventano sovversivi (oh Madonna!)… radicali, diventano radicali. Dall’altro lato, i figli degli anarchici, non sanno cosa significhi questa cosa. Pensano “Cosa sta facendo mio padre…”.
Menico – Una sorta di reazione.
MB – Pensano “Che cosa vuole? Che cosa sta cercando?”. Non capiscono.
AG – Ma vedi, anche tu eri diversa, per esempio le tue sorelle non sono diventate delle radicali ma tu sì.
MB – Significa che essere una ribelle era una cosa innata in me. Il fatto di non accettare le cose come invece fanno gli altri. Questa è la ragione. Almeno credo. Un'altra cosa. In famiglia avevo, no… quando ero in prigione. Mio madre mi portava del cibo ogni tanto e mio padre diceva “Ecco, portale da mangiare. Così poi quando esce, ci torna un’altra volta”. Ma dopo, quando ci furono tutti quei casini, al lavoro tutti gli chiedevano “Ma quella Simonetti, è tua figlia?” e lui era diciamo orgoglioso. Qualunque cosa avessi fatto, non si vergognava quando finivo in prigione ma anzi ne andava orgoglioso. Capisci, almeno aveva qualcosa, quasi. Non ho mai parlato così a lungo in inglese, Madonna! Mi si attorciglia la lingua, mi viene da parlare in italiano.
AG – Lo so, lo so.
Menico – Bevi un po’ d’acqua.
AG – Ho un’altra domanda da farti. Quando eri socialista dove hai sentito parlare delle idee anarchiche per la prima volta.
MB – Oh, perché dopo ho avuto amici che erano anarchici, hai presente, al lavoro. Ho detto “Gesù, questo è il massimo”. E così ho cominciato a girare con loro e a capire, ho pensato che ero nata in quel modo lì capisci, perché, non so, perché nessuno mi ha insegnato niente, semplicemente me la prendevo con qualsiasi cosa mi desse fastidio, tutto qua. Ed ero nata così. Così ho cominciato a girare con questi amici, anarchici, e così via… era prima che dessimo fuoco ai cantieri. Prima del 1921.
AG – Ci furono persone che vennero a Trieste per tenere comizi, persone come Malatesta o altri?
MB – Oh mia cara…
AG – Chi hai sentito parlare in quegli anni, te lo ricordi?
MB – No. Armando Borghi e Virgilia D’Andrea vennero a Trieste certo. E altre persone del posto, erano…
AG – C’era un giornale anarchico a Trieste?
MB – No, c’era “Germinal” ma non usciva regolarmente, solo quando avevano i soldi hai presente, quando ce li avevano, stampavano. Anche adesso c’è ancora “Germinal” ma non è…
AG – A Trieste? Anche adesso?
MB – Sì, sì. Tutti i mesi o quando hanno i soldi.
AG – Ma la propaganda anarchica non era in jugoslavo vero? Era in italiano? Gli anarchici parlavano italiano giusto?
MB – Certo, parlavano italiano e quando c’era un comizio, o qualcosa di simile, potevi parlare di quello che volevi ma ti dovevi prendere dei rischi, se c’era la polizia voleva arrestarti per aver detto qualcosa di troppo rispetto a quello che si supponeva potessi dire. E ti mettevano in prigione. Prima quando c’erano gli austriaci era meglio sai, ma non conoscevo l’anarchismo, non capivo nulla. In realtà tolleravano di più perché si parlava in italiano, volevano tenere gli italiani tranquilli. Perché pensavano che avrebbero preso il controllo della città.
Menico – La maggior parte dei militanti socialisti scivolò naturalmente verso l’anarchismo, fu una transizione quasi naturale, senza strappi o altro. Cambiavano il loro ambiente fintanto che ci rimanevano dentro, la loro città, il loro paese, rimanevano fedeli a quello che avevano imparato per primo. Ma quando cominciarono a girare ed entrarono in contatto con idee un po’ più alte, di rilevanza sociale…
MB – Tu non hai cominciato da socialista? Non sei diventato anarchico dal primo giorno.
Menico – È quello che sto dicendo. Ci scivoli dentro. Ero a New York…
MB – Cosa pensi sia migliore, quale ti piace di più?
Menico – … e c’era un giornale anarchico, sono semplicemente entrato e ho cominciato a lavorare. Nessuno transizione dolorosa come quando vivi, ad esempio, in una famiglia religiosa e a sedici diciotto anni te ne vuoi andare, è molto doloroso. Mentre dall’esperienza personale e da quella di altre persone, semplicemente trovi il tuo posto e cominci da lì.
MB – Ti fai degli amici, loro pensano e ti fanno capire che quello è il modo migliore e tu puoi scegliere la tua attitudine per capire cosa è meglio per te. Vuoi il meglio, capisci, e stai con quelle persone che… [conclude in italiano].
Menico – Per me la cosa più incredibile è come delle persone praticamente analfabete, la stragrande maggioranza degli immigrati proveniente dall’Europa era analfabeta, riuscissero ad integrarsi in un movimento che aveva un discreto standard intellettuale; che richiedeva un approccio intellettuale più alto. Ma loro lì stavano, lavoravano dodici ore al giorno come schiavi e di notte leggevano il giornale, che capissero o meno quel che c’era scritto. Continuavano a leggere finché non imparavano a leggere e scrivere. Richie di Gilroy, quell’uomo ha un’educazione da college, puoi paragonarla con un’educazione da college. Ha fatto solo la terza elementare come lei o come la maggior parte della sua generazione. Ma c’era quella forza di volontà, capisci. Paolo a New York era l’anarchico più impulsivo della città. Era analfabeta ma perbaccco imparò a leggere l’“Adunata”. Non sapeva scrivere, ma sapeva leggere e capiva.
MB – Chi?
Menico – Paolo.
MB – Gli anarchici sono secondo me le persone migliori del mondo. Non penso ci sia nessuno meglio di loro. Molti dicono di esserlo, ma sono in realtà lontani da essere dei veri anarchici.
Nick – Cos’è un “vero anarchico”?
MB – Oh, è onesto, sincero e non egoista. Tutto questo e anche altro. E alcuni dicono “Gli anarchici, più soldi hanno e più ne vogliono”. C’è stato solo un uomo che quando l’ho sentito mi ha fatto quasi piangere. Bortolotti. Lo conosci Bortolotti. Era proprio qui una sera parlando e mi stava dicendo come dare soldi a questo e a quello. E io dissi “Accidenti, un sacco di soldi”. E lui disse “Questi non sono soldi miei, sono i soldi fatti dai lavoratori”. Mi è venuta la pelle d’oca quando ho sentito queste parole perché da queste parti le persone più hanno e più vogliono! E poi dicono di essere anarchici! È questo che intendo. Per questo ti dico che i migliori anarchici sono quelli di cui si dice non siano egoisti come altri.
Anita – Il tuo compagno era anarchico, Maria?
MB – Certo. Entrambi. Ho avuto due compagni.
Anita – Bene Maria, se tu e il tuo compagno eravate anarchici…
MB – Sì…
Anita – E non avete avuto figli…
MB – Non li volevamo.
Anita – Eri quindi molto diversa da molte delle persone che conoscevi, quindi stavo pensando, ti è capitato di doverne parlare spesso? La tua relazione era diversa dalle altre? Condividevate le faccende domestiche? Entrambi avevate un lavoro fuori di casa?
MB – No, con il primo compagno, entrambi lavoravamo fuori casa. Con il secondo, io no. Ho lavorato per pochi anni, perché mi presi qualcosa. Con il mio primo compagno eravamo così poveri che non avevamo molto da condividere o di cui vantarci. In ogni caso provammo a cercare un lavoro durante la Grande depressione. E lavoravamo entrambi, io in un posto, lui in un altro. In due portavamo a casa 16 dollari a settimana. 16 dollari in due persone.
AG – Chi cucinava?
MB – Oh [ride] cucinavo io. Fagioli, patate, spezzatino, spaghetti e basta. Mangiavamo questo regolarmente. E a quel compagno gli dissi “Lavoro perché voglio andare a lavorare”. E lavorai per cinque anni. Bonvicino [il secondo marito] aveva una sorta di artrite e un inverno se ne andò da solo a Miami. Io me ne restai a casa, col cane. Non volevo lasciarlo solo, sono un’amante degli animali sai. Divento pazza per i miei animali, potrei morire per loro. Insomma se ne andò da solo e disse “Che cosa farai qua da sola per tre o quattro mesi?”. E così mi trovai un lavoro e lavorai per cinque anni. E quando tornò a casa non voleva che continuassi ad andare. Gli dissi “Lasciamo andare, mi piace il lavoro ecc.”. E così continuai a lavorare finché non spostarono l’officina…
AG – Che cosa facevi? In cosa consisteva il tuo lavoro?
MB – Lavoravo in fabbrica. Facevano gli isolanti per radio, televisioni, areoplani…bachelite. È quello che ho sul tavolo, su quel tavolino da caffè lì, viene dall’officina in cui lavoravo. Andavamo con la macchina e prendevamo i pezzi… un lavoro come un altro, niente di speciale. Ci lavorai per cinque anni e lo stipendio con cui cominciai era di 30 dollari a settimana.
Nick – Che anni erano?
MB – 1950. Cinquanta centesimi all’ora, pensa.
Menico – Più di quanto guadagnassimo qua, 25 centesimi! [ride]
AG – Non nel 1950.
Menico – No, non nel 1950, hai ragione.
MB – Dunque, lo sapete, il mio altro marito partì per la Spagna ma non tornò indietro. In ogni caso, non avrebbe potuto tornare. E così rimasi sola per circa quattro anni. Lavorando due giorni a settimana, fu un periodo molto doloroso. E poi incontrai questo ragazzo, un compagno, Bonvicino. Andavo dal dottore, stavo sempre peggio, mi facevano delle iniezioni, per farmi riprendere e così via. Tutti i miei amici… insomma è successo questo punto. E ho vissuto con lui vent’anni esatti. Con lui, il secondo, mi sposai. Ci sposammo legalmente nel 1941 e lui morì nel 1961.
Anita – Perché decidesti di sposarti? Perché questa volta sì?
MB – La seconda volta? Perché ero davvero sola e povera…
Anita – Ma intendo, perché un matrimonio legale?
MB – Ah perché un matrimonio legale! Perché lui era di famiglia cattolica come tu sai, e per loro se stavi con una donna e non ti sposavi era come se stavi con una donna di strada… hai presente. Sai come sono fatti i siciliani… Ma non mi importava di questo, alla fine ho deciso di farlo perché mi disse “No, sono la mia famiglia, e se non faccio così non mi prendono sul serio. Non mi lascerebbero neanche tornare a casa per fargli visita e cose così”. Fu per compiacere qualcun altro, non me.
Venezia, 2000, convegno Anarchici ed ebrei, storia di un incontro: Claudio Venza e Audrey Goodfriend mentre ballano nel chiostro della Facoltà di Architettura.
Nick – Quindi, quando sei arrivata in questo paese sei venuta a vivere a New York?
MB – A New York sì.
Nick – E quando sei venuta in California?
MB – In California arrivai nel 1973.
Nick – E tutti gli anni precedenti sei rimasta sempre a New York?
Maria – Sì, sempre a New York.
Nick – In città? A New York City?
MB – Sì, in città. Nel Bronx, ne hai mai sentito parlare? Furono tempi duri quelli, molto duri. C’era la Grande depressione, non si trovava lavoro. Ti raccontavo che il mio primo marito lavorava – non il secondo, il primo – quello che nel 1927 se ne è andato via. Nell’aprile del 1927? Menico, ti ricordi? Memo e tutta la gang. Quand’è che sono partiti per la Spagna?
Menico – Nel ‘37.
Nick – E anche lui andò in Spagna?
MB – Andò in Spagna e ci restò. Voleva provare a diventare pilota di aerei. E così questo gruppo di compagni da New York partì per la Spagna. E così il mio compagno mi disse “Tu resta qua. Vedrai, in Spagna vinceremo. Vediamo come vivere lì e così puoi venire anche tu”. E invece è successo tutto il contrario e poi lui è tornato a Trieste, la sua città natale, ed è morto lì. Ecco il mio primo marito.
Nick – E quand’è che è tornato a Trieste? Quando ha lasciato la Spagna?
MB – Oh, credo fosse il 1938, più o meno. Quando era tutto finito.
AG – Dopo che gli anarchici furono uccisi in Spagna. Dopo l’uccisione di Berneri.
MB – Oh sì, sì, dopo la vicenda di Berneri. Quando lo uccisero quella fu la fine.
AG – Ti ricordi se Memo faceva parte del gruppo “Los amigos de Durruti”?
MB – No, no, no. Non era nella Durruti, no.
AG – No, non la colonna. Intendo il gruppo “Los amigos de Durruti”.
MB – Ah sì, c’erano anche gli “amici”, sì. Cercarono di mettere su la colonia per gli orfani. Sì comunque era coinvolto in varia misura. Non credo siano riusciti a concretizzare qualcosa alla fine. Quando partì gli dissi: “Perché vuoi partire?”. Era molto umiliante non poter trovare lavoro, non poter lavorare, non poter avere questo o quello… nel 1937 era così, molto brutto. E lui era disgustato da questo più che da tutto il resto. Non sopportava di dover fare una vita misera. E così pensò che forse sarebbero riusciti a vincere, che ci sarebbe stato un mondo migliore. Era già vecchio. Credo avesse 42 anni quando se ne è andato, aveva 3 anni più di me… aveva 45 anni. Cosa pensi di fare? a 45 anni vai a fare la rivoluzione, devono tenerti su per farti stare in piedi. Troppo vecchio per queste cose, capisci? E così non è più tornato, e dopo che mi sono risposata ho avuto una vita tranquilla. Avevo abbastanza da mangiare o comunque non dovevo preoccuparmi di morire di fame. È morto troppo presto. Menico dice sempre che gli infarti (lui è morto di infarto) arrivano prima dei 70 anni. “Se hai più di 70 anni non devi preoccuparti degli infarti” dice. Non dici sempre qualcosa di simile?
Menico – Non ti ho sentito Maria.
MB – No, non hai sentito. Ho detto che tu dici sempre che l’attacco di cuore ti viene verso i 65-68 anni e che se passi i 70 l’attacco di cuore non ti viene più. L’hai detto tu.
Menico – Non necessariamente.
MB – Forza gente, bevete qualcosa, non abbiate paura. Oh la Madonna!
Anita – Maria, quando stavi a New York c’erano molte più donne attive politicamente?
MB – Cos’è che vuoi sapere? Non ho capito la domanda.
AG – Dov’è il tuo bicchiere? Prendi questo, non l’ha usato nessuno. Ok! Ok, stop! Maria! [Maria versa ad Audrey del vino di Madeira riempiendole il bicchiere fino all'orlo].
MB – Menico, anche tu!
Menico – No, no, neanche per sogno!
Anita – Dicevo, quando vivevi a New York, lì c’erano molte più donne attive politicamente? E single? O eri sempre una delle poche?
MB – No, no, no, venivano quando c’era qualche iniziativa di intrattenimento, allora sì venivano, ma erano solo… erano le mogli dei compagni, niente di più. Le donne erano molto poche. C’era Giovanna Berneri. Ero molto amica della Berneri. Ma Giovanna non partecipava mai al movimento. Dopo la morte di Berneri [Camillo] venne… prese il… Ma tutte le volte che andavo a casa sua per parlare con suo marito mi diceva “Vuoi mangiare qualcosa?”, noi ci spostavamo in una stanza e lei andava in un’altra. Non partecipava mai.
AG – In quei giorni, quando eri giovane, gli uomini anarchici parlavano mai del perché le donne non fossero interessate?
MB – No.
AG – Non ci pensavano neanche al fatto che si sarebbe potuto parlarne. Non ne parlavano proprio? Non volevano essere più…?
MB – Avrebbero voluto, ma non lo fecero. Alcuni addirittura le accompagnavano a messa la domenica mattina… Una vita serena e tranquilla, volevano solo quello, non provavano a cambiarle.
AG – Non ti ha lasciato perplessa riflettere su come gli uomini anarchici in Italia pensavano di poter creare un mondo anarchico senza coinvolgere le donne? Ci pensavano?
MB – Beh, non credo gli importasse molto, agli uomini dico. Su questo ho sentito dire agli anarchici che le donne anarchiche non sono buone a niente… perfino gli anarchici lo dicevano…
AG – Stiamo parlando dell’Italia, mi riferisco a quello.
MB – Oh! In Italia era la stessa cosa.
Menico – Abbiamo fatto alcuni incontri, in particolare nel ‘72. Per questi incontri ci vedevamo in un ristorante e non ho mai visto una donna nel gruppo. Questa questione ce la siamo portata dietro, è ancora aperta anche oggi. Non c’erano tanti compagni nel ‘78, ma nel ‘72 e nel ‘57, sì ce n’erano un bel po’.
MB – Di donne?
Menico – No, di compagni in generale.
MB – Ah, di compagni.
Menico – Ma nessuna donna. Ci trovavamo in osteria, un paio di drink, una scodella di zuppa e si discuteva delle varie questioni.
AG – Per i giovani anarchici oggi è diverso.
MB – Sai un sacco di gente pensa che le donne che si interessano a questo genere di cose non siano per bene, pensano che siano solo in giro a caccia di uomini. Quand’ero in prigione a Trieste, non ricordo se per l’episodio dell’incendio al cantiere o per l’altro arresto, mi misero in guardina di notte, hai presente nella stazione di polizia. Non in prigione ma prima quando sei nella stazione di polizia in attesa di essere trasferita. E di notte sentii la porta aprirsi e: “Signorina, signorina”. Era una guardia, una delle guardie notturne. Si era fatto l’idea che io fossi una di quelle con cui si poteva permettere qualsiasi cosa. Credo volesse infilarsi nel mio letto. E io chiesi “Chi è?”. “Shh, niente, niente…”. Risposi: “Vattene fuori, altrimenti chiamo il sergente o chi per lui”. Capito? Siccome eri lì pensavano di poter fare di te quello che volevano. Dopo tutto ciò ero disgustata, odiai gli uomini per un sacco di tempo. Non li guardavo neanche. Disgustata.
Menico – [Rispondendo alla domanda precedente di Audrey] Le cose hanno cominciato a cambiare negli ultimi quindici, venti anni. Fra i giovani oggi c’è una partecipazione molto più larga. Ma nella mia generazione, e anche fra quella appena più giovane, niente di niente. È stato il mio pane quotidiano a New York per tutto il tempo. E poi si stupivano se i ragazzi si allontanavano dal movimento. La mia risposta era sempre questa: “Se passaste un po’ più di tempo in cucina al posto che al circolo, forse le cose sarebbero differenti”.
MB – Era un movimento molto poco numeroso quello delle donne… A Trieste ce n’era qualcuna in più attiva ma a New York o in Francia nessuna, niente di niente.
AG – Stefania è ancora viva? Stefania Maccario hai presente?
MB – Oohhh, Stefania! Non saprei. Ci siamo incontrate una volta ma non la conosco. Stavano in città diverse capisci. Stava in fondo alla penisola e io all’inizio. Stessa regione comunque.
Menico – Non vedo quella donna da tantissimo tempo.
MB – Una volta l’ho vista. Era nel ‘72 o nel ‘70 credo, e mi disse di avere 83 anni, bellissima! Per me era stupenda, non potevo crederci che avesse quell’età. Oggi dovrebbe avere 90 anni, se ricordo bene.
Menico – Non so.
MB – La conoscevi bene no?
AG – Solo per cose politiche, solo per quello.
MB – Ah era attiva nel movimento?
AG – Qui, a San Francisco.
MB – Non era interessata solo a… [incomprensibile]? Era interessata…
Menico – Suo marito faceva parte di un gruppo, così quando c’era un incontro o qualsiasi altra cosa lei era lì.
MB – Sì esatto, era sempre lì quando c’era qualcosa.
AG – Suo figlio venne a un gruppo di discussione che avevamo organizzato. Quando arrivammo a San Francisco la prima volta venne a questo gruppo di studio. Nick vuole chiederti qualcosa.
Nick – Avevi amiche donne?
MB – Oh, certo.
Nick – E loro erano… mmm… erano le mogli dei compagni?
MB – Oh no, non erano mai sposate quando eravamo amiche e poi sono diventata amica delle signore, le mogli dei compagni, tutto qua. Prima sì, avevo amiche che erano single. Potevo stare senza fidanzati ma non senza delle amiche. Hai presente per non girare da sola. Era nel 1971, ero in Europa. Partii in maggio e tornai in novembre. Ho girato dappertutto ma ero sempre con qualcuno o un’amica o un parente o qualcun altro, non giravo mai da sola. Ho girato ovunque, un po’ in Spagna, Portogallo, Grecia, Austria, Jugoslavia, Svizzera… Dappertutto.
AG – Hai ancora famiglia, le tue sorelle?
MB – No, mio fratello morì prima che venissi qui. Una sorella è morta a Marsiglia in Francia. E avevo due sorelle, una è morta quand’era ancora bambina e ora ne rimane una sola. Tutti morti.
Nick – Sei mai tornata a Trieste?
MB – Sì, certo. Nel 1953 e nel 1971. Due volte nel 1953. Il mio secondo marito era ancora vivo. Mio padre era ancora vivo e mia sorella mi scrisse “Il papà vorrebbe vederti…”. Diceva “Sono venuti tutti, perché tu non vieni?”. E così il mio secondo marito mi disse “Vai su. Torna a trovare tuo padre”. E così mi mando là e rimasi due mesi, questo nel 1953. E c’erano tutte le mie vecchie amiche del lavoro, qualsiasi lavoro fosse”.
AG – Sono ancora lì, le tue compagne di lavoro dico?
MB – Oh sono morte, la maggior parte di loro è morta.
AG – Ora, ma nel 1953 c’erano ancora.
MB – Nel ‘53 ce n’era qualcuna che era ancora viva, ma già nel 1971 non c’era più nessuno.
AG – Quelle donne hanno vissuto sotto il fascismo? Sono rimaste lì per tutto il tempo del fascismo in Italia?
MB – Oh sì, certo. E ora non sono soddisfatte della Repubblica. C’è un fascismo moderato là, anche adesso.
Nick – E sono ancora militanti le tue amiche?
MB – Oh sì. Non sono… Quando sono andata al circolo c’erano persone molto giovani, molti studenti. Quando le amiche dei vecchi tempi mi hanno chiesto “Vuoi conoscere le giovani leve?”, io risposi “Certo, certo che voglio andare a conoscerli, certo!”. Erano quasi tutti studenti, la maggior parte di loro. Dissi “Per quanto tempo continuerete a frequentare il movimento? A un certo punto prenderete la vostra laurea e allora ‘Ciao, ciao!’ non vi vedremo più”. E loro “No, no, no, resteremo di sicuro. Siamo qui per restare”. E uno di loro mi disse dopo che un vecchio compagno molto in gamba era morto, Tommasini. Non lo sapevo, non leggevo i giornali italiani. Prima di morire voleva lasciare un’autobiografia e c’era questo ragazzo e disse [incomprensibile] (è ancora uno studente, è un avvocato ora credo). Mi scrisse poi “Voglio investigare sulla vita di Tommasini”. E disse “Guardare in giro nel… ovunque avesse senso cercare informazioni su questo genere di cose”. E disse “Ci sono molte cose interessanti su di te, se vuoi, se sei interessata, te le spedisco”. Ma faccio fatica a scrivere perché non vedo bene e così non ho neanche risposto. Dissi che non ero interessata, so cosa ho fatto, so cosa è successo. Mi disse “Ci sono un sacco di cose scritte su di te e credo che tu vorresti vederle”. No, non voglio vederle, so cosa ho fatto e non mi interessa sapere quello che dicono gli altri. Una volta un professore italiano, che faceva avanti e indietro passando per la frontiera, vide una mia fotografia. C’era scritto “Maria Simonetti ‘anarchica’: da trattenere”. Alla frontiera. Quando tornai la prima volta dissi “Non so come farò ad attraversare senza passaporto, ad andare da Parigi a Trieste”. No, non da Parigi, quella fu un’altra volta. E insomma mi disse “Stai attenta quando verrai”. Perché mi disse magari qualcuno… Ma nessuno mi perquisì o mi chiese nulla. Si supponeva dovessi dichiarare in che città andavo, per quanto mi sarei fermata… Ma nessuno mi fermò, né mi chiese nulla, passai e basta.
AG – Questo fu nel 1953?
MB – Sì nel 1953, ma anche nel 1971 fu lo stesso. E sono così dispiaciuta che sto cadendo a pezzi in questo modo tanto da non potermi più muovere. Vorrei poter prendere un volo, andarmene ancora in giro.
AG – Magari puoi ancora farlo.
MB – No, ascolta, se vuoi andare in giro devi farlo quando ti reggi ancora sulle tue gambe e sai quello che stai facendo e dove stai andando. Ma se ti muovi e poi qualcuno ti deve sorreggere, qualcuno là ti deve aiutare… [tira un pugno sul tavolo] stattene a casa!
AG – Gli faresti un favore. A volte puoi fare un favore agli altri lasciando che ti aiutino.
MB – No, oh no.
Nick – Quindi, tra un…
MB – Oh, viene da là [intendendo da Nick]. Sai, ho la cataratta laterale e non vedo in quella direzione, solo di qua. E allora devo girarmi se no non ti vedo più. Vedo solo di fronte.
Nick – Te ne sei andata dall’Italia nel 1923 giusto?
MB – Sì.
Nick – E non ci sei più tornata fino al 1953?
MB – Esatto.
Nick – Mai, neanche una volta?
MB – No.
Nick – Mai?
MB – Sono tornata a Trieste nel 1924, perché me ne ero andata senza passaporto. Dovevo sistemare alcune cose e così ne approfittai per fare il passaporto. Non potevo ottenere il passaporto attraverso i canali legali. Avevo un passaporto falso che però arrivava dalla polizia. Hai presente come funzione, la polizia si prende i soldi… ti dicono “paga” e ti danno il passaporto e così ne hai uno. Ed ero… se vuoi vederlo…
AG – Hai foto di quando eri ragazza?
MB – Oh sì. Vuoi vederle?
AG – Sì, mi farebbe molto piacere vedere qualche vecchia foto. Sono fissata con le vecchie foto. Le amo. Dammi un album di vecchie foto e sono perduta. Mi fanno impazzire.
traduzione di Abi
RISORSE
- Scheda di Maria Simonetti Bonvcino nel Dizionario biografico degli anarchici italiani (BFS) a cura di Claudio Venza