Questa intervista con Grace Paley, condotta da Rossella Di Leo nel 1987, era apparsa sul Bollettino 30 per commemorarne la scomparsa, avvenuta il 22 agosto 2007 all'età di 85 anni. La riproponiamo qui come piccolo omaggio nel centenario della nascita di questa scrittrice americana da sempre vicina all'anarchismo, conosciuta dai membri del CSL negli Stati Uniti durante un convegno organizzato dall’Institute for Social Ecology, fondato da Murray Bookchin in Vermont, dove anche Grace Paley viveva da tempo.
New York è spesso lo scenario che fa da sfondo alle tue storie, ma qual è la tua New York, qual è il tuo background?
Sono nata in un «ghetto» multirazziale nel quale ho trascorso tutta la mia adolescenza. Ho sempre vissuto tra la gente, mi piaceva discutere, andare a ballare e naturalmente parlare di politica. C’erano militanti d’ogni sorta: socialisti, anarchici, sionisti. Anche in famiglia si parlava sempre di politica. Ricordo la nonna che mi raccontava della Russia e le ricorrenti zuffe intorno al tavolo tra i miei genitori socialisti e uno zio comunista. Questa cultura ebraica radicale nella quale sono cresciuta è certamente stata molto importante per la mia formazione e ha profondamente influenzato la mia visione della vita.
Quindi l’impegno politico per te è stato sempre importante?
Certamente, proprio perché provengo da questa tradizione europea estremamente politicizzata. Sin da quando ero studentessa mi sono impegnata in qualche attività, niente di speciale naturalmente, ma come tutti i giovani di sinistra partecipavo alle manifestazioni, facevo casino a scuola e ovviamente litigavo con i fascisti. Quelli erano gli anni della rivoluzione spagnola e nella mia scuola c’erano diversi studenti di origine italiana che difendevano il regime fascista perché li rendeva finalmente orgogliosi di appartenere a un popolo temuto e rispettato. È ovvio quindi che con loro avessi spesso discussioni accese.
Poi venne la guerra, mi sposai e abbandonai il mio «ghetto» per cominciare a girare in tutti gli Stati Uniti. Avere dei figli per me è stato importante perché mi ha spinto a lavorare con la gente, a essere presente e attiva nella vita di quartiere. Ho cominciato così a interessarmi dei problemi locali, a lottare per il verde, per la scuola. Solo col tempo mi sono resa conto di quanto sia stata importante questa esperienza per me. Spesso portavo avanti queste attività con le donne, non perché fossero femministe (almeno in modo consapevole), ma perché le donne preferiscono lavorare a livello locale, affrontare i problemi della vita quotidiana. Ed è sempre stato un tipo di intervento che ha avuto successo e che mi ha dato soddisfazione.
Negli anni successivi, per oltre un decennio, mi sono impegnata contro la guerra in Vietnam. In quel periodo mi è capitato spesso di collaborare con diversi gruppi e organizzazioni politiche, ma avevano tutti una struttura verticista e una mentalità gerarchica con le quali non andavo affatto d’accordo. All’epoca non mi rendevo chiaramente conto del perché non mi piacesse lavorare con loro, ma ad esempio pensavo: «Cristo, che schifo di riunione, proprio non la sopporto» e cose simili.
Ho quindi preferito tornare a lavorare su base locale, partecipando a un Centro per la pace animato soprattutto da attivisti quaccheri, per certi aspetti molto vicini ad alcune idee anarchiche. Sono stati loro i primi a sostenere il principio che l’azione politica, per essere efficace, debba «lavorare localmente e pensare globalmente», un criterio nel quale mi riconosco in pieno. Nel corso di questa attività ho incontrato molti militanti pacifisti che hanno profondamente influenzato il mio modo di pensare, di giudicare la violenza e la nonviolenza. C’era oltretutto in queste persone un bisogno di verità, un desiderio di parlare schiettamente e apertamente contro il potere che raramente si trovava in quelle organizzazioni politiche con cui avevo lavorato in precedenza.
Verso la metà degli anni Settanta ho cominciato a occuparmi della tematica nucleare e grazie a essa sono riuscita a sviluppare una coscienza ecologica che prima avevo in modo inconsapevole. E questa nuova sensibilità è diventata preminente nel mio approccio politico. Proprio in quegli anni ho iniziato un’intensa attività anche in Vermont (dove vivo per parte dell’anno), partecipando ai «gruppi d’affinità» che privilegiavano un intervento ecologico.
Come si inserisce in questo contesto il tuo impegno femminista?
Nel frattempo il mio interesse per le donne e i loro problemi non è mai cessato. Nei miei scritti l’attenzione è sempre rimasta centrata sul mondo femminile. E se all’inizio non avevo coscienza del fatto che il mio discorso letterario fosse anche un impegno politico, col tempo mi è divenuto chiaro. Alla fine degli anni Settanta insieme a Ynestra King e un gruppo di altre donne abbiamo organizzato un grande incontro che affrontò contemporaneamente il problema della donna e le possibilità di vita su questo pianeta; ed è stato questo il primo incontro eco-femminista, a cui hanno fatto seguito molti altri. Poco dopo abbiamo costituito il Women’s Pentagon action, un movimento di donne molto aperto, estraneo ai modi d’organizzarsi dei gruppi politici, senza aspirazioni nazionali, ma viceversa ben radicato nel nord-est del paese, dove agiva. Sebbene sia stata io a scrivere materialmente le dichiarazioni programmatiche di questo movimento, tutte hanno partecipato alla loro stesura: senza esagerare lessi e rilessi quelle dichiarazioni almeno centocinquanta volte, includendovi sempre i suggerimenti che venivano fatti. Così, se il linguaggio è mio, il documento esprime veramente quella visione collettiva che avevamo di noi stesse, della guerra, della vita sulla Terra, dei conflitti razziali. Ci siamo impegnate in un’attività molto intensa e abbiamo portato avanti numerose azioni antimilitariste: in particolare contro l’intervento militare statunitense in Centro-America, verso il quale questa nazione sembra capace di esportare solo soluzioni estremamente antidemocratiche. Il criterio che ci muoveva è sempre stato quello di agire localmente, avendo però l’attenzione puntata anche sui grandi eventi nazionali e internazionali.
Secondo te letteratura e impegno politico sono coniugabili? Attraverso la letteratura si può «cambiare il mondo»?
Dipende dal contesto in cui questa si sviluppa. Cerco di spiegarmi con un esempio. Ho di recente incontrato alcuni giovani scrittori della Germania dell’Est, tutti estremamente appassionati del loro lavoro, che lamentavano l’isolamento culturale in cui si trovano, le molte restrizioni che devono subire e dunque l’impossibilità di esprimersi pienamente. Si sentono esclusi, repressi e invidiano quanti di loro sono riusciti ad andarsene all’Ovest e dunque sono ora liberi di scrivere quello che pensano e sentono. Tuttavia essi ignorano un grave problema che molti scrittori si trovano ad affrontare nel mondo libero, cioè il fatto che pochi presteranno attenzione a quanto scrivono. Negli Stati Uniti c’è libertà, si scrive molto, ma qualunque cosa si scriva non c’è alcuna garanzia che il Nicaragua non sia aggredito.
Ciononostante la letteratura può avere un ruolo importante. Se non riesce a influenzare il grande mondo, consente comunque di sperimentare nuove idee. Prendiamo ad esempio la letteratura femminile. Le donne scrittrici per la maggior parte non attaccano lo Stato, ma il loro impegno è ugualmente importante per creare una nuova solidarietà tra donne, per farle sentire più forti. E questo è stato vero anche per gli scrittori della comunità nera. Quel che è certo è che nessuno scrittore, per quanto bravo o famoso sia, può influenzare, incidere realmente se non è parte di un movimento sociale, quantunque piccolo questo possa essere. Per le scrittrici donne l’esistenza del movimento femminista è un fatto fondamentale ed è in questo contesto che il loro scrivere può influenzare, cambiare il mondo.
Pensi che esista una scrittura femminile o la letteratura è piuttosto definibile come neutra?
Non credo che esista niente che si possa definire neutro, ma nello stesso tempo non mi sento di poter affermare che ci sia un modo maschile e uno femminile di scrivere. Molti sostengono che è possibile identificare un linguaggio femminile e uno maschile che si esprimerebbero con strutture linguistiche diverse. Io non credo che la differenza risieda in questo, quanto piuttosto nella scelta dei soggetti, nella diversa attenzione data alla vita quotidiana per la diversità delle esperienze vissute, per il modo in cui si è attraversata la storia.
Nelle scrittrici c’è una diversa comprensione del mondo femminile che deriva dal fatto che esse stesse si mettono nella loro scrittura. Tuttavia anche se trovo molto interessante che certe scrittrici stiano tentando nuovi modi espressivi, rifiutando ad esempio certi linguaggi brutali, barbari talvolta utilizzati dagli uomini, la cosa per me più importante non è scrivere come una donna ma guardare al mondo come una donna.
Nonostante i tuoi personaggi esprimano spesso un impegno sociale, l’attenzione da te data al quotidiano, al particolare, ha portato alcuni critici a definirti «la mamma dei minimalisti ». Ti ritrovi in questa definizione?
Io mi ritengo solo la madre dei miei figli! In effetti sono rimasta sorpresa da questa definizione nella quale non mi riconosco affatto. Penso derivi dalla necessità di alcuni critici di mettere gli scrittori in qualche casella, di catalogarli, e invece di definirli preferiscono mettergli un nome, un’etichetta. Caselle nelle quali difficilmente gli autori si riconoscono: a nessuno verrebbe in mente di dire «io sono un minimalista » o un «massimalista». E anch’io non mi riconosco in nessuna corrente letteraria, anche se nella mia vita mi sono identificata e mi identifico con molti movimenti sociali.
Nel panorama letterario nordamericano esiste a tuo avviso una corrente che si riconosca in un quadro di riferimenti libertario, che esprima una sensibilità antiautoritaria ?
Sono tentata di rispondere affermativamente anche se non credo che si tratti di un’adesione consapevole, né penso che questi autori conoscano appieno il significato storico di questa definizione. Eppure ce ne sono molti, come Marge Piercy o Robert Nichols, che hanno un’indubbia sensibilità libertaria. E più in generale vi sono moltissimi scrittori negli Stati Uniti che si considerano liberi, anche se sono poi in realtà prigionieri di quelle leggi di mercato che governano l’editoria. Negli Stati Uniti questa è una contraddizione sempre presente: in questo paese democratico tutti sono liberi di scrivere quello che pensano ma poi molti sono vittime di questa logica.