[estratto dal Bollettino 59]
Milly Witkop e la Frauenbund. La costruzione dell’immagine femminile nel movimento anarcosindacalista tedesco
di Devis Colombo
Questo saggio è stato originariamente scritto per la sessione Immaginario di genere e pratiche sociali nel pensiero utopico del VII congresso della Società italiana delle storiche, tenutosi a Pisa il 3 febbraio 2017. Il disegno presente nell'immagine qui sopra è un ritratto di Milly Witkop realizzato nel 1948 dal figlio Fermin Rocker.
Tanto la storia del pensiero anarchico (intesa come l’insieme della sua tradizione teorica), quanto la storia del movimento anarchico (intesa come la traccia delle azioni e dei processi rivoluzionari che gli anarchici hanno saputo costruire nel tempo), non sembrano a prima vista presentare contributi particolarmente rilevanti per l’emancipazione femminile. Le figure comunemente riconosciute come fondative dell’anarchismo classico sono per l’appunto maschili, se si pensa fra gli altri a Max Stirner (1806-1856), Michail Bakunin (1814-1876) o Pëtr Kropotkin (1842-1921), con l’eccezione di alcune donne come Louise Michel (1830-1905) e Emma Goldman (1869-1940). In una delle opere miliari di storia dell’anarchismo, quale L’anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari (1962) di George Woodcock, le donne vengono raramente citate e allorquando ciò avviene sempre in modo marginale e non esaustivo.
Come ha infatti rilevato Lorenzo Pezzica nell’introduzione al volume Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, “le grandi battaglie libertarie dell’anarchia e del femminismo si incrociano ma non si mescolano”, vale a dire si è assistito più a un’ibridazione di queste due correnti autonome di pensiero che a una loro essenziale fusione, per cui si può giungere alla paradossale esistenza (benché del tutto minoritaria e pertanto non rappresentativa) di alcuni tratti misogini all’interno dell’anarchismo – come, a titolo di esempio, le note posizioni antifemministe di Pierre-Joseph Proudhon, peraltro apertamente criticate da un altro libertario come Joseph Déjacque, suo contemporaneo, o le successive affermazioni di Erich Mühsam secondo cui “le donne, in particolare le attiviste per i diritti femminili”, non avrebbero futuro.
Tocca dunque alla storiografia individuare e approfondire quelle numerose insorgenze della questione femminile dentro l’anarchismo che rimangono tuttora all’oscuro, ma che potrebbero mettere in luce una maggiore capacità di apertura e di confronto di questa corrente di pensiero rispetto a quanto sia stato finora riscontrato su questo specifico versante. Un percorso che è già stato intrapreso negli ultimi anni (si pensi ad esempio agli studi di Carlo De Maria), cui si tenterà qui di contribuire tracciando alcune essenziali linee di ricerca relative alla figura di Milly Witkop e all’organizzazione SFB.
Londra, 1912, da sinistra: Ernst Simmerling, Milly Witkop, Rudolf Rocker, Wuppler, Milly Sabel, Lazar Sabelinsky, Loefler. Lazar e Milly Sabel erano due anarchici di lingua yiddish amici di vecchia data di Rudolf Rocker e Milly Witkop. Proprio i Sabelinsky baderanno al piccolo Fermin quando entrambi verranno arrestati a causa della loro opposizione alla prima guerra mondiale.
Cenni di biografia politica
Se si considera l’identità di Milly Witkop dal punto di vista intersezionale, essa può essere caratterizzata da tre elementi: in primo luogo dalla cultura ebraica ereditata dalla famiglia; in secondo luogo dalla condizione di esilio costante (Inghilterra, Germania, Stati Uniti) cui sarà costretta sia a causa di discriminazioni razziali, sia per la fermezza con cui conduceva le proprie azioni politiche e con cui se ne assumeva la responsabilità; e in terzo luogo per l’intreccio di femminismo libertario e socialismo rivoluzionario che ha saputo rappresentare.
Milly Witkop nasce nel 1877 a Zlatopil’, nell’Ucraina zarista, presso una famiglia di piccoli artigiani residente in uno Schtetl, termine con cui in yiddish si indica un insediamento a maggioranza ebraica, dove la vita quotidiana si svolge secondo i precetti religiosi, i quali attribuiscono alla donna un ruolo inferiore rispetto all’uomo, indipendentemente dalla condizione sociale della famiglia di origine o del marito. A diciassette anni emigra a Londra dove lavora a cottimo in uno dei tanti piccoli laboratori tessili (sweatshops) che popolano il quartiere operaio dell’East End. I colleghi con cui condivide le dure condizioni di lavoro sono soprattutto immigrati ebrei che come lei sono fuggiti da una nuova ondata di antisemitismo che sta colpendo l’Europa dell’Est. In questo ambiente l’influenza della socialdemocrazia è scarsa, mentre sono molto attive le organizzazioni socialiste-rivoluzionarie alle quali Milly Witkop si avvicina abbandonando l’ortodossia religiosa che aveva contraddistinto la sua adolescenza, senza tuttavia rinunciare alle proprie radici culturali ebraiche. Come sostengono Siegbert Wolf e Werner Portmann, non solo Milly è da considerarsi “fra le più significative donne all’interno di quel movimento operaio dalle connotazioni anarchiche che prese forma fra i lavoratori ebrei” a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ma la sua adesione all’anarchismo deriva non da ultimo dal suo indipendente approdo spirituale a un ebraismo messianico. Il suo avvicinamento alla politica avviene in seguito alla lettura del giornale degli ebrei socialisti statunitensi “Di Tsukunft” e dello scritto di Kropotkin Appello ai giovani, e viene poi rafforzato dalla conoscenza con il tedesco Rudolf Rocker (1873-1958) – fra i più influenti teorici dell’anarchismo a livello internazionale nel periodo che intercorre fra le due guerre mondiali – che diventerà di lì a poco il suo compagno di vita, senza che tuttavia venisse mai a mancare tra loro il principio della reciproca indipendenza nel pensiero e nella prassi.
Nel 1898 Rudolf Rocker e Milly Witkop tentano di trasferirsi negli Stati Uniti, ma una volta giunti a New York vengono respinti perché le autorità d’immigrazione intendono chiarire la natura legale del loro rapporto: non essendo sposati viene posta come condizione per poter rimanere quella di coniugarsi ufficialmente. I due tuttavia replicano che la ragione del loro legame è una questione primariamente privata, e Witkop precisa oltretutto di considerare il matrimonio una forma di prostituzione. Questo scontro, che viene seguito per alcuni giorni anche dalla stampa americana, finisce con il ritorno in Inghilterra dei due, non inclini a venir meno alle proprie convinzioni. Nel 1902 Witkop partecipa alla fondazione della Federazione anarchica ebraica (Föderation der jiddisch sprechenden Anarchisten) contribuendo ai giornali a essa collegati e pubblicati in lingua yiddish – “Der Arbeyter Fraynd” e “Zsherminal” – ambedue diretti da Rudolf Rocker. Nel 1912 è fra le più attive organizzatrici di un storico sciopero del settore tessile durato tre settimane, che si conclude positivamente grazie a una solidarietà internazionalista che vede lottare insieme lavoratori inglesi ed ebrei, riuscendo a togliere questi ultimi da un consolidato isolamento sociale. I sarti del ghetto infatti impediscono che lo sciopero – inizialmente proclamato in un altro quartiere, nel West End – venga neutralizzato semplicemente assegnando le commissioni ai laboratori tessili dell’Est End nei quali sono impiegati, scegliendo dunque di incrociare anch’essi le braccia e di unirsi alle rivendicazioni degli altri compagni di lavoro che chiedevano l’abolizione del salario a cottimo, la proclamazione delle nove ore di lavoro giornaliero e l’assunzione di soli lavoratori sindacalizzati. Questo evento, dall’esito inaspettato, costituisce per lei l’inizio di una stagione di tumultuosa agitazione sociale, cui tuttavia lo scoppio della Grande Guerra pone bruscamente fine. Nel 1916 viene arrestata per il suo attivo impegno nel movimento antimilitarista. Nell’agosto del 1918 l’appello per la sua scarcerazione viene accolto dal ministero degli Interni inglese, ma viene vincolato a una sua espulsione verso l’Olanda e alla clausola di interrompere i rapporti con l’estero, compresi quelli con Rudolf Rocker. Witkop rifiuta e dovrà attendere fino all’ottobre del 1918 per poter tornare in libertà su suolo inglese.
A sinistra: la copertina del programma della Frauenbund edito dalle edizioni di Fritz Kater nel 1923.
A destra: Milly con il figlio Fermin (1907-2004) durante i suoi primi anni di vita nell’East End londinese.
Nascita e sviluppo della Syndikalistischer Frauenbund
Dopo l’intensa esperienza sindacale inglese, Witkop si trova nel dicembre del 1919 a Berlino dove partecipa alla costituzione della Freier Arbeiter-Union Deutschlands (FAUD) ispirata al comunismo libertario di Kropotkin, al principio dell’azione diretta di Bakunin e al mutualismo di Proudhon. È dunque quella tendenza socialista che a causa di un insanabile contrasto con i marxisti è stata espulsa dalla Prima Internazionale nel congresso dell’Aja del 1872, per dare poi vita lo stesso anno a Saint-Imier all’Internazionale Antiautoritaria. La FAUD – il cui numero di iscritti ammonta inizialmente a 112.000, affermandosi così come il movimento libertario di massa più importante della storia tedesca – viene fondata con lo scopo esplicito di contrastare il tentativo di Lenin e del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) di influenzare il movimento operaio europeo per mezzo della Internazionale sindacale rossa (in russo Profintern), e adotta come proprio statuto la Prinzipienerklärung des Syndikalismus scritta su commissione proprio da Rudolf Rocker.
I punti essenziali attorno ai quali ruota l’azione politica della FAUD sono due. Il primo prevede, in aperto contrasto con il concetto di “dittatura del proletariato”, il passaggio (antiparlamentare) dal monopolio capitalistico a una società senza classi di produttori federati, basato sulla convinzione che “il sindacato non sia in alcun modo un prodotto temporaneo della società capitalista ma il nucleo centrale della futura organizzazione economica socialista”. Il secondo riconosce altrettanta rilevanza all’etica e alla formazione individuale, in virtù della considerazione che “il socialismo è in ultima istanza una questione culturale”, mostrando in ciò una certa affinità con la concezione umanista ed educazionista di Gustav Landauer. Fin da subito la FAUD si dimostra interessata ad aumentare il numero delle proprie iscritte, chiedendo “a tutte le sezioni locali di prendere l’iniziativa per avvicinare al movimento non solo le donne occupate nell’industria, ma anche le casalinghe e le addette ai servizi domestici”. In seguito a questo appello nascono dunque dei gruppi anarcosindacalisti di sole donne, i quali successivamente – nell’ottobre del 1921 – si federano fra di loro andando a costituire una vera e propria organizzazione autonoma all’interno della FAUD. Il comunicato con cui si annuncia la nascita della lega sindacalista delle donne, la Syndikalistischer Frauenbund (SFB) – con sede a Berlino-Steglitz e con Hertha Barwich in qualità di rappresentante legale – viene pubblicato nel primo numero dell’organo ufficiale dell’organizzazione, “Der Frauenbund”, che viene mensilmente allegato al settimanale della FAUD, “Der Syndikalist”. Questa pubblicazione mensile è primariamente uno strumento di coordinamento della SFB, dalle sue colonne si possono leggere le risoluzioni congressuali, i protocolli delle attività delle sezioni locali, alcuni articoli programmatici, mentre l’elaborazione politica vera e propria viene realizzata in sede assembleare. I luoghi dove la SFB ha una maggiore influenza sono le regioni Renania e Vestfalia, e le città di Dresda e Berlino, dove nel novembre del 1922 risultano attive più di 200 donne, fra cui la stessa Milly Witkop. Le difficoltà sono molte, a causa dell’inflazione e della disoccupazione galoppanti che limitano le possibilità delle iscritte di finanziare il giornale: “Der Frauenbund” non può essere pubblicato tra la primavera del 1923 e i primi mesi del 1924, mettendo in grave crisi l’esistenza stessa dell’organizzazione. Nel luglio del 1923 esistono circa 50 sezioni, a fronte di 500 gruppi locali della FAUD, e lo scopo della SFB è quello di organizzare un numero di donne pari a quello degli uomini.
Da sinistra a destra: Ida Pilat Isca, Milly Witkop e Rebecca Landsman in una foto del 1953 che le ritrae durante un incontro alla Mohegan Colony (Westchester County, New York State).
Il programma della Syndikalistischer Frauenbund
Per chiarire l’orientamento generale della SFB, risultano particolarmente incisivi i Zehn Gebote für die Syndikalistin [i Dieci comandamenti della sindacalista], pubblicati nel luglio del 1922:
1. Amplia le tue conoscenze in tutti gli ambiti del sapere. Perché sapere è potere.
2. Leggi attentamente “Der Frauenbund”, così come tutti gli opuscoli e i libri a esso legati.
3. Rifiuta di dare il tuo voto alle elezioni.
4. Allontanati dalla Chiesa. Non mandare più i tuoi figli alle lezioni di religione, perché la Chiesa è al servizio dei ricchi e dei potenti.
5. Vivi a casa in modo socialista [Lebe zu Hause sozialistisch], vale a dire: vivi secondo l’uguaglianza e in libertà con tuo marito e i tuoi figli.
6. Educa i tuoi figli a essere uomini liberi e crescili secondo lo spirito delle conoscenze scientifico-naturali.
7. Pratica il mutuo appoggio con i tuoi vicini e con la tua comunità.
8. Partecipa a tutte le attività della Lega delle donne [Frauenbund].
9. Sostieni tutte le lotte dei tuoi compagni proletari per il progresso e la libertà. 10. Fai propaganda sempre e dovunque per avvicinare nuove compagne di lotta [Mitkämpferinnen] alla Lega delle donne.
Accanto ai tipici elementi costitutivi del sindacalismo anarchico, quali anticlericalismo, astensionismo, rifiuto delle istituzioni statali e necessità della lotta di classe (che la SFB condivide d’altronde con la FAUD, di cui fa parte), emerge qui una tendenza a rivendicare l’indipendenza intellettuale della donna e il suo diritto ad auto-organizzarsi per perseguire scopi che si riferiscono in primo luogo a una specifica identità di genere. Tale esigenza scaturisce dal fatto che – nonostante la retorica anarchica in favore dell’emancipazione universale del genere umano – il tema dell’uguaglianza di genere e della critica alla dominanza sociale della figura maschile viene percepito da parte delle donne anarcosindacaliste come non adeguatamente affrontato e soprattutto non sufficientemente problematizzato nelle relazioni interpersonali quotidiane: “Sull’emancipazione della donna si è detto già molto e si è scritto ancor di più […]. Ma solo pochi pensatori coraggiosi hanno trovato il coraggio morale di trarre davvero le conseguenze di questa consapevolezza cui sono approdati”. In numerosi interventi pubblicati su “Der Frauenbund” viene rivendicata la questione fondamentale, e ancora più originaria, del diritto delle donne di poter prendere parte come comprimarie alla costruzione del socialismo. Così, parafrasando l’affermazione di un altro sindacalista, Milly Witkop scrive: “Certo, se soltanto la donna potesse pensare, ma pensa troppo poco, o forse proprio per niente”.
Coerentemente con uno degli essenziali principi etico-morali della SFB, secondo cui l’uomo e la donna devono diventare compagni e “completarsi a vicenda” per condurre una battaglia comune contro “la sottomissione e lo sfruttamento”, non sono state poche le figure maschili che hanno contribuito allo sviluppo della SFB: Fritz Oerter, Felix A. Theilhaber, Theodor Plievier e Max Winkler. In situazioni di difficoltà organizzativa, ovvero quando le iniziative della SFB non possono essere condotte autonomamente dalle sindacaliste donne, il coinvolgimento di figli e mariti viene esplicitamente richiesto. Ciò tuttavia non pregiudica la possibilità di condurre una decisa campagna contro quella parte di movimento anarchico che ancora tratta le donne come “fedeli servitrici” o “oggetti del desiderio” e che non ritiene indispensabile che l’armonia della famiglia debba conciliarsi con il libero sviluppo dei “valori emozionali della donna [Gefühlswerte]”.
Il rimprovero che viene mosso dalla SFB a parte dell’anarcosindacalismo è dunque quello di perseverare in una contraddizione che porta a riprodurre le medesime strutture patriarcali ereditate da quella società capitalista che si dichiara idealmente di voler superare, mantenendo dunque la tradizionale posizione di potere del capofamiglia legittimato a prendere decisioni per la moglie e per i figli. Tale contestazione interna condotta dalle militanti anarcosindacaliste ruota in particolare attorno a tre elementi. Il primo riguarda il mancato riconoscimento da parte degli anarchici dell’artificiosità insita nella differenziazione tra sfera pubblica e privata, in virtù della quale l’ambito della riproduzione, dell’educazione e dei lavori domestici non viene considerato degno della stessa riflessione politica che invece meritano le relazioni sociali al di fuori delle mura di casa:
Nonostante le grandi speranze accese dalle idee socialiste, la vita familiare continua nel suo tipico stile reazionario. […] Se dappertutto il progresso ha fatto passi in avanti, nel rapporto tra lavoratore e imprenditore, nella vita sociale degli uomini, nello spirito delle scuole e delle lettere, al contrario nella vita familiare continua a regnare l’autorità dell’uomo, sia per quanto riguarda l’aspetto legislativo, sia – e soprattutto – per quanto riguarda l’aspetto degli usi e costumi.
Il secondo elemento invece concerne quella tendenza che si verifica quando le barriere tra pubblico e privato vengono effettivamente individuate e abbattute, ma il conflitto tra capitale e lavoro viene comunque considerato prioritario rispetto ai conflitti che rimandano all’uguaglianza di genere e al patriarcato. Di conseguenza, dalla donna vengono pretesi determinati sacrifici esistenziali affinché essa possa garantire la piena partecipazione politica del marito, con l’auspicio che queste “premesse spirituali per la creazione di una nuova vita in comune” tra i due sessi consentano di rinviare la questione al momento della sollevazione rivoluzionaria.
Il terzo e ultimo elemento della critica femminista della SFB fa riferimento alla mancata equiparazione tra l’alienazione del lavoro di fabbrica e quello delle donne impegnate nei lavori di casa: “Si sa che la cosiddetta divisione del lavoro presente nella grande industria esercita un influsso fatale sullo spirito del lavoratore, degradandolo sempre più a un automa; ma una simile manifestazione si verifica anche presso la casalinga”, benché l’origine sia in realtà diversa. Se infatti all’operaio vengono richiesti dalla macchina dei movimenti sempre uniformi, la donna è invece costantemente sollecitata dalle “più triviali piccolezze” e da una “infinità di cose banali” cui deve dare seguito nell’economia domestica. Proprio perché l’intera conduzione della casa grava unicamente sulle loro spalle, dovendo per di più – nel caso delle donne appartenenti alla classe operaia – far fronte a una limitata possibilità di investire negli strumenti necessari, ciò produce inevitabilmente un sovraccarico di lavoro che non consente alle donne di “concentrare il proprio spirito su altre faccende” o addirittura di “sentire il bisogno di uno sviluppo spirituale”.
Secondo la SFB, la donna proletaria risulta pertanto “doppiamente assoggettata”: la sua condizione è quella della “schiava dello schiavo”, vale a dire che essa sconta tanto lo sfruttamento dei rapporti economici capitalisti (i quali, in base alla posizione lavorativa del marito, si ripercuotono su tutto il nucleo familiare), quanto l’oppressione derivante dal ruolo socialmente secondario a essa ascritto in qualità di moglie e di madre. Inoltre, nel caso delle donne impiegate nei vari rami dell’industria, la SFB denuncia come talvolta “gli uomini addirittura richiedano che il lavoro femminile sia ritenuto inferiore al loro”, trattando le donne alla pari di mere “concorrenti”. Dato che la donna viene investita di una quantità sempre maggiore di responsabilità familiari, educative, emotive ed economiche, la SFB si chiede di conseguenza come possa accadere che anche dentro il movimento socialista rivoluzionario, anziché porsi come chiaro obiettivo quello di un alleggerimento e di una diminuzione dell’alienazione femminile, si finisca in realtà per considerare l’“indifferenza politica” della donna non una situazione nella quale essa si trova costretta, a causa del doppio sfruttamento, bensì un tratto tipico dell’essere-donna, dando così prova di non voler in larga misura affrontare le forme di dominio che sussistono nel rapporto tra i sessi.
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