[dal Bollettino 59]
Thinking as anarchists. Intervista con Giovanna Gioli e Hamish Kallin a cura del collettivo redazionale
HK: Hamish Kallin – GG: Giovanna Gioli
CSL – Come vi siete imbattuti in questo dattiloscritto che il nostro Centro studi ha tradotto in inglese e pubblicato in forma di semplice dispensa nel lontano 1986? Perché a più di trentacinque anni di distanza avete deciso di trasformare quella dispensa in un vero e proprio libro?
Bologna, 2018, Giovanna e Hamish durante il loro Gran Tour italiano che li ha portati a visitare anche il Circolo Berneri. In attesa della cena Giovanna prova a tradurre, a parole e gesti, il menù a Hamish.
HK – A dire il vero il manoscritto è stato scoperto per caso. I fattori che hanno contribuito alla sua scoperta sono stati, in primo luogo, una coraggiosa libraia che non ha paura di acquistare e vendere testi politici interessanti e, in seconda battuta, la mia abitudine di spulciare letteratura anarchica ovunque la trovi. Se la memoria non mi tradisce, il manoscritto costava 3 sterline, non si capiva bene cosa fosse ma sembrava interessante e il “Da Vinci anarchico” in copertina era molto intrigante (come ho scoperto in seguito, una delle tante brillanti idee grafiche di Ferro Piludu). Una volta iniziato il progetto, sono tornato in libreria (la Main Point Books a Edimburgo) e ho chiesto alla proprietaria, Jennie Renton, se ricordasse la storia di quel manoscritto e… incredibilmente se la ricordava! Grazie a lei ora sappiamo che è arrivato nel Regno Unito grazie a una conferenza libertaria che si è tenuta nei Paesi Bassi alla fine degli anni Ottanta. Il collegamento era Peter Kravitz, un noto editore letterario di Edimburgo che, come altri membri di quella generazione di giovani scrittori scozzesi (il più famoso è James Kelman), era interessato alla tradizione anarchica. L’ho letto da cima a fondo trovandolo affascinante ma anche abbastanza impenetrabile (lo sforzo di traduzione originale era ammirevole, ma goffo). Ero a metà del mio dottorato di ricerca e ricordo di essere stato colpito in particolare dal capitolo sullo Stato di Eduardo Colombo. Per la mia ricerca, stavo leggendo molta teoria critica dello Stato, e sentivo la mancanza di voci anarchiche in quei dibattiti, spesso perché i teorici dello Stato non anarchici le ignorano completamente, ma anche perché gli anarchici non sono stati molto bravi a definire o spiegare cosa intendano per Stato in termini concettuali. Insomma, il capitolo di Colombo mi sembrava molto originale e avevo la sensazione che il manoscritto fosse qualcosa di speciale, ma non sapevo bene cosa farne. L’idea di farlo pubblicare è nata perché avevo appurato che non fosse già stato fatto: una ricerca online del manoscritto in inglese aveva infatti rivelato solo vicoli ciechi. E così la mia ignoranza circa il pensiero degli autori dei saggi (pur essendo abbastanza esperto di letteratura anarchica inglese), combinata alla convinzione nel valore del testo, mi ha fatto venire voglia di condividerlo. Inizialmente ho pensato di scansionare il manoscritto e caricare il PDF in qualche archivio online di testi radicali. Non una cattiva idea, certo, ma avrebbe mantenuto la spigolosità delle traduzioni, e mi sembrava un po’ pigro. Ho allora accarezzato l’idea di provare a pubblicarlo come libro, pensavo che sarebbe stato bello portarlo all’attenzione di più persone, ma il lettore anglofono contemporaneo doveva essere messo in condizione di capirlo più facilmente di quanto avessi potuto farlo io inizialmente. Tuttavia in quella fase mi sono sentito del tutto inadatto al compito che le circostanze mi avevano regalato. Non so nemmeno parlare italiano! Poi è arrivata Giovanna…
Giovanna è stata assunta come docente in Disasters al dipartimento di Geografia dell’Università di Edimburgo nell’ottobre 2017. Ho adorato il nome del suo insegnamento, che avrebbe dovuto trasmettere il suo tema di ricerca in termini sobri – i cosiddetti disastri “naturali”, l’ingiustizia dei loro impatti ecc. – ma che sembrava anche in qualche modo perfetto per Giovanna, che era, come direbbero i miei cortesi colleghi anglo-accademici, “una forza della natura”. Ci siamo piaciuti subito. Quando Giovanna vide il manoscritto per la prima volta, ricordo un misto di gioia, sorpresa e parolacce. Come l’hai trovato? Chi sei? La vera storia, così come raccontata poc’anzi, è stata probabilmente un po’ deludente. Ma con Giovanna a bordo, il progetto ora non sembrava più un sogno a occhi aperti…
Jennie Renton nella sua libreria, la Main Point Books di Edimburgo.
GG – Devo dire che ci siamo divertiti molto. Abbiamo ottenuto una piccola borsa di studio dalla nostra università per visitare la sede dell’Archivio Pinelli a Milano, e siamo anche riusciti a andare a Bologna (Circolo Berneri), Castel Bolognese e Forlì. Volevamo pubblicare il libro con un buon editore anarchico, quindi inizialmente ci siamo rivolti ad AK Press ma, nonostante una prima risposta positiva, dopo mesi di attesa hanno declinato. Abbiamo quindi contattato editori accademici e firmato un contratto con la Edinburgh University Press. Siamo dolorosamente consapevoli del costo folle dell’edizione con copertina rigida del libro, ma fortunatamente EUP si è impegnata a stampare una edizione tascabile a basso costo nel 2023. Altrimenti, in generale sono per il copyleft, sempre!
A sinistra, lo spartano frontespizio del dattiloscritto originale, con l’uomo vitruviano in versione anarchica. L’immagine, ideata da Ferro Piludu, storico collaboratore del CSL in numerosi progetti di grafica e comunicazione, è stata il primo logo del nostro centro studi. A destra, la grafica di copertina dell’edizione inglese, ripresa da un manifesto realizzato per il 1° maggio 1977 sempre da Ferro Piludu.
CSL – Secondo voi i saggi pubblicati sono pura espressione di quegli anni o hanno qualcosa da dire anche al presente?
HK – Entrambe le cose. Eravamo – e siamo – convinti che i materiali siano di valore storico (come espressioni, pure o meno, di quegli anni). In questo senso, il manoscritto è un “pezzo mancante” della storia dell’anarchismo in un momento di profondo cambiamento. Ovvero dopo il 1968. Dopo i lunghi (e violenti) anni Settanta. Dopo l’esaurimento del movimento anarchico “classico” e la brutale delegittimazione del “comunismo” di Stato. Dopo l’esaurirsi degli esperimenti italiani di comunismo “autonomo”. Le forze neoliberiste (individualismo, sussunzione della totale libertà di consumo, feticismo di mercato, autoritarismo statale, e così via) erano già in espansione; era in corso la demolizione di tante certezze teoriche (quello che oggi chiameremmo “poststrutturalismo”). Si tende a pensare che questo sia stato un periodo di stallo per l’anarchismo, ma è affascinante vedere come gli anarchici abbiano cercato di dare un senso a questi cambiamenti sismici. I testi mescolano una fedeltà alla Tradizione con una inquieta provocazione ai suoi margini e, soprattutto, fanno i conti con il fatto spaventoso che nulla di ciò che avevamo fatto era abbastanza. Quindi sì, certo, questi testi sono di valore per gli storici dell’anarchismo, come espressioni di quel tempo.
Ma questo è ovviamente un pezzo “mancante” solo in inglese, non in italiano. La pubblicazione dei testi tradotti acquista quindi un ruolo diverso, aiutando a superare alcune delle barriere linguistiche che l’anarchismo – in quanto movimento dichiaratamente internazionalista – ha spesso affrontato in modo così interessante.
Infine, il materiale è interessante perché è interessante. Sono tante le domande cui cerca di rispondere: come teorizzare l’esistenza del potere statale da anarchici? Cosa distingue il dominio e l’autorità? In che modo il patriarcato è correlato al dominio in modo più ampio? Che fare con l’idea dell’utopia? In definitiva, che fare con l’anarchismo per mantenerlo rilevante, politicamente e intellettualmente? E queste sono tutte domande cui non abbiamo ancora pienamente risposto, neanche oggi. Fino a quando non lo faremo, questi testi avranno qualcosa da dire al presente, un presente caratterizzato da nuove ondate di autoritarismo, misoginia e feticismo di Stato, in cui l’impulso utopico diventa sempre più difficile da trovare.
CSL – Quali sono le linee di pensiero che più vi hanno interessato? Cos’è la “Italian Theory” nei cui confronti avete dovuto contestualizzare i saggi pubblicati?
GG – Una domanda che mi sta molto a cuore questa, perché tocca da vicino le ragioni teoriche che si celano dietro a Thinking as Anarchists. La prima è per me la natura non autoriale in cui si sviluppano le linee teoriche del gruppo di “Volontà”. Nonostante le dichiarazioni antiautoriali di tanti maître à penser, è cosa rara incontrare un pensiero che si sviluppa ai margini delle logiche di auctoritas e si orienta invece intorno a nodi tematici chiaramente identificabili e tuttora cruciali per il pensiero politico: la capacità produttiva dell’immaginario, il potere della funzione utopica, le società senza Stato, potere vs dominio, la burocrazia e i nuovi padroni. Il lettore anglofono libertario vi troverà del David Graeber ante litteram, ma soprattutto vi trova un pensiero militante e plurale. I testi risuonano potentemente tra di loro, e traducendoli avevo spesso l’impressione di una polifonia, di tradurre una voce distinta ma non singola. Nel tradurre la bibliografia ho avuto alcuni problemi, perché in inglese non esiste davvero un equivalente codificato dell’italiano AA.VV., Autori Vari. Quando ho chiesto indicazioni alla casa editrice, mi hanno risposto di utilizzare solo il titolo, senza l’autore, mancando clamorosamente di cogliere il significato della mia domanda. Unito a questo, l’attenzione alla comunicazione visiva merita di essere menzionata a parte come dimensione concettuale che caratterizza tutta l’attività editoriale del gruppo di “Volontà”, dalla rivista alla casa editrice elèuthera, passando per i materiali preparati per Venezia 1984. Abbiamo voluto dare spazio alla ricerca visiva nell’antologia, inserendo più immagini possibile.
Giovanna Gioli all’ingresso del Circolo Camillo Berneri di Bologna il 1° giugno 2018.
Nello scrivere l’introduzione abbiamo cercato di restare fedeli a ciò che ci premeva dire, ma in un costante esercizio di contestualizzazione storico-concettuale. Abbiamo considerato non solo quanto il lettore dell’anglosfera tende a sapere solo tangenzialmente o ignorare (come Pinelli e Piazza Fontana, gli anni di piombo e il riflusso), ma anche ciò che è probabile abbia in mente, come la crescente ondata di interesse per l’operaismo e la famigerata “Italian Theory”. Come noto, la diffusione del termine “Italian Theory” è legata al successo editoriale di due testi pubblicati entrambi in inglese alla soglia del nuovo millennio: Homo Sacer (1998) di Giorgio Agamben e Impero (2000) di Toni Negri e Michael Hardt. Visto il successo e la diffusione di quei testi, l’interesse editoriale del mondo anglofono ha puntato ai testi precedenti e nuovi di questi stessi autori, e alla (ri)scoperta di altri autori (si veda la recente uscita di traduzioni inglesi di Mario Tronti, a cominciare da Operai e Capitale, 2019), che per quanto eterogenei gravitano nella sfaccettata sfera della “Italian Theory” che va dall’operaismo alla biopolitica (ad esempio Roberto Esposito, Paolo Virno, Maurizio Lazzarato, Sandro Mezzadra. Tutti maschi, ovviamente, anche se con una spruzzatina di femminismo a volte le antologie includono Luisa Muraro). Il consolidarsi del termine “Italian Theory” si vede poi con la pubblicazione di varie antologie in inglese circa una decade fa. Non mi interessa comunque tanto stabilire cosa sia la “Italian Theory”, perché aborro qualsiasi qualifica nazionale del pensiero, e perché credo in fondo che ci sia poco da dire. Ricordo un collega filosofo all’Università di Kiel, cui regalai una copia del volume Italian Critical Theory (2011), per cui confesso di avere tradotto un saggio del mio relatore di dottorato, Rocco Ronchi. Mi guardò un po’ sgomento e divertito, e poi mi disse: “Non sapevo ci fosse una cosa del genere!”. Continuo a pensare che lui abbia in fondo ragione, ma quello che mi interessa qui, e ci interessava nell’introduzione di Thinking as Anarchists, era sottolineare allo stesso tempo la prossimità e la radicale alterità tra l’esperienza di “Volontà” e quanto si conosce sotto l’etichetta di “Italian Theory”. L’alterità è ovviamente politica, e si fonda su un’interrogazione critica che mette al centro del suo domandare la critica al dominio, e dialoga con figure cruciali che rimangono assolutamente marginali, non solo rispetto alla “Italian Theory”, ma anche alla sua più famosa e anziana cugina, la “French Theory”. E allora Cornelius Castoriadis, Pierre Clastres, René Lourau, solo per citarne alcuni, e non Michel Foucault, l’astro intorno a cui gravita l’“Italian Theory”. Si tratta di una scelta di campo, e non di negligente dimenticanza o addirittura ignoranza, come una lettura astorica o sorda al contesto potrebbe portare a pensare. Tradurre questa antologia allora per me ha significato anche contribuire a riattivare questa linea di pensiero minoritaria, mostrarne la rilevanza, oggi. E lo dico continuando ad amare gli autori più famosi e dalla prospettiva di chi ha scritto una tesi di dottorato su Gilles Deleuze.
Infine, la prossimità con l’eterogenea “Italian Theory” è data dagli spazi di lotta e critica spesso condivisi, dalle esperienze di autogestione e di lotta, da tutto quello che il laboratorio anarchico ha prodotto e di cui una certa sinistra si è poi appropriata. Una sinistra che continua a raccontare la storia del 1968 e del 1977, e di quello che ne è disceso, silenziando o minimizzando l’importanza di pratiche e voci anarchiche, le quali, per fortuna, sono difficilmente identificabili con un venerato “Autore” o un “Capo”.
CSL – Quanto è conosciuto l’anarchismo italiano in Inghilterra, sia dal punto di vista storico sia dal punto di vista del pensiero?
HK – Vediamo, Malatesta ovviamente è ben noto, anche se il lavoro di traduzione in inglese delle sue opere complete è iniziato solo di recente (a cura di Davide Turcato e pubblicato da AK Press). Il suo opuscolo Anarchy è stato ristampato varie volte in inglese da Freedom Press nel corso dei decenni ed è facilmente reperibile. Recentemente poi sono stati pubblicati alcuni libri degni di nota su Malatesta e la sua influenza (Making Sense of Anarchism di Turcato) e sull’anarchismo italiano più in generale (Italian Anarchism, 1864-1892 di Nunzio Pernicone), tradotti in inglese e pubblicati anche in questo caso da AK Press. Colin Ward accenna (molto brevemente) al suo “legame italiano” in Anarchism: A Short Introduction pubblicato dalla Oxford University Press nel 2004 [L’anarchia, un approccio essenziale, elèuthera, 2020], così come fa anche Clifford Harper nel suo meraviglioso libro del 1987 Anarchism: A Graphic Guide, che mio padre mi diede quando ero un adolescente.
In termini di “pensiero”, beh trovo più difficile rispondere a questo particolare aspetto della domanda. La genealogia del pensiero anarchico non è facilmente tracciabile perché, diciamolo, gli anarchici sono stati bravi a resistere alla proprietà intellettuale dei pensieri espressi, così come hanno resistito alla canonizzazione di alcune buone idee. Sia chiaro, non li sto accusando di plagio! Voglio solo dire che a volte è difficile sapere da dove provengano, o dove vadano a finire, le idee perché c’è stata più condivisione di quella di cui abbiamo testimonianza (anche se io non sono uno storico, e quindi lasciatemi ammettere la mia debolezza al riguardo). Mi hanno colpito, ad esempio, le somiglianze tra l’“anarchismo sociale” dell’opera di Colin Ward e i contenuti di “Volontà” volti alla ricerca di un concetto di rivoluzione un po’ più vicino al riformismo, senza essere semplicemente riformismo liberale, e al desiderio di collegare l’anarchismo agli spazi “quotidiani” della vita. Chi ha influenzato chi? Non penso che valga la pena provare a rispondere: il punto è che c’era chiaramente una forte connessione (non ho bisogno di dirlo al CSL!). La manifestazione più chiara la troviamo in Talking Anarchy, una bella e lunga intervista tra Colin Ward e David Goodway (pubblicata in inglese da Five Leaves Press nel 2003), nata da un progetto proposto da Rossella Di Leo e Amedeo Bertolo e pubblicato prima da elèuthera in italiano. Qui David chiede: “Hai sviluppato una grande empatia per tutto ciò che è italiano, vero? Come mai?”. Vale la pena leggere la risposta. Non cercherò di riassumerla qui, ma il punto è che c’erano chiaramente una profonda simpatia e rispetto, anche solo perché tanti italiani erano finiti in Gran Bretagna durante la guerra (fossero questi anarchici in esilio o prigionieri di guerra).
Comunque, forse questa è una risposta un po’ accademica (o libresca), e non voglio di certo insinuare che Colin Ward equivalga a “Anarchism in the UK”: quello che sto cercando di dire è che gli italiani non sono degli estranei nell’immaginario anarchico britannico, ma inevitabilmente ci sono delle lacune. Sono nato quattro anni dopo la conferenza di Venezia del 1984, quindi ci sono limiti alla mia capacità di rispondere da un punto di vista personale. Di una cosa possiamo essere però certi: nonostante alcuni dei testi (in versione ridotta) della nostra antologia siano già apparsi in inglese, la stragrande maggioranza dei contenuti non è affatto facilmente reperibile in inglese, e credo che le nostre traduzioni rimangano le più chiare e fedeli.
Castel Bolognese, 2018, Hamish posa tra memorabilia anarchici durante la visita alla Biblioteca Libertaria “Armando Borghi”.
CSL – Una delle critiche ricorrenti da parte dei movimenti anarchici non anglofoni è che l’“imperialismo linguistico” dell’inglese influenza pesantemente anche il pensiero anarchico internazionale, il quale ormai si basa solo sulla pubblicistica disponibile in questa lingua e di conseguenza non rispecchia in modo esaustivo la complessità dell’anarchismo contemporaneo (vedi ad esempio le elaborazioni del post-anarchismo basate solo sui testi presenti in lingua inglese, classici compresi). La vostra operazione va sicuramente nella direzione opposta. Avete dei suggerimenti per sprovincializzare questo approccio e restituire all’anarchismo una configurazione realmente internazionalista?
GG – Come italiana che legge varie lingue e lavora all’estero da dodici anni, ho imparato a navigare molti aspetti dell’anglosfera, a cominciare dalla sua caparbia auto-referenzialità. C’è una barriera di incredulità da superare, un’opacità da realtà di second’ordine che si associa a ciò che non viene pensato in inglese. Le relativamente scarse e spesso cattive traduzioni di testi (libertari) italiani (e “latini” in generale, anche se la situazione è migliore con il francese) amplificano questa opacità, e la tendenza anglosassone a ridurre all’osso, se non eliminare, apparato critico e note certo non aiuta.
Ho passato molto tempo in Nepal, Pakistan e India, dove l’imperialismo linguistico dell’inglese perpetua la violenza del colonialismo. Ho incontrato molti nuovi amici libertari in questi paesi e ho sofferto molto nel non poter condividere con loro letture di testi amati che non sono disponibili in inglese. L’egemonia dell’anarchismo anglofono non oblitera solo la diffusione degli anarchismi contemporanei in Occidente, ma li cela anche a milioni di persone che vivono nel Majority World (che confesso non so come si traduca in italiano). Il lavoro di traduzione sui testi di “Volontà” per me era carico del desiderio di allargare l’accessibilità a un’esperienza incredibile, importante, internazionale e splendidamente oscurata. Grazie alle nostre diverse posizionalità, ho potuto capire immediatamente quando il mio lavoro sulle traduzioni “apriva” un testo per Hamish. I suoi occhi brillavano, non so quante volte l’ho sentito dire nelle nostre discussioni editoriali: “Oh, now it makes sense!”. Testimoniare questi piccoli miracoli mi ha motivata e ulteriormente convinta che anche piccole attenzioni testuali cambiano radicalmente la penetrabilità di una traduzione. Un esempio: uno dei testi del libro (Le fonti del Nilo di Rossella Di Leo), l’unico a essere stato riproposto in forma ridotta in un paio di antologie anglofone in una traduzione decisamente migliorata rispetto a quella del manoscritto, continuava testardamente a tradurre “succube” con “Succuba”. Un aggettivo di uso comunissimo in italiano, che designa sottomissione, diventa un demone seduttore della mitologia romana! Menziono questo refuso testardo perché è divertente, ma la sua persistenza e anche sintomo di una mutua impenetrabilità, di una mancanza di agio ad abitare la lingua dell’altro.
Ruth Kinna nella sua generosa fascetta per la nostra antologia ricorda l’appello di Gustav Landauer che chiedeva agli anarchici di resistere alla traduzione e di imparare invece a “pensare e sentire” in lingue meno familiari. Credo che sia un imperativo anarchico fondamentale, accettare di essere scomodi, disorientati, sforzarsi a pensare diversamente. Le esperienze di “Volontà” ed elèuthera lo hanno sicuramente fatto, in forte contrasto con l’egemonia, accademica e non, dell’inglese, ma anche con tanti professoroni che ho incontrato durante la mia carriera filosofica in Italia, che continuano a snobbare l’inglese come lingua inferiore o non filosofica, pur non sapendolo.
HK – Voglio solo aggiungere che una delle cose più incredibili per me durante la preparazione di questo libro è stato il sentirmi così spesso impotente. Quando eravamo in Italia la mia capacità di dialogare era limitata, quasi inesistente senza Giovanna. Nel lungo lavoro di ri-traduzione del dattiloscritto, le ho fatto da assistente, una specie di dizionario poco ortodosso ma incapace di fare di più (per non dare l’impressione di pigrizia, credo che Giovanna sia d’accordo nel dire che l’ho aiutata in altri modi!). Sono un “curatore” che non sa leggere i materiali originali. Follia! Una follia generatrice di una specifica curiosità che mi ha costretto a rinunciare a ogni senso di controllo sui significati di questo lavoro, e ci ha anche portato a un sodalizio editoriale genuinamente dialogico che ha fatto emergere connessioni che si sarebbero perse se la traduzione fosse stata più facile.